A sera il Cerro San Sebastián vomita su Lima le mille luci di Rímac e le luci di Rímac inghiottiscono di una colata festosa il fiume nero che porta lo stesso nome. Di giorno le case di lamiera colorate accatastate l’una sull’altra paiono un inferno costruito con le costruzioni dei bambini, rintronanti di chiasso, di colore – ma di sera, di sera la vista di Rímac illuminata mi si gonfia in petto e mi tremano le mani. Guardo Rímac, e io non sono più io: sono una luce dietro una finestra come le mille che si riversano dalla collina nera, una cellula di Lima urlante e schiacciata dalle Ande contro il mare, e questo mi annulla e mi consola.

Di sera mi capita spesso di salire sul campanile della chiesa di San Domenico per guardare Rímac, approfittando delle visite guidate notturne, come ho sempre fatto da quando Eduardo mi ci portò la prima volta. Era il nostro piccolo rito, iniziato poco tempo dopo esserci conosciuti al Conservatorio di Lima. Avevamo diciott’anni e lui cantava con una bella voce di tenore. Ci trovammo nella stessa classe di canto per caso, per destino l’insegnante ci affidò il duetto dell’Elisir d’Amore per il saggio finale: passare da Adina e Nemorino a Yuriana ed Eduardo fu naturale e quasi liberatorio, come lo poteva essere solo il trovare finalmente qualcuno che condivideva la mia stessa solitaria passione per l’opera.
All’epoca cantare e studiare con Eduardo era il mio unico modo di viaggiare e conoscere il mondo. A diciott’anni, Lima mi stava stretta, Lima mi martellava le orecchie con i pa-tum-tum-pa delle sue cumbie tutte uguali e la memoria frustrante delle sue ferite stratificate: i coloni spagnoli, l’esecuzione di Tupac Amaru, la dittatura, gli attentati.
A Lima ero india, donna e artista: sconfitta in partenza. Con Eduardo invece si parlava di Milano, Parigi, Londra, delle Traviate e Bohème che ci avrebbero riscattati, alla fine del nostro viaggio. Quando dalla cima del campanile di San Domenico guardavamo la città, le nostre teste rimbombavano di flauti violini grancasse corni inglesi tutta un’orchestra vittoriosa che ci consegnava le chiavi del mondo.
Questa sera, dal campanile, la vista erra fin dove la mappa delle luci cittadine le permette di arrivare. Non è difficile tuttavia indovinare, dietro al buio polveroso, le dune di sabbia che nascondono le vestigia del passato, il cantiere ormai dismesso del Callao, la costa verde di Miraflores, che ormai da tempo non conosce più le bombe, e, ancora più lontano, l’oceano Pacifico che s’intuisce solo dal rimbombo sordo, come un muro d’acqua al confine del mondo.
A scuola ho studiato geografia su mappe che relegavano il Perù a un remoto cantuccio in basso a sinistra. Ora, se il Perù avesse contato qualcosa, mi dicevo, l’avrebbero messo al centro della cartina, e invece pareva che il mondo vero fosse solo quello al centro della mappa. E il mondo vero, credevo, mi si sarebbe concesso solo una volta che mi fossi guadagnata i passi delle Ande, le distese infinite della selva, e poi l’unico oceano che contava, l’Atlantico, quello che mi separava dai miei vagheggiamenti di artista e che più tardi mi avrebbe separata da Eduardo. L’oceano Pacifico, invece, pareva solo la quarta parete di quello stanzone confuso che per me era Lima, e le navi che salpavano verso ovest dal porto di Callao mi sembravano fantasmi senza meta.

Poi è arrivato il giorno in cui anch’io sono diventata una nave senza meta, una mattina che nel bagno di un bar a Miraflores ho avuto il coraggio di affrontare il test di gravidanza, poco tempo dopo aver ottenuto quel diploma cui affidavo tutte le mie speranze di lasciare la città.
Sono uscita dalla clinica che ero india, donna e incinta, ed Eduardo mi aspettava su una panchina di fronte all’oceano, sgranocchiando picarones appena fritti. L’odore unto e zuccheroso di quei dolcetti saturava l’aria grigia della stagione delle piogge, arrivando a coprire il rumoreggiare indifferente della città. Eduardo pareva aver pensato a tutto, mi tranquillizzava affettuosamente e mi offriva insistentemente i suoi picarones dall’olezzo mieloso: non ti preoccupare, ci penso io, mi diceva, e sorrideva come sorridono ancora i suoi Alfredi e i suoi Rodolfi.
Un sorriso sempre vittorioso, sempre dall’alto in basso. Io, che ero un soprano e da che mondo e mondo il soprano nelle opere non fa mai una gran bella fine, specialmente quando si affida ai tenori gagaroni, non avevo tanta voglia di sorridere, ma lui era comunque Eduardo, e ad Eduardo mi veniva voglia di aggrapparmi contro ogni pronostico.
I picarones mi lasciarono le labbra amare.

