Nella città che ha il cuore di un istrice
ti cercherò
in un traffico d’anime…


Subsonica, Istrice


Gli scuri cigolano su cardini puntinati di ruggine, una sorta di sbadiglio che consente alla città di sbirciare nella stanza ancora assopita. Zeno sente l’aria pungere la pelle del viso come minuscoli spilli, a inizio primavera al sole piace oziare e indugiare dietro la collina. Il marmo del davanzale restituisce il freddo della notte ma Zeno poggia ugualmente i gomiti, rimane alla finestra qualche minuto più delle altre mattine, l’occasione lo permette, finché lo sferragliare del 16 giù in strada rompe il breve silenzio. È il modello storico, il tram con i seggiolini di legno levigati, le scale ripide e lo snodo centrale a soffietto, lo riconosce dallo stridio metallico delle ruote sui binari. Distende il braccio e accende la radio. La voce di David Bowie racconta di un amore nato accanto a un muro e di come si possa essere eroi, anche solo per un giorno. Zeno canticchia tra sé e indietreggia di qualche passo. Apre il frigorifero. Sul secondo ripiano partendo dall’alto ci sono burro e marmellata di mirtilli. La bottiglia del latte, di vetro così da non confonderla con il succo di arancia, è subito a destra. Riempie la tazza che ha trovato sul gocciolatoio del lavello, la mette nel microonde e pigia tre volte il tasto del programma rapido. Il cucchiaino e il coltello per spalmare sono nel primo cassetto, le tovagliette per la colazione nel terzo. Si volta, cerca con il tocco la sedia e la scosta così da poter apparecchiare meglio la tavola. Le fette biscottate aspettano dentro un portapane di lana cotta, Bianca lo adorava. Un singolo suono acuto non dà il tempo alla sua mente di annegare nel mare dei ricordi avvisandolo che il latte è caldo. Si siede, la tazza fuma davanti al viso, la cinge con entrambe le mani e le dita assorbono un calore che il suo cuore ha in parte dimenticato. Nel frattempo un sottofondo soffuso di automobili, discorsi, risate e campanelli di bicicletta risuona in cucina. La città si risveglia, stiracchia i muscoli intorpiditi, allunga le membra nelle viuzze e nei viali, si raggomitola in piazze e giardini, riprende ciò che ha interrotto con il buio. Per Zeno, invece, oggi sarà un giorno diverso dal solito, per questo è emozionato, un’onda che risale pian piano dallo stomaco, blocca il diaframma e accelera il respiro. Sorride, cerca di pensare ad altro e come ogni mattina imburra una fetta con attenzione, per non spezzarla.

Buio.
È tutto ciò che abbia mai visto e il mio primo ricordo è ossigeno che profuma di polvere e spezie. Stringo l’indice della mamma con la mia mano di bimbo, cammino così vicino alla sua gamba da poterne percepire il lieve calore della pelle. Girovaghiamo senza meta tra cataste di tappeti e scatoloni chiusi, come in un labirinto. Gazsi Nafisi, mio padre, resta un paio di passi indietro e ogni tanto mi accarezza i capelli crespi. Potrebbe raccontare la storia di ogni singolo tappeto stipato nel magazzino del negozio, quasi fossero anche quelli figli suoi. Li sceglie personalmente ogni volta che ritorna in Iran, di solito due volte l’anno. Il giorno prima della partenza mi siede sulle sue ginocchia e mi racconta di quando era bambino e correva tra le strade sterrate della periferia di Karaj, le gambe ossute da insetto stecco, pallide e sottili come grissini ancora da infornare, perché le città del mondo, mi spiega, non sono tutte come Torino. Poi chiede cosa voglio in dono al suo ritorno, ci penso e gli rispondo di portarmi un barattolo con i suoni di quelle terre. Ride, mi bacia la fronte, prega in farsi e io mi perdo in parole che per me non hanno alcun significato ma sono solo musica. La mattina successiva lo accompagnano fin dentro Porta Susa. Lui posa le valigie, bacia la mamma e sale sulla carrozza del treno. Io rimango in piedi, immobile anche dopo che è partito. Ascolto il vociare delle persone, i loro discorsi spezzati, lo scalpiccio dei loro passi, il fischio del capotreno e i singhiozzi di chi rimane in città. Mia madre si inginocchia e mi sussurra quello che vede, descrive la stazione, il colore dei treni, i manifesti appesi ai muri, i vestiti eleganti delle donne. Quelle sere fatico sempre ad addormentarmi. Sono disteso sul letto rivolto verso il soffitto e immagino papà a bordo di un aeroplano che vola tra le nuvole, intento a guardare dal finestrino le città illuminate, le montagne e il mare. Il mare, ecco, la prossima volta gli chiederò di portarmi il rumore delle onde.

