Tra poco calerà il buio. Il rossore del tramonto si spegne dentro ai grigi fumi delle ciminiere, i palazzi gemelli tutti in fila coprono le campagne in lontananza e le nubi tendono a un rosa artificiale.
Klaus Käfig siede al suo pianoforte a muro, insiste sulle settime diminuite, cerca un’armonia capace di descrivere la perfezione di quel paesaggio filtrato dalla finestra al settimo piano del suo appartamento a Berlino Est. Da quattro ore e mezza tortura gli stessi tasti bianchi e neri, pigia sulle stesse note, ascolta i rintocchi di campane che seguitano a suonare anche se nessuno dice più messa; gioca con le prime, le terze e le quinte.
Non vuole soffermarsi sulla congruenza tra l’andamento orizzontale e verticale, non gli interessano i motivetti da mandare a memoria e sa che non è più il tempo di comporre musica da ascolto. Le orchestre sinfoniche da decine di elementi resisteranno solo per glorificare il passato: il futuro risiede nei suoni, nella loro concretezza, nel loro manifestarsi sullo strumento e nella vita.
Le tarde sonate di Beethoven sono state per Klaus il biglietto d’ingresso nell’Accademia e nel professionismo degli ottantotto tasti, e lo sono ancora: gli servono per pensare, così come i notturni di Chopin lo aiutano a sciogliere le dita e a far defluire la nevrosi.
Ma l’esecuzione non basta, riflette Klaus mentre le dita sfiorano l’ottava centrale del pianoforte: la riproduzione ci sta fregando, i giradischi ci rimpiazzeranno uno per uno. Occorre allora lavorare per loro, agire di conseguenza, percorrere nuove strade. Le nostre città non sono più le stesse: cinema pieni, sale da concerto vuote. Solo i jazzisti riempiono i locali: del resto, propongono intrecci interessanti, fraseggi nuovi, mai sentiti. E quando quei sette segni escono dal seminato del pentagramma, le persone drizzano le orecchie.

Klaus Käfig sa che tutto è già stato scritto. Ogni sequenza di note perlopiù lineare risulterebbe al suo orecchio un inutile disturbo. La quantità di capolavori musicali alla quale l’uomo può attingere è vasta, come innumerevoli sono i suoni esistenti in natura, o quelli creati dagli umani per mezzo dei loro marchingegni.
Per lui, oggi, il rumore del traffico berlinese non vale meno della Sinfonia Jupiter. S’inchina alle sperimentazioni del gigante Luigi Russolo, ammira le dissonanze e i giochi elettrotecnici dei più giovani Berio e Nono e di altri colleghi italiani, con i quali non gli è permesso di avere contatti diretti. Fortuna che la sua perizia tecnica d’artigiano e la precisione d’ingegnere meccanico gli hanno permesso di accedere alle stanze dei fili, dei bottoni e delle valvole. Ha fornito al regime il suo mestiere: cimici, cavi, cuffie, radioline e transistor con cui i signori negli alti castelli possono verificare ogni respiro dei compagni della Repubblica Democratica Tedesca, quella di là dal Muro, dalla quale tutti vogliono ma non possono fuggire, pena la galera o la morte, e dove Klaus gode di estrema libertà di movimento. Può vagare per la città, munito di magnetofono captare i rumori nascosti nei vicoli coperti dallo scorrere delle Trabant sugli stradoni, dai clacson e dai campanellini delle biciclette, dagli annunci dei megafoni che urlano la Linea del Partito.
Rientra a casa, sale quattordici rampe di scale e non smette di registrare: ogni passo un’intensità diversa, ogni gradino un battito, una pausa, un intervallo.
Spegne il magnetofono e si rimette al piano. Un pentagramma nudo lo minaccia. Riabbassa gli occhi sugli avori bianchi e comincia a martellarli: piano, forte, fortissimo; pianissimo, di nuovo forte e ancora piano.
Riavvolge il nastro del magnetofono e risente il gracchiare scomposto dell’apparecchio, la restituzione acustica della sua città: mentre ascolta, al pianoforte prova a tessere una trama che possa corrisponderle.
