Mi chiamo Mattina Balestrieri, sono nata il 15 luglio del 1934. La mattina io non connetto, almeno fino alle tre del pomeriggio. Sono cresciuta in disaccordo con il mondo, non potevo che essere in antitesi con il mio nome. Sono morta il 6 del mese di luglio, giorno in cui mi è arrivata la pensione, nove giorni prima di compiere ottant’anni. Mi hanno negato di fare cifra tonda con la vita.
Sono l’ultima di otto figli, la prima femmina, dunque l’unica. Quando sono venuta al mondo mia madre mi disse: «I giorni della settimana erano finiti, il settimo Dio si è riposato, l’ottavo è andato in cassa integrazione, e sei arrivata tu. Ti chiamerò Mattina, come un lunedì di pianto dopo una domenica di festa».
Non ho mai avuto niente della mattina se non le pieghe stropicciate di un sorriso spento. Non ho mai avuto senso del ritmo o sguardo attento al sole, non ho mai avuto voglia della colazione, non ho mai avuto voglia di cominciare.
Ho deciso di raccontarvi una storia: in apnea il bisogno di respirare si impone violento come il desiderio di parlare. Sfortunatamente non ho il potere di farlo da morta, così ho scritto una lettera a mia nipote Anna.

Quando morì mia nonna era luglio, un maledetto caldissimo mese, e l’ultima cosa che mi disse fu: «Vedo la galaverna sul vetro della finestra: è l’inverno del mio scontento, è l’ultimo giorno che ho da vivere, chiama tua madre che faccio testamento».
Il testamento consisteva delle seguenti cose: una macchina da cucire, una macchina per la pasta Imperia, un ricettario appiccicoso, dei gomitoli di lana infeltriti, una scatola di fotografie ingiallite e un mazzo di carte Modiano nuovo di pacca.
Non mi sono mai piaciuti gli oggetti usati, perciò ho ereditato le carte e ho continuato a giocare al posto suo.
La lettera era un elenco di informazioni sconclusionate: parlava delle sue origini, del suo paese natale e delle sue strane regole di convivenza. Poi c’erano degli appunti sul quadernino di ricette con diversi nomi annotati e dei numeri, per cui alla fine ho preso anche quello.
Mia nonna era nata a Cento, un paesino di cento anime, né una di più, né una di meno. La regola era scritta nel suo nome: il numero non poteva cambiare mai. Le nuove nascite non erano consentite, a meno che non seguissero partenze o morti corrispondenti. Un paese così impegnato nelle equazioni non aveva tempo per nient’altro. Non gli restava che essere reazionario, nell’ideologia e nell’architettura.
Nulla cambiava, nulla evolveva, nessuno osava andarsene e se lo faceva non si permetteva di ritornare.
Un paese in cui regnava l’immobilismo. Mia nonna, con la sua Graziella rossa, pedalava così veloce che non la vedevano passare. Questo la rese invisibile per tutta l’infanzia e le diede una straordinaria libertà d’azione, che sfruttò a suo vantaggio finché le fu possibile.
Di fatto glielo consentivano, poteva andare veloce quanto voleva, l’importante era non uscire da quel perimetro, e non disturbare la loro vista. Fece un unico grande errore nella sua vita, se ne andò senza preavviso lasciandoli in novantanove. Non avvisò l’anagrafe. Sapeva che non glielo avrebbero permesso, la sottrazione era proibita. Non salutò neanche sua madre, semplicemente scappò.
Tornare a Cento, così tanti anni dopo, fu una scelta poco pensata. Volevo vedere da cosa era fuggita mia nonna, sapere cosa le avevano fatto, e soprattutto capire qualcosa di quelle uova. In ogni pagina del ricettario ne veniva indicato il numero utilizzato e il nome della persona che gliele aveva date.