I ricordi sono città sommerse che riaffiorano in superficie a ogni sospiro nelle ore di bassa marea e i sogni sono frammenti dimenticati di quei ricordi, storie intrappolate negli angoli di vicoli deserti in attesa che la corrente li porti via. Lontano.
Questa notte Zeno ha sognato di essere immerso in un liquido tiepido, sospeso in un galleggiare senza fine, alla deriva in un mare di nulla. Riusciva a respirare nonostante intorno a lui ci fosse acqua e soltanto acqua. Poi, d’improvviso, si è sentito trascinare verso il fondo. Urlava, ma il suono della voce non si propagava a più di qualche centimetro di distanza. Quando credeva di essere perduto, ha avvertito la presenza di qualcuno che incurante delle tenebre lo afferrava per portarlo verso la superficie. E nel buio che restava buio, ha riconosciuto le voci di Bianca e Carlotta.
Ora, seduto in salotto, la marea si ritira di qualche centimetro e riemergono i ricordi. La notte ha lasciato uno strascico lungo quanto quello di una sposa, la pelle madida di sudore, il cuore che martella la cassa toracica. Sogna di rado e non nel modo che voi immaginate, come potrebbe essere altrimenti, e non ne ha quasi mai memoria al suo risveglio, ma il silenzio che ha rivestito le pareti della casa dopo colazione ha riportato alla mente il sogno e ha sospeso Zeno in una specie di triste brumazione. Porta le mani alle orecchie e cerca particelle di lucidità disperse nell’aria. La stanza vuota inizia a vomitare sillabe intrappolate dentro i vecchi interstizi di porte e finestre, l’intonaco dei muri pare gonfiarsi e restringere spazi già angusti. Zeno prova a calmarsi, respira lento e sente…

…il calore dei raggi del sole che riverberano sul sagrato di porfido della chiesa. Immagino Bianca, le sue parole che aleggiano nella brezza leggera della mattina, abbracciano il corpetto dell’abito da sposa come nebbia impalpabile all’essenza di gelsomino, il profumo che sentiva da bambina nel giardino della nonna mentre immaginava questo giorno. Poi socchiude gli occhi e ascolta il bisbiglio dei nostri sogni affidati al cielo in una domenica di primavera, il nostro primo incontro, la piazza gremita, la musica sul palco e le dita che s’intrecciano.
Le campane annunciano il suo arrivo. Devo entrare. Da qui mi sembra quasi di riuscire a percepire lo strusciare dello strascico di pizzo che lambisce i ciottoli della stradina inumidita da un temporale. Abbiamo deciso di sposarci in una città di mare e ora l’odore di salsedine è avvinghiato ai nostri respiri come un bambino spaventato alle gambe di una madre. Bianca scende dall’automobile, gli invitati battono le mani, e sono sicuro stia ricordando le sue estati in Sicilia, una pallida bimba di città fasciata in un costume rosa. L’orizzonte è una linea di cielo che si tuffa dentro un mare così blu da sembrare finto e suo nonno Orazio la rincorre sul bagnasciuga. Afferra prima la sorella e poi lei. Le tiene strette tra le braccia e fa qualche passo nell’acqua. Loro urlano, lo implorano di lasciarle andare, ma lui non le ascolta, si ferma solo un istante prima di lanciarle tra le onde. Le due bambine muovono le braccia per tornare a galla. «Solo così s’impara a vivere e nuotare…» nonno Orazio pronuncia quelle parole guardando le nipoti negli occhi una volta riemerse all’unisono, «buttandosi!»
E così ha sempre fatto Bianca che adesso cammina lentamente lungo la navata centrale e mi viene incontro. Il suono dell’organo riempie l’aria di note e colori. I banchi sono pieni di persone, ne sento il vocio. Bianca arriva all’altare e si ferma di fronte a me. Non riesco a parlare, la lingua è diventata un muscolo atrofizzato nella bocca. Sorrido. Lei mi prende la mano e la tiene stretta per tutta la funzione. Alla fine camminiamo verso l’uscita ancora mano nella mano. Quando oltrepassiamo il portone, siamo inondati da luce, coriandoli e petali di rose rosse. Socchiudo gli occhi e abbraccio Bianca, quasi a proteggerla, e poi proseguiamo insieme, come nuvole bianche perse in un cielo terso e sconfinato.

Cinquantasette passi esatti sono la distanza tra il portone di casa e l’angolo di via Nizza. Zeno cammina lento, il bastone bianco tenuto in avanti, un rabdomante alla ricerca di ostacoli invece che acqua. Ha sempre vissuto a San Salvario, ne conosce ogni angolo, un tessuto connettivo che l’ha avvolto, unito con il resto del mondo e in alcuni casi anche protetto. È un quartiere intriso di contraddizioni, giardini e asfalto, dottori e manovali, chiese e sinagoga, stranieri e italiani, bar sgangherati e ristoranti stellati, tutto che convive in una sorta di simbiosi mutualistica, un agglomerato di case immerso dentro Torino, come una città fagocitata da un’altra città. I passi di Zeno ricalcano quelli di quando era bambino e per di più con gli anni ha imparato a isolare un singolo profumo, ogni semplice rumore. Ora, da un vago sentore di canditi e vaniglia, riconosce di essere davanti al negozio di abiti da sposa, poi ci sono il barbiere con la radio sempre accesa e i discorsi che sanno di nulla, il lavasecco da cui fuoriesce uno sbuffo di amido e lavanda e infine la libreria con il suo odore di carta e inchiostro. Aspetta il cicalio del semaforo per oltrepassare il cavalcavia e incunearsi tra i banchi del mercato. Deve cucinare la crostata di mele per Carlotta e tra quei banchi troverà frutta, farina e uova fresche. Non ha fretta, ascolta il brusio delle persone, le urla dei venditori, i clacson delle automobili che percorrono il viale. Dietro gli occhiali scuri chiude gli occhi, lascia che quel fiume di gente trasporti lontano il suo corpo e la sua mente come una foglia secca che galleggia su di un torrente di campagna. E per un attimo finge di perdersi, immagina di essere come gli altri, di poter vedere le nuvole giocare con il vento e nascondersi dietro i tetti dei palazzi, di essere una semplice molecola che vaga senza meta nelle vene pulsanti di una città sconosciuta.