I. Mattina
La telepromozione finisce. Sposto il microfono, sfilo le cuffie e alzo lo sguardo dal monitor. Gigi, due postazioni più avanti, bisbiglia qualcosa a Federica che muove di poco le spalle in una risatina contenuta. Le tocca un braccio e, continuando a elencare all’auricolare i vantaggi della nostra ultima promozione, le mostra sul cellulare una foto ritoccata di Carlo, il nostro capo, con i baffetti da Hitler. Lei scoppia a ridere.
Sospiro. Chissà come ci riesce. Siamo stati assunti lo stesso giorno, solo qualche mese fa, eppure quel napoletano sembra sentirsi già a casa.
Un tempo l’avrei guardato con sufficienza, perfino con snobismo, ora invece ho la sensazione che abbia capito qualcosa prima di me.
Carlo sbatte la porta del suo ufficio, indossa il soprabito e corre verso l’uscita. Si muove talmente in fretta che colpisce con il piede destro il cestino all’angolo. Palline di carta e bicchierini vuoti di caffè si spargono sul pavimento. Lui non ci fa nemmeno caso, prende il badge dalla giacca, lo passa davanti al sensore della porta ed esce veloce dalla sala call-center.
Non l’ho mai visto così. Di solito il mio capo è sempre concentrato come un militare pronto per la guerra. Decido di anticipare la pausa, prendo veloce il cappotto e provo a seguirlo. Esco dalla sala, mi volto a destra e a sinistra ma non lo vedo. Non c’è proprio nessuno, soltanto il muro di mattoni rossi, le scale antincendio e il posacenere d’acciaio fissato alla parete.
Sbuffo. Strizzo gli occhi per l’aria fredda. Spingo il cappello di lana fin sopra le sopracciglia. Il primo inverno milanese è quello più duro – me lo ripetono tutti – poi ci si abitua. Sì, ci si abitua così tanto a Milano che poi quando si torna a casa, ti sembra che vadano tutti lenti, tutti moggi, tutti senza forze. Me lo ripetono tutti. Ma proprio tutti.
Prendo una sigaretta e la porto alle labbra, l’accendo e aspiro. Alzo il mento e soffio una nuvola di fumo verso il cielo cenerino. Il sole è velato, sembra una saponetta a mollo in una vaschetta d’acqua.
Mi ripasso il badge tra le mani. Un rettangolo bianco grande come una carta di credito con la scritta WTF in rosso, il mio codice, il mio nome e una mia foto in cui sorrido in giacca e cravatta.
Chi l’avrebbe mai detto soltanto un anno fa?
Sento una voce provenire dall’alto. Salgo lentamente le scale esterne dell’azienda e scorgo, attraverso una finestra, il mio capo. È seduto nella saletta convegni, muove nervosamente la gamba destra. Sulla sedia accanto a lui c’è un uomo dai capelli bianchi che indossa un lungo cappotto beige, ha un’aria autoritaria ma confidenziale. Dev’essere un pezzo grosso dell’azienda. Mi avvicino cercando di non farmi notare. L’uomo anziano elogia Carlo per la tenacia, la forza e l’energia che ha avuto sostituendo due colleghi senior per cinque mesi, sabato e domenica inclusi. Lo chiama eroe. Non fa alcun cenno a promozioni o aumenti di stipendio. Ripete solo quella parola più e più volte, annuendo a lungo. Il mio capo ringrazia e si batte il pugno sul petto. È fiero, orgoglioso.
Guardo l’orologio, la mia pausa di quindici minuti è quasi alla fine. Getto la sigaretta per terra, la brace esplode in pezzetti rossi che si spengono a contatto con le scale. Ritorno velocemente nella saletta call center.
Mi siedo alla scrivania, clicco il tasto rosso e riprendo il mio lavoro.
Faccio la chiamata. Primo squillo, secondo squillo. Finalmente l’utente risponde, saluto e propongo la nostra offerta promozionale.
