Il rumore che veniva dalle barche a vela ormeggiate al Cus, il rumore dei cavi di metallo sbattuti dal vento sugli alberi delle barche a vela. Era come un campanello, le piaceva sentirlo, ding, ding, ding. Si sovrapponevano l’uno all’altro, in maniera disordinata. Senza seguire un ritmo. Le entrava in testa, ma non le dava fastidio, le ricordava di stare sveglia, di non cedere al torpore, alla tristezza. Di cercare sempre qualcosa per cui stupirsi. Sembrava un campo di cicale, ma fatto di campanelli, mille campanelli mossi dal vento e nessuno che potesse fermarli, o che volesse.
Era una cosa a lei estranea, del mare conosceva solo la riva, le onde, la calma piatta, di nuovo le onde, ma di barche non ne sapeva nulla, né le interessavano, eppure quel rumore, ascoltato per caso, la sorprese e le piacque. Entrò nella sua giornata.
Guardava Jacopo prendere lezioni di nuoto, suo figlio più piccolo, tredici anni a settembre, luglio era agli sgoccioli.
Il vento, fortissimo, che non dava pace alle barche, ai loro cavi e ai loro alberi era caldissimo, violento.
Faceva rumore, passava vibrando vicino alle orecchie e non dava pace. O forse, sì. Era così forte che l’unica cosa che si potesse fare era arrendervisi e cercare di non volare via. Le sedie di plastica della terrazza che si affacciava sulla piscina scoperta e che guardava il mare e le barche a vela, sembravano leggere come fossero di carta per quanto facilmente si spostavano da una parte all’altra, gli asciugamani volavano dappertutto. Gli ombrelloni erano stati chiusi e i bastoni messi a terra, per non far volare via anche loro.
Aveva vinto il vento, gli istruttori dovevano alzare la voce per farsi sentire dai nuotatori in acqua, il vento trascinava via anche le loro voci.
Quando la lezione finì, Emma aspettò il figlio in sala d’attesa, il panino in borsa pronto per essere divorato dall’affamato quasi tredicenne, tenuto al fresco da una mattonella di ghiaccio da asporto chiusa in una busta, per non far bagnare tutto dalla condensa che, inevitabilmente, con quel caldo, si sarebbe formata.

Salirono in macchina, le chiavi ghiacciate. Fece la strada lunga, come sempre, quella che passava dal faro e di fronte l’ultimo braccio del molo del porto grande, la grande curva, dove sembrava che Bari finisse, per poi tornare indietro e allungarsi sempre di più, ma quella curva che non finiva mai era l’espansione massima della città, il punto dove la terra era riuscita a vincere il mare, che si andava a infrangere sui suoi muretti, come se andasse a bussare, a minacciare che prima o poi sarebbe entrato, avrebbe oltrepassato quel muretto protetto da enormi frangiflutti, rocce artificiali messe lì proprio per evitare il suo sopravvento, se solo lo avesse voluto. E così era, ma con il maestrale e la tramontana, non con quel vento caldo che veniva da terra e il mare lo spingeva un po’ più lontano, per il momento.
Solo per il momento.
Quando poi arrivava il vento del nord, il mare si gonfiava e le onde si schiantavano su quei muretti, li oltrepassavano, si andavano a infrangere sull’asfalto, bagnavano le auto che passavano di là, che facevano fatica a tenere la strada, spinte com’erano dalla forza del vento, che finalmente, aveva aiutato il suo compare, il mare, ad andare a sbeffeggiare quella terra, quei muretti, quell’asfalto, lasciandovi alghe e granchi sballottati e rincoglioniti dal viaggio non previsto, con i gabbiani sospesi a mezz’aria a planare controvento, fermi in un punto, chissà mai perché.
Forse era il loro unico modo per contrastarlo quel mare, dal quale, nonostante tutto non riuscivano ad allontanarsi, e allora, anziché cercare un punto dove il vento e il mare non arrivassero, volavano controvento, affrontando la tempesta e, sospesi a mezz’aria, la vincevano. Se avessero volato a favore di vento sarebbero stati sbattuti via, senza nessun controllo. Invece la loro scelta di affrontare il vento più forte che conoscessero li aveva salvati: se si fossero arresi, sarebbero stati travolti e vinti.
Controvento.
Così si sentiva lei, da quando era rimasta sola.
E controvento avrebbe continuato a resistere alla tempesta, dalla quale doveva salvare i suoi due meravigliosi figli, che insieme a lei, volavano controvento, e nonostante tutto, resistevano. Forti e fieri. Come quei gabbiani.

