Scendeva dal tram delle 6.37, centocinquanta metri per arrivare a Parco Sempione, appoggiava sulla panchina il sacchetto del pranzo; sedutosi, aggiustava i pantaloni sopra il calzino. Ogni giorno così.
Macchie colorate gli brulicavano intorno, voci mischiate. Disinteressato al sole e alla pioggia, aspettava. Nei feriali quanto nei festivi, che ci fosse o no il campionato, col caldo e col freddo, attendeva. L’immobilità massimizzava le chance di incontrarla di nuovo. Aspettava la donna vista sul tram il venti aprile e scesa alla fermata del parco prima che lui potesse parlarle. Non un nome, né timbro di voce, non un numero, né segno particolare. Eppure, sapeva di amarla.
Castana, lunghe dita e un sorriso come sospeso: cercandola non l’avrebbe trovata, perché tutto si muove, gira, c’è da uscirne pazzi, non ci sarebbe riuscito neanche con cent’anni a disposizione, neanche avesse avuto un’idea. Milano gli pareva un groviglio di rotelle e ingranaggi e levette e pulegge. A ogni incrocio, nuove combinazioni e rimbalzi; svolte, porte, verde o rosso, un continuo, disatteso sfiorarsi. Perciò, aspettava.
Al ritmo delle maree gli sfilavano davanti passeggini, amanti, vecchi, cravatte, ragazzi, giocolieri, odori, panini, cani. I passi più lenti si accompagnavano a cenni di saluto. Attorno al laghetto, impiegati in pausa pranzo si esponevano al sole, disturbati dal sopraggiungere di un pallone.
“Si vive di più muovendosi o stando fermi?” Non avrebbe saputo rispondere.
Seduto sulla sua panchina infilava lo sguardo tra gli alberi fin dentro la cruna dell’Arco della Pace. Seguiva l’arco del sole, controllava l’orologio, l’orario del tram. Col tempo imparò come cambia la luce. E quando qualcuno gli rivolgeva la parola, anche allora, a schiena dritta e mani sulle gambe, non distoglieva lo sguardo dal paesaggio, nel caso lei comparisse.

«Buongiorno, le lascio un volantino: Chiesa della Destinazione. Senza impegno, senza obblighi, ci troverà le cinque regole per capire qual è il proprio scopo nella vita. In fondo alla pagina ci sono anche i nostri contatti.»
«Mi tolga una curiosità: come fa quando deve andare al bagno?»
«Vede, io e mio marito non potevamo avere figli. Ci ho fatto una malattia, lei capisce, le famiglie e le cognate, erano cose che non stava bene confidare, “non è il momento”, si diceva, poi cambiano le cose, insomma gliela faccio breve… scusi non gliel’ho nemmeno chiesto: ha tempo?»
«Ehi, ce l’hai ancora il culo? A stare seduto secondo me non ce l’hai più, neanche ti ricordi come è fatto e allora guarda qua!»
«Via, maleducati! Non se la prenda, i ragazzi sono diventati dei vandali. Avessi fatto una cosa simile mio padre mi avrebbe dato la cinghia. Si ricorderà forse, siamo su per giù della stessa età io e lei. Noi che abbiamo vissuto l’anno di Abbey Road: millenovecentosessantanove. Cosa vuole che capiscano, generazioni senza Beatles.»
«Devo farle una domanda, non ci dormo la notte. Guardi questa foto. È il fratello di mio marito, che non vediamo da due anni. Scomparso. Noterà quanto le assomigli, certo tolta la barba, dunque mi chiedevo… ecco, mi chiedevo se lei è sicuro di sapere chi è. Intendo dire, se per caso non abbia perso la memoria, un incidente, un ictus… può capitare, se ne sentono tante in giro.»
«Perciò ho pensato: a cosa serve affannarsi? Se mi danno il posto bene, altrimenti significa che non era destino. Non si vive per la carriera. L’ho capito da lei devo proprio ringraziarla. Certo, un ultimo tentativo valeva la pena di farlo, sicché ieri mentre ero a pranzo con il capo…»
«Maestra. Quando ancora insegnare contava qualcosa. Incontro per strada i miei alunni, mi salutano pezzi d’uomo alti così, figuriamoci se mi ricordo il nome di tutti quelli che sono passati sul mio registro. Faccio finta, e via.»