Carlo rientra dopo poco. Cammina orgoglioso fino al suo ufficio in fondo alla sala. Fa scivolare il cappotto dalla schiena e lo appoggia con cura sull’appendiabiti. Passa una mano per stirare la giacca. Si siede e cerca qualcosa nel primo cassetto della scrivania. Ha un’espressione soddisfatta e appagata.
Solo a Milano si può definire eroe uno che fa risparmiare dei soldi all’azienda. Uno che lavora non il doppio ma il triplo degli altri soltanto per sentirsi elogiare dai capi. Sembra di essere davvero in un altro mondo.

II. Tardo pomeriggio
Apro il portone del palazzo, metto le chiavi in tasca e rimetto i guanti. Incontro la signora Paola accanto all’ascensore con le sue borse ecologiche per la spesa appoggiate a terra. Dalla forma sembrano contenere bottiglie di vino. La vicina mi saluta e mi invita con il suo solito entusiasmo a una festa in casa sua. Ci sarà un grande buffet etnico e ha invitato gente da tutto il mondo. «Dai, manca giusto un ragazzo del sud.»
Non so che rispondere. Quella cinquantenne hippy, insieme al marito, sono le uniche persone che sono riuscito a conoscere oltre i colleghi e i coinquilini. Sono simpatici e molto gentili anche se ho la sensazione che non siano interessati tanto a me in quanto persona, ma che io sia, per loro, una specie di caricatura, di stereotipo, da aggiungere alla loro collezione di amici per dimostrare quanto sono liberali e democratici. Mi presentano poi come un paradosso sociale: il siciliano neolaureato in filosofia con centodieci e lode che emigra dal sud per lavorare in un call center a Milano.
L’ascensore arriva, io l’aiuto con le borse. La signora Paola mi ringrazia e, prima di premere il tasto per il suo piano, mi guarda, sorride e mi dice: «Allora ti aspetto a casa. A dopo.»
Io rimango nell’atrio. Giro a sinistra e apro la porta di casa. Dei miei coinquilini nemmeno l’ombra. L’aria puzza di hamburger bruciato e di un lievissimo sentore di cannabis. Poso lo zaino aziendale nell’atrio e vado in cucina. Apro il frigorifero. In pochi attimi calcolo le possibili combinazioni alimentari: salame e birra o formaggio e birra. Potrei prendere una scatola di pelati o di pesto e farmi una pasta. Sospiro, mi sa che è meglio accettare l’invito della vicina.
Sento vibrare il cellulare nella tasca. Sono i miei genitori. Rispondo e mi stendo sul letto. Un tempo la loro voce mi soffocava, mi innervosiva. La loro voce conteneva doveri e controllo. Ora è tutto diverso. Ora quando li ascolto chiudo gli occhi e mi sembra di essere dentro una cava, un luogo protetto e senza tempo.
A Milano nessuno si sofferma troppo sul passato delle persone, si chiede giusto la provenienza. All’inizio credevo che il motivo fosse perché le gente non ha abbastanza tempo per pensare a null’altro che al presente, ma ora ho cambiato idea. Secondo me, i milanesi quando pensano al passato e alla loro terra d’origine diventano nostalgici e la nostalgia – in questa città – è un sentimento troppo intimo per essere condiviso.
I miei mi salutano prima del solito perché stasera c’è il compleanno di mio zio e vanno tutti a mangiare fuori. Preferisco non pensarci così faccio una doccia veloce, indosso un pantalone comodo e una felpa nera e mi presento alla porta dell’appartamento della signora Paola.
Appena entro in casa sento una folata di calore, al centro del grande salotto c’è un buffet che ha un odore di mercato marocchino, un misto di cumino e menta. Seduti agli angoli o in piedi con un piatto di materiale biodegradabile in mano c’è gente che chiacchiera, ride, gesticola. Uomini con barbe folte. Berretti irlandesi. T-shirt animaliste. Una donna ripiega i polsini della sua camicia azzurro lavagna mostrando l’avambraccio con un tatuaggio dell’elefante di Dalì. Decine di braccialetti d’argento le cadono lungo il polso.