Quel pomeriggio, non accadde nulla di tutto questo, il vento era caldo e veniva da terra, lei spense l’aria condizionata dell’auto e aprì i finestrini per fare entrare il vento, affinché le accarezzasse i capelli, le asciugasse il sudore sotto la maglietta, riuscisse, in quei quaranta gradi, a farle venire i brividi. Amava quella sensazione. Non opporsi al caldo, ma sfruttarne le possibilità. Quando usciva da luoghi in cui l’aria condizionata le aveva ghiacciato anche le ossa, si fermava contenta al sole, per riequilibrare la temperatura, e di nascosto socchiudeva gli occhi, stringeva le spalle e sorrideva, sempre di nascosto. Prendendosi quel poco di sole che le serviva per tornare alla normalità. La sua.
Normalità.
Che significa normalità?
Se lo chiedeva ogni tanto, ma la risposta non se la dava, o molto più probabilmente, le importava poco.
Si svegliava tutte le mattine, preparava la colazione, usciva di casa e andava al lavoro.
D’inverno c’era l’accompagnamento a scuola dei ragazzi, ma d’estate i ragazzi rimanevano a casa a dormire, con il sole che filtrava dalle tapparelle delle loro stanze esposte a Est e si svegliavano con calma e passavano la stagione calda annoiati come tutti i ragazzi della loro età. Il sabato e la domenica andavano al mare, si riempivano di sole e salsedine e poi ritornavano a casa, sporchi, stanchi, ma rifocillati.
In quella casa, nonostante tutto, non mancava nulla, di certo non mancava l’affetto, l’amore, la gioia persino.
Il marito di Emma, Paolo, un giorno, non era più tornato, e non per sua scelta.
Tanto che Emma cominciò a sentire il richiamo di suo fratello che abitava lontano lontano e le diceva di trasferirsi lì, che una soluzione si sarebbe trovata. Ma la verità era che non riusciva a convincere i ragazzi ad andarsene.
E non solo per gli amici, la scuola, le solite cose.
Avevano paura di lasciare la città dove erano nati e in cui erano cresciuti, seppure per poco, con il loro papà, avevano paura di dimenticare i luoghi, i ricordi, lui.
Inutile dire che il loro papà non lo avrebbero dimenticato mai, ma la verità era che anche lei non se ne voleva andare. E poi quel lavoro le era sempre piaciuto. L’essere rimasta sola in studio un po’ la spaventava, e se non fosse stata all’altezza, e se avesse fatto errori, e se i clienti non fossero venuti più? Ma poi si rincuorava, il suo carattere mite e gentile aveva sempre incontrato nei clienti un sorriso e il rispetto. Non sarebbe capitato nulla di brutto, si diceva. Sarebbe andato tutto bene, si ripeteva. In caso contrario, si sarebbe trovata una soluzione.

© Francesca Galli

Quando i ragazzi uscivano il sabato con gli amici, ogni tanto andava a fare una passeggiata, ripercorrendo i luoghi che erano stati suoi e di suo marito.
Il gelato dove lo prendevano sempre, in una vecchia gelateria che era sempre rimasta uguale da quando l’avevano aperta negli anni Cinquanta, ed era passata di padre in figlio e faceva la panna più buona del mondo, con i granelli di zucchero che scricchiolavano in bocca. Aveva conservato le mattonelle giallo paglierino, gli infissi di ferro dipinti di nero, un po’ schiariti dal tempo e il bancone a pozzetto. Non faceva più di quattro o cinque gusti, perché erano preparati del tutto artigianalmente ed era impensabile farne di più, visto che in quella gelateria non era mai stato previsto un aiutante, faceva tutto il proprietario, prima il padre, poi il figlio, fino a quando un giorno, anche lui fu richiamato, portato via, risucchiato nel buio e quella saracinesca si abbassò.
Un’altra cosa che faceva nel tempo libero che non passava a casa era bere il caffè, che tanto piaceva a suo marito e a cui piaceva assaggiarlo in ogni bar possibile, e così aveva cominciato a fare lei.
Assaggiava caffè nei bar e ne stilava una segretissima classifica, tanto dettagliata – troppo ristretto, troppo lungo, barista antipatico, o gentile, il simpatico raddoppiava il bonus, arredamento di gusto o troppo anni Ottanta, pulito o pulitissimo, in quelli sporchi non ci entrava mai – quanto inutile, esattamente come sarebbe piaciuta a lui.
Ogni tanto quando era proprio in vena di far follie, si beveva una birra con un pacco di patatine, guardando il mare davanti al Circolo Canottieri Barion, a guardare i canottieri allenarsi in mare. Il massimo delle serate, il massimo della nostalgia, perché a lui sarebbe piaciuto tantissimo bere quella birra insieme a lei, chiacchierare di un film, o di un autore che a loro piaceva tantissimo o di un autore che piaceva a lui, ma che lei non riusciva proprio a leggere, e un po’ se ne vergognava e un po’, ma sempre vergognandosi, rivendicava il diritto di dire che un libro non le era piaciuto.
Mille volte aveva rifiutato inviti a cena o al cinema da parte di colleghi preoccupati della sua solitudine, chi più chi meno apertamente, chi più chi meno disinteressatamente, ma frettolosamente rimandati a casa. Tutti. Senza rimpianto alcuno. Mai.
Un’amica, invece, sì, al cinema o a mangiare una pizza di tanto in tanto, anche per non dire sempre no. Lo faceva con piacere. Facile, poi, soprattutto se abitava a cinquecento chilometri di distanza e veniva a Bari solo ogni tanto.
E così il sabato passava, andava all’appuntamento con i ragazzi e se ne tornavano a casa tutti e tre insieme.
Controvento.


Ivana Salvemini è nata a Bari, nel lontano 1973. È stata un’avvocata, è una mamma, scrive. Autrice del romanzo L’amore è la risposta, edito da L’erudita di Giulio Perrone Editore, ha collaborato ad antologie di racconti, sempre per lo stesso editore, già pubblicate e di prossima uscita.