Avendo percosso il piano, ora può torturare il pentagramma e infliggergli segni che nemmeno somigliano alle crome, alle minime e alle semiminime del tempo finito dei suoi studi al Conservatorio: gli ricordano le intermittenze dei lampioni guasti che, come le lampadine di casa sua, prendono a fare quel suono irriproducibile per bocca umana, da lui sigillato nelle cento e più bobine sparse per i settantasette metri quadri di casa sua.
Gli scarabocchi dipinti sulle cinque righe e nei quattro spazi non paiono obbedire alla scansione delle battute, ormai obsoleta, secondo Klaus Käfig: niente al confronto con la ritmica metronomica del tassametro, degli orologi meccanici, delle modulazioni di frequenza delle radio.
Ha creato qualcosa di nuovo, mai concepito dai suoi predecessori o dai suoi coevi. Può andare in sala d’incisione e mettere alla prova i frutti del suo lavoro, ma prima ha un’illuminazione: riempire di chiodi e bulloni il suo pianoforte. Ha già messo in conto la scordatura, la deflagrazione dei martelletti; sicché tenta, e non se ne pente. La sua opera è compiuta, può siglarla nei solchi di un trentatré giri.

Il disco di Klaus Käfig segna la rivoluzione. Il regime non approva, ma con lui tace. I colleghi applaudono, qualcuno sbeffeggia e qualcun altro è perplesso. La stampa grida al miracolo e allo scandalo, mentre il pubblico dei compagni ignora senza malizia.
L’artista è però consapevole di non aver espresso al massimo il suo potenziale: vuole spingersi oltre, svuotare il suono anziché contaminarlo con le suite urbane, con le macro-sinfonie periferiche. Vorrebbe ridurre il tutto all’essenza, tornare indietro fino a prima della nascita della musica, prima dell’uomo e della sua voce, della natura e dei suoi echi.
Klaus Käfig suonerà il silenzio.
È impossibile, pensa, mentre dal suo terrazzo ascolta le automobili, il gorgoglio dei macchinari, gli ascensori che scendono e salgono, il tintinnio dei mazzi di chiavi in alternanza alle sirene. Non si può ottenere il silenzio, né dentro né fuori da Berlino Est. Nessun dio riuscirebbe a ricreare il suono del Silenzio, scrive Klaus su un foglietto ingiallito che poi getta all’interno del pianoforte assieme alle viti, ai chiodi e ai bulloni.

Col disco le acque si sono un po’ mosse: mille copie, per un disco come il suo, sono tante. Lui ne è contento, pur sapendo che con i soldi ricavati non potrà pagare alcuna spesa. Malgrado il Partito provveda a tutto, Klaus Käfig sente il bisogno di un maggior sostegno economico: i soldi finiranno presto, e il potere prima o dopo smetterà di darglieli. Non sa come fare, non ha mai riflettuto su una simile eventualità. Pensa di metter su un quartetto jazz, ma a Berlino Est nessuno lo farebbe esibire.
Dopo la colazione, un mattino Klaus riceve una telefonata: è Johannes Schultz, uno scrittore vessato dall’Apparato col divieto di scrivere quel che sente; si mantiene grazie a romanzi polizieschi firmati con uno pseudonimo. L’amico gli ha fatto una chiamata di cortesia ma Klaus gli racconta delle sue difficoltà.
E dire che dovremmo esser tutti compagni, gli dice Johannes.
Quei soldi non mi sono sufficienti, risponde Klaus, e poi non mi sento libero.
Credo siano in pochi a sentirsi liberi qui, amico.
Dopodiché Johannes gli dà un’idea; gli racconta di un quiz televisivo italiano dove si vincono un bel po’ di soldi: se sei esperto di un argomento, loro ti fanno tutte le domande possibili, e se rispondi a tutte sei sistemato per un pezzo.
Ma di cosa potrei essere esperto io?, chiede Klaus.
Ma di funghi, no? È tanto che non te ne occupi, lo so, ma ricordo che te la cavavi meglio che con la musica e la matematica.
Ci devo pensare.
I due si salutano augurandosi buona fortuna.

Il regime gli ha dato il permesso di espatriare perché gli è ancora grato. Oltretutto Klaus Käfig sta acquisendo celebrità anche fuori dal suolo patrio: farlo muovere a suo piacimento è quindi la scelta più saggia.