Questo è un ambiente alternativo, più curato e patinato rispetto a quello di Siracusa, ma pur sempre un ambiente che dovrei sentire familiare e, invece, nemmeno qui mi sento a mio agio.
Sbuffo. Cerco di tranquillizzarmi. È normale sentirsi confusi quando si arriva a Milano – me lo ripetono tutti – poi ci si abitua.
Mi dirigo silenzioso al buffet. Un trentenne dalla carnagione olivastra si avvicina. Poggia una stampella al muro e si mantiene al tavolo. Mi chiede in un italiano impreciso se quello fosse maftùl.
Alzo le spalle. «Credo sia cous cous con qualche verdura.»
«Do you mean vegetables?»
Annuisco.
«Grazie e scusa, sono un po’ coglione con l’italiano.»
«Come?»
Mi fa segno di aiutarlo a sedersi su una sedia lì accanto. Io mi appoggio su di un pouff su cui è ritratta una giraffa, tanto decorato quanto scomodo. Mi spiega che coglione è stata la prima parola che ha imparato in italiano, quella più ripetuta nell’ospedale San Rocco di Roma. Con un po’ di logica e d’inglese capisco che intendeva dire scarso. Gli consiglio di utilizzare quel termine ma non riesce a pronunciare correttamente né quello né altri sinonimi, così gli insegno a dire sciocco. «È come choc, ma devi metterci la o».
Chiacchieriamo. Scopro che è palestinese, che cammina con le stampelle per un problema alla spina dorsale che ha fin dalla nascita. Riguarda in qualche modo la guerra, ma non aggiunge altro. È più interessato a raccontarmi di questo viaggio tra la Germania e l’Italia: diverse associazioni no-profit hanno creato collette ed eventi culturali a Berlino, Monaco, Roma e Milano per discutere della questione palestinese e della pace in Medioriente. Grazie a loro, ha fatto un primo intervento a Roma e tra qualche giorno il prossimo, definitivo, a Milano. «Da solo?»
Lui fa no con il volto e indica un altro ragazzo che sta parlando con una donna bionda. È israeliano, mi spiega. Fanno parte della stessa associazione contro la guerra in Medioriente.
«Israeliano!?»
Lui annuisce, ma io me lo faccio ripetere un’altra volta. Ho capito bene: mentre i loro popoli sono in guerra quei due camminano insieme parlando di pace. Sono stupefatto, senza parole. Per me i palestinesi erano tutti guerrieri con la kefiah intorno al collo che combattevano per la loro terra. Gli israeliani erano i cattivi, quelli con i soldi, quelli appoggiati dagli Stati Uniti d’America. Rimango in silenzio. Non gli racconto delle lotte di sensibilizzazione verso il popolo palestinese fatte all’università, non parlo del cineforum, delle petizioni e delle manifestazioni. Davanti a quel loro gesto, i miei appaiono inutili, superficiali. La mia visione buono/cattivo incredibilmente infantile.
Il ragazzo non percepisce i miei dubbi, per fortuna è più interessato al cibo e a imparare nuove parole in italiano che ripete fino a trovare la giusta pronuncia.
Gli propongo di segnarsi il mio numero di telefono in caso di necessità. Lui alza le spalle e mostra il suo cellulare spento. «Ho finito batteria. Sono davvero coglione!», ride, tenendosi la mano sulla bocca.
«Sciocco, è più giusto dire sciocco!»
Mi racconta una storiella buffa sulla parola tedesca Begierden che vuol dire piacere, desiderio e si pronuncia proprio come Biergarten che vuol dire birreria all’aperto. Annuisco e gli sorrido ma lo seguo poco. Adesso non penso più al conflitto mediorientale, mi concentro su di lui, immagino la sua difficoltà nel fare le cose più semplici, come una doccia, come provarci con una ragazza. Come si può, poi, nascere durante una guerra e aver bisogno di raccontare proprio quell’orrore per ricevere aiuto e, per giunta, accompagnato da chi quella guerra la combatte dall’altra parte?