Il treno stride sui binari, come una forchetta che frena in un piatto per recuperare l’ultimo maccherone. Scendendo sulla pensilina riscopro nuove sensazioni, riappaio letteralmente. Non sono più invisibile, mi guardano tutti. Non sanno chi sono, non gli importa, ma sanno che sono di troppo.
Mi dirigo verso il Comune: per la strada non incontro nessuno se non due cani. A loro non sembro dare fastidio. Mi reco all’ufficio Anagrafe davanti ad una segretaria annoiata. Mi registrano come visitatore occasionale: posso stare in paese fino alle sei di sera, ora dell’ultimo treno.
Il tempo è poco, lascio stare i convenevoli, so da chi devo andare, è tutto scritto sul quadernino sgualcito e appiccicoso della nonna.
La signora Germana mi apre la porta con un sorriso: «Ciao Mattina, come al solito sei venuta a derubarmi». Non sto a spiegarle che non sono mia nonna e la ascolto parlare per mezz’ora della sua sciatica e della laurea della nipotina. Non riesco a farle domande e quando esco di nuovo in strada mi ritrovo con un pacchetto nelle mani. Mi ha dato delle uova, incartate dentro un giornale del 1949.
Continuo la mia camminata per quella strada grigia e nebulosa: è l’unica del paese e sembra una spada scagliata lì in mezzo per trafiggere le case. Porta dopo porta, nessuno mi riconosce, nessuno mi chiede il motivo della mia visita. Tutti mi fanno uscire con l’involucro in mano senza rispondere alle mie domande: Perché me le date? Perché erano così importanti per mia nonna? Comincio a chiedermi se sia un test d’ammissione, arrivare alla fine del mio percorso senza averne rotta neanche una.
Mia nonna avrebbe riso a crepapelle, avrebbe detto: «Anna, muoviti a venderti queste uova finché sono fresche, che ho sognato un numero e ci giochiamo tutto sulla ruota di Genova».
Sono confusa, non sapevo il senso del mio viaggio prima, ora ne so ancora meno. Come ultima visita vado dal signor Matteo. La nonna aveva scritto il suo nome sulla prima pagina del ricettario ed era l’unico con cui non avesse debiti. C’era anche l’indirizzo, l’unica cosa sensata uscita da quella penna strampalata.
Matteo è molto vecchio ma appena entro mi riconosce. «Quante uova hai raccolto tesoro? Quelle vecchie rincoglionite non sanno fare altro che infangare la sua memoria. Lo sai perché te le hanno date?»
«Mi scusi Matteo, non capisco.» Effettivamente sembra straparlare.
«Tua nonna era talmente povera che le prendeva e stava zitta e le lasciava parlare. Forse volevano farla cadere dalla bici. Nessuno avrebbe mantenuto l’equilibrio con quell’involucro fragile in mano. Sapevano che non aveva il cestino, ma non capivano che piuttosto che romperle si sarebbe spaccata due femori. Lei poteva percorrere cento chilometri senza mani, ed era più veloce di prima. Una testona molto veloce.»
La mia giornata a Cento è quasi finita e non ci ho capito molto. Mia nonna si vendeva le uova per raccogliere i soldi e scappare dal paese? Quando ci riuscì la accusarono tutte di essere una ladra?
«Signor Matteo, mi perdoni, ma perché se ne andò?»
«Tua nonna non era fatta per stare chiusa in un recinto, a forza di pedalare ha rotto gli argini ed è fuoriuscita, come un fiume in piena.»
«Ma cosa se ne faceva di tutte quelle uova?»
«E chi lo sa, le frittate forse. A quel tempo mangiava per due. Tesoro vai adesso, sono quasi le sei, tra poco cominceranno a dare l’allarme. Sono contento di averti conosciuta, le assomigli tanto, ma sei molto più gentile». Matteo mi fa l’occhiolino e mi spinge verso la porta.
«Aspetti, le uova, le vuole lei? Io non so cosa farmene e probabilmente mi cadranno tutte per terra prima di arrivare in stazione.»
«Lanciagliele sulle finestre mentre ripercorri la strada all’indietro. Tua nonna avrebbe voluto così. Hanno cercato di rovinarle la vita».

Seduta sul treno ancora fermo in stazione guardo fuori e rifletto su quelle ultime frasi. Capisco in fretta, quelle parole non lasciano spazio a molti dubbi: mia nonna era incinta e le furono tutti ostili, come ostile era quel paese per costituzione. Mia madre nacque così, uscendo dalla città e distruggendo un algoritmo.
Il senso delle uova mi sfugge, resterà un rompicapo arrivato dall’aldilà. Potrò inventare un significato nuovo ogni giorno come facevamo noi due, forzando le parole dentro gli schemi della settimana enigmistica. Spero solo di averle fatto fare cifra tonda con la vita.
Guardando fuori immagino mia nonna che mi saluta sorridendo e poi sfreccia via veloce per nascondere la pancia dietro le saette rosse della bicicletta.
La galaverna si espande sul vetro del finestrino, come un reticolato fragile e cristallizzato nel tempo.


Giulia Manno nasce nel 1983 ma non la avvisano dunque resta indietro. Si laurea in Storia nel tentativo di recuperare il tempo perduto. Non ci riesce ma per restare in tema fa un sacco di storie, alcune di queste le racconta. Le piace guardare i film al cinema e perdere tempo girando per la città. L’anno scorso ha pubblicato un racconto nella raccolta Sjette, Edizioni Tapirulan. Quest’anno ha pubblicato su Rivista Blam.