Klaus atterra a Roma, scende dall’aereo e viene travolto dal sole. Accolto dagli emissari della televisione di Stato, viene portato in giro per l’Urbe, dove i colori sono accesi e i suoni intensi. Si pente di non avere con sé il magnetofono, e gli sovviene di quella volta in cui percorse in solitudine la Transiberiana, da Mosca a Vladivostok, giusto con qualche foglio e un po’ d’inchiostro per segnalare ogni sussulto dello sferragliare eurasiatico del convoglio.
Si trova ora negli studi televisivi romani, gli sembra di essere in una pellicola fantascientifica, in un delirio futuribile che lui non concepisce: ne è intimorito e affascinato, lo ama e nel contempo lo detesta. Quando il presentatore, un signore biondiccio con gli occhiali e di origini americane, gli fa cenno d’indossare le cuffie, lui esegue da buon soldato.
Le domande cominciano, e lui replica esattamente a ognuna di esse nel suo ottimo italiano, imparato da Verdi, da Puccini, dalla Commedia di Dante e dalle ottave ariostesche. Non dimentica un nome, una spora, un colore, un gambo, una proprietà organolettica, un veleno: è un’enciclopedia vivente delle muffe, glielo dice anche il conduttore nell’annunciargli la sua prima vincita in denaro.
La trasmissione giunge al suo epilogo. Klaus Käfig ha vinto il vincibile.
Nell’attimo in cui si leva le cuffie, il presentatore gli comunica d’aver saputo da fonti certe che lui è un musicista d’avanguardia e gli domanda se per cortesia potrebbe eseguire qualcosa di suo.
Klaus non può sottrarsi. Si fa portare un pianoforte, quattro caffettiere e una manciata di bulloni. Erano anni che non vedeva un piano a coda: lo accarezza e ci rovescia dentro i bulloni. I presenti in studio, conduttore compreso, osservano basiti, ancor di più quando richiede un piano cottura per dare il via alle caffettiere piene d’acqua.
Klaus può sedersi al piano e confrontarsi con le note. Sceglie un accordo di nona maggiore e uno di settima aumentata, li alterna con la mano sinistra mentre con la destra improvvisa un jazz robotico, trasfigurato dal metallo e contrappuntato dal bollire delle caffettiere, il cui fischio si fa più acuto verso la fine del brano; quando dà i tocchi finali, le caffettiere sono in procinto di scoppiare e due tecnici corrono a spegnere il gas.
Il pubblico plaude ma non sa a cosa. Klaus fa il suo inchino. Il conduttore, perplesso ma divertito, gli si avvicina, ripete il suo nome e la somma vinta, si complimenta con lui per la musica e infine lo saluta.
È un peccato che se ne vada, gli dice.
Io me ne vado, ma la mia musica resta, replica Klaus.
Be’, sarebbe meglio che lei rimanesse e che la sua musica se ne andasse.
La gente ride, Klaus Käfig no.
La trasmissione si chiude. Cala il sipario.
Klaus Käfig è stato visto da milioni di telespettatori. Gli italiani in possesso di una televisione hanno partecipato alla sua vittoria e hanno ascoltato la sua musica. I suoi dischi, prima introvabili, per qualche giorno compaiono nelle vetrine di tutti i negozi. Klaus ha consolidato la sua fama, e ora ha l’opportunità di una nuova vita. È dinanzi a un bivio: tornare a Berlino Est o migrare nella parte Ovest della città.
Il panico lo divora mentre con la valigia in mano vaga per l’aeroporto. Deve decidere dove andare. La tentazione dell’occidente è forte, ma la paura è troppa: quelli del Partito ci metterebbero un minuto a trovarlo, sebbene lui conosca ogni loro segreto tecnologico. Potrebbero però essersi rinnovati a mia insaputa, pensa, e se gli oggetti che ho progettato sono per loro tanto segreti, perché allora continuano a tenermi in vita? Non sa darsi una risposta, eppure non appena si trova di fronte alla ragazza che gli chiede dov’è diretto, Klaus sa cosa dire. Solo due parole: New York.