Io, senza conflitti bellici pluridecennali e completamente sano, sono arrivato qui accompagnato da tutta la famiglia con mio padre che indicava sorpreso ogni grande insegna e mia madre che ogni tanto scuoteva il capo infastidita e borbottava le parole call center.

© Francesca Zanette

III. Notte
Polpastrelli. Li premo contro il vetro della finestra della mia stanza.
Con la pressione la punta delle dita diventa bianca. Smetto e aspetto che il colore ritorni normale, poi ricomincio. So che dovrei dormire, so perfettamente che non sono più all’università, anni in cui potevo andare a letto quando volevo che tanto la lezione la capivo lo stesso. Ma non ci riesco.
È questa città, è colpa di questa città. Milano ti mostra tutto e non ti spiega mai nulla. Ti prende, ti spinge, ti etichetta, ti rivela e ti lascia con la sensazione di non aver capito mai abbastanza.
Non ti lascia nessun punto fermo, nessuna sicurezza.
Forse è un problema topografico. Forse questa città è così perché non ha un mare, un fiume, un lago, una montagna su cui affacciarsi.
Niente che la protegga.
Niente su cui specchiarsi o aggrapparsi.
Ho freddo, nonostante il calore secco irradiato dal termosifone. Mi volto e vado verso il letto. Alzo le lenzuola e mi stendo. Chiudo gli occhi. Spingo la testa contro il cuscino.
Questa notte non sento la mancanza del mare, dei miei amici, della famiglia ma di quello che ero io al mio paese.
Prima era tutto semplice: i palestinesi erano buoni e gli israeliani erano cattivi. I miei genitori erano distanti e non capivano mai nulla. I lavoratori erano sfruttati, tutti. Nessuno si sognerebbe di lavorare il triplo solo per farsi elogiare dal capo e sentirsi chiamare eroe.
Non è solo il mondo che mi circonda a essere diverso. La verità è che sto cambiando anch’io, lo sento. Ora non andrei più in piazza con la bandiera dell’anarchia tra le mani, non riuscirei più a fare quei discorsi sul riordinamento delle risorse energetiche e alimentari.
È come se prima il mondo lo vedessi da lontano mentre adesso ci sono dentro.
Ci sto soffocando dentro.
Ed è tutta colpa di questa città. Per quanto infantile, io sapevo chi ero a Siracusa, ma chi sono adesso qui?
Come mi trasformerà questa città tra cinque o quindici anni? Migliorerò? Peggiorerò?
Mi rigiro nel letto, non riesco proprio a dormire. Forse dovrei cercare un pensiero, una convinzione, un qualsiasi frammento della mia identità che non cambierà mai. Devo cercarlo in questa giornata, domani, devo cercare qualcosa ogni giorno.
Forse è questo il trucco per non perdersi troppo.
Posiziono per bene la testa sul cuscino. Appoggio il pollice e l’indice della mano destra sulle palpebre chiuse. Ripenso alla sala call center, alla leggerezza di Gigi, alla soddisfazione del mio capo, al sole velato di Milano, al freddo, alla collezione di stereotipi della signora Paola, ai miei genitori, al palestinese e alle sue stampelle. Sorrido: l’ho trovato.
Ho trovato un pensiero, una certezza – per quanto infantile e stupida – che avrò per sempre. L’ho trovato per davvero, ne sono sicuro ed è questo: io so chi, tra il palestinese e il mio capo, è un eroe e chi un coglione.
E intendo proprio coglione, mica sciocco.


Michele Crescenzo è nato nel 1977 a Napoli. Vive e lavora a Milano da quindici anni come project manager. Lavora per vivere e scrive per vivere meglio. Ha fondato la rivista letteraria Cadillac. Nel 2009 ha vinto il Premio Chatwin, concorso internazionale sul viaggio. Ha pubblicato racconti per antologie (Montegrappa e Memoracconti) e riviste letterarie (‘tina, Pastrengo, Carie, Talking Milano). Gestisce Ti ho Rivista, tabloid, novità e interviste (su satisfiction.net) sul mondo delle riviste indipendenti italiane e organizza tutti i mesi eventi letterari alla libreria milanese Gogol&Company