«Perché se ne sta qui tutto il giorno? Mi faccia indovinare: il divorzio. Io non riuscivo più a mangiare la pasta. Dopo il divorzio, intendo. Mi ricordava lei. La pasta, intendo. Mi ci sono voluti due anni; può capire la gioia a rimettere in bocca un’amatriciana.»

Centinaia di vite senza identità gli passavano davanti, ma non quella che lui, pur non conoscendo, amava.
Il ventitré novembre qualcosa cambiò. Un ragazzo si sedette alla sua sinistra, anch’egli guardava diritto. I pantaloni, saliti a metà gamba, svelavano caviglie a spillo.
«Siamo aspettatori» esordì il giovane al levarsi di uno stormo.
«Già, la Natura è uno spettacolo» rispose lui fissando dinnanzi a sé. «Anche la gente che passa di qui lo è: come essere a teatro, in prima fila.»
«No, dicevo “aspettatori”. Ci sono i rincorritori e gli aspettatori. Come noi.»
«Ragazzo mio lei ha freddo.» Senza distaccare lo sguardo gli porse il thermos di caffè.
«Ero venuto a dirle che non siamo gli unici.»
«Ah.»
«Ci sono altri aspettatori nel parco, ciascuno sulla sua panchina. Io di solito sto lì, vede? Sotto al faggio.»
Il punto indicato era appena visibile in mezzo all’aria umida. Il giovane riprese: «Tutta brava gente, dovrebbe conoscerli. Sul lato sud una bionda, trentasei anni. Ha incrociato un uomo al supermercato, l’ha visto nella corsia dei detersivi e poi di nuovo alla cassa».
«Da quanto lo aspetta?»
«Livello base, appena quattro mesi. Vicino al laghetto invece c’è un veterano. Aspetta da un anno e mezzo, non so ancora quanto durerà. Ex libraio, che ora ha ceduto l’attività per l’attesa. Un giorno nel reparto guide turistiche c’è la donna più bella che abbia visto, non fa in tempo a chiederle: “Posso aiutarla” che lei è già uscita dal negozio.»
«Perché me lo sta dicendo?»
Il ragazzo si sporse in avanti, i gomiti sulle ginocchia e disse: «Potremmo darci una mano».
«Vale a dire?»
«Un’attesa multipla» aggiunse a mani aperte. «Ci pensi bene: se ognuno di noi nelle diverse zone del parco aspettasse non una persona sola ma anche le persone attese dagli altri, le probabilità di riuscire aumenterebbero in modo geometrico.»
«Mi sembra complicato.»
«Un amico fa ritratti ai passanti in Piazza del Grano; potrebbe disegnare le persone che aspettiamo, così ognuno avrebbe un’idea dei volti da aspettare per gli altri. Starà pensando che c’è un margine di errore, ed è vero, tuttavia vale la pena di tentare.»
L’altro giocava con la sua barba: «Secondo lei, si vive di più muovendosi o stando fermi?».
«Non mi sta ascoltando» esclamò il ragazzo. «Le sto offrendo di moltiplicare le possibilità di successo.»
«Lei è giovane. E parla come un giovane.»
«Bisogna pure che ci proviamo, a far succedere qualcosa!», il pomo d’Adamo tremava dall’emozione, mentre stropicciava i pantaloni con le mani a pugno.
«Non si distragga, guardi avanti giovanotto!» Poi, addolcita la voce, aggiunse: «Aspettare richiede più coraggio che rincorrere. Va messo in conto quando si sceglie di diventare aspettatori, come ci ha definiti lei. Vede, non ho un nome da amare, eppure l’ho vista. A volte dubito persino della sua esistenza: ma è lei che aspetto».
«Perdiamo il tempo coi sofismi! Se non escogitiamo qualcosa, non arriveremo mai al punto», ora gridava, sbracciando, «e fa già un freddo cane, se n’è accorto? Se va avanti così, passeremo la vita aspettando».
«Può darsi.»
Il ragazzo lasciò cadere le braccia, guardò in alto per non darla vinta alla lacrima che gli aveva riempito l’occhio destro. Chiese, sottovoce: «Perché non ci vuole aiutare?».
«Vede, lei sta seduto su una panchina, ma si agita come un rincorritore. Aspettare è guardare in faccia la statistica con gli occhi di Clint Eastwood in un film di Leone. Bisogna esserci nati.»
Il giovane deglutì il pianto, sospirò, si alzò, disse: «Buona fortuna» guardando davanti a sé.
Tra le fronde, le panchine si trovavano al loro posto, alla stessa distanza di sempre.

«Lo vedi quel tipo? Di gente strana ne vedo ogni minuto, e lì fuori ce n’è più d’uno, ma questo li batte tutti» disse la cameriera appoggiata al bancone, in attesa che la collega preparasse il vassoio con le ordinazioni.
«Sì. Lo chiamano “l’uomo-panchina”» rispose la barista senza distrarsi. Le sue mani pareva avessero occhi: si muovevano svelte tra bicchieri, tazzine, bottiglie e fette di frutta.
«Non sei curiosa di sapere che guarda davanti a sé?»
Laura sollevò il bicchiere, versò l’Aperol, lo ripose, mise il prosecco, con la destra spruzzò l’acqua, con la sinistra afferrò l’arancia.
L’altra tamburellava le dita sul bancone e roteava la caviglia destra, solita a gonfiarsi. Attraverso le teste dei clienti, scorgeva il cappello grigio nella stessa posizione da più di sette mesi. «Non ha mai voltato la faccia da questa parte. Mai venuto qui al chiosco neanche per un caffè. Ti sembra normale?»
«No, forse no.»
«Ha un aspetto distinto, non diresti che è matto.»
«Che sia matto lo dici tu» disse Laura, mentre svuotava il filtro del caffè a suon di martellate.
«Va bene, te lo dico: ieri gli ho parlato» sospirò, come fosse stata costretta a confessare.
«Ah sì?»
«Aspetta la donna della sua vita.»
«Che male c’è a volere una compagna?» Controllò sul foglietto se il caffè fosse macchiato caldo o freddo.
«Non la sta cercando, la sta aspettando.» Laura sbuffò al cartone di latte che non si apriva: «E con questo?».
«Il fatto è che non sa chi sia. Non sa il suo nome, né che lavoro faccia, nulla. L’ha vista una volta sola sul tram delle 6.37.»
«Quindi?»
«Si è innamorato di una donna di cui non sa nemmeno il nome. Una persona senza nome non esiste, dico io, e invece lui ci crede: sette mesi, sette. Ci pensi? Dovremmo chiamare quel programma TV che parla di gente estrema, come s’intitola?»
Laura guardò nella direzione dell’uomo, poi stappò il succo d’ananas: «Lui ama una persona che non conosce, d’accordo. E tu? Conosci la persona che ami?».
«Toh, la filosofa del bar Mazzini» rispose la cameriera con un sorriso, aggiungendo: «E visto che non me lo hai chiesto, te lo dico lo stesso: “Castana, belle mani, media statura, e l’aria di chi aspetta che succeda qualcosa”. Così l’ha descritta. La donna senza nome pare tale e quale a te. Perché non vai lì a presentarti? Sarebbe incredibile se…».
Laura allargò le braccia. «Chissà. Aspetterò che si volti, se mai lo farà, e allora lo sapremo.»
«Che aspetti? Vai!»
«C’è da portare l’ordinazione ai ragazzi del dieci; veloce, se no il caffè si fredda.»


Francesca Zanette vive a Treviso e lavora come brand designer free-lance. Si occupa di strategia marketing e crea contenuti di copywriting, fotografia e visual design. Due sono gli oggetti che tiene sempre nella borsa: una stilografica Lamy e una fotocamera Nikon. Appassionata da sempre di arte e letteratura, scrive opere di narrativa e alcuni suoi racconti sono stati pubblicati su riviste online, cartacee e in antologia (Reader for Blind, Digressioni, ItalianDirectory, Tuga Edizioni). Il sito web in cui racconta il suo lavoro è www.francescazanette.com.