L’ennesima estate eleva fin quassù, ancora una volta, il profumo di fritto dei picarones che sfrigolano nei chioschetti dell’Alameda Chabuca Grande. Quando l’aria è fina e leggera, e sento il profumo dei picarones in queste sere d’estate, in cui la gente si riversa a frotte sull’Alameda ciangottante, non so che pensare: mi viene solo da guardare verso il Cerro e verso Rímac, e contare le luci. Uno due millequattro ventisettemilatrecentodue.
Anche allora l’estate offriva a buon mercato sere come queste, in cui l’aria porta al naso suoni e voci senza grevità. Anche allora mangiucchiavamo picarones sull’Alameda e ci confondevamo tra gli altri, la mia pancia un po’ più sporgente del solito. Quella volta, però, Eduardo mi fece sapere che si era aggiudicato un ruolo nel cast di riserva di un Elisir d’Amore che si sarebbe tenuto all’Opera di Madrid.
Non sapevo neanche che avesse sostenuto delle audizioni. Cercai di recitare la parte della compagna amorosa, non mostrai alcuna remora nell’incitarlo ad accettare la proposta: fallo per il bambino, gli dicevo, lo fai anche per il suo futuro, ripetevo, mentre l’invidia mi bruciava la gola. Ma Eduardo era indio e artista e meritava quell’occasione. Almeno lui.
Dopo avergli promesso poco convintamente che lo avrei raggiunto in Europa non appena il bambino avesse raggiunto un’età adatta, Eduardo partì.

Il bambino.
Sono passati tre anni, ma quando provo una qualche emozione forte, ascoltando un’opera delle mie preferite, ridendo con un’amica o perfino mangiando un dolce sull’Alameda al tramonto, devo ancora reprimere l’istinto di portarmi la mano al ventre, come facevo, chissà poi perché, forse per convenzione, quando c’era il bambino. In quei momenti mi sento patetica: sono stata veramente una madre, durante quei cinque mesi di gravidanza? Era un bambino, quel bambino che mi si è attaccato al grembo senza mai aggrapparmisi al cervello? Quando mi risvegliai dall’anestesia rifiutavo l’idea che fosse tutto finito. Avevo ventitré anni, ero giovane, cose come queste succedono alle vecchie di quarant’anni, mi dicevo, dev’essere per forza colpa mia, non l’ho voluto abbastanza. Mia madre mi guardava rassegnata al mio capezzale e il terrore di dover avvertire Eduardo desensibilizzava ogni mia cellula. Il bambino mi aveva portato via il biglietto per il mondo al centro del mondo, e ora avevo perso il bambino. Di Eduardo, infine, mi restava solo la voce, diluita dal telefono e da chilometri di oceano, divenuto di colpo crudele e inutile.

© Francesca Zanette

Attesi ridicolamente tanto prima di avvertirlo, attesi finché ogni giorno passato in più non iniziò ad accrescere esponenzialmente la mia vergogna di non aver parlato prima. Lui mi chiamava e mi parlava di prove d’orchestra, biberon, Donizetti, battesimi ed io stavo in silenzio col grembo vuoto, incapace di troncare quel filo così esile che mi legava a lui e allo stesso tempo ansiosa di dirgli tutto, di liberarlo dalla zavorra della donna lasciata al paese natale, di rimanere sola col mio nulla di carriera interrotta, di maternità annientata, di lutto invisibile.
Un giorno, però, lasciai il telefono squillare.
Il ronzio del telefono riempiva l’afa piovosa di febbraio ed io, ancora immobile sul letto della mia cameretta, non riuscivo a sostenere l’idea di ascoltare ancora una volta la voce allegra di Eduardo infierire sulla mia solitudine, milioni di gocce di sudore estivo mi pesavano sulla gola come macigni e il soffitto della mia stanza si confondeva col cielo sempre grigio di Lima, come il coperchio di un immenso sarcofago, dalle finestre la vita degli altri brulicava ammassandosi chiassosa contro la parete della mia camera, e quasi la sentivo cedere contro il peso della città, della guazza, dell’estate, dei picarones, dei clacson, del telefono di mia madre dei suoi sguardi di Eduardo ignaro e felice dell’oceano del silenzio del grigiore di Rímac che di giorno è una baraccopoli e di notte una volta di stelle in terra di Lima dimenticata in un angolo del mappamondo di mio figlio mai nato e dimenticato in un angolo del mappamondo del mio diploma inutile del mio amore inutile dell’amore che forse era esistito solo nella mia fantasia perché di quali prove disponevo ora che Eduardo era lontano mille oceani da me e dal mio dolore dal mio nulla dalla morte dalla morte di nostro figlio immaginario dalla morte dalla mia morte.

Sono passati tre anni dal giorno in cui, madida di sudore, corsi via arrancando sotto il cielo grigio verso il campanile di San Domenico. Quel pomeriggio, dalla cima del campanile il chiasso di Lima sembrava più lontano, pareva un buon momento per morire.
Il mio moto suicida si è arrestato là, a metà della pianta del mio piede destro che sporgeva nel vuoto, carico dell’energia del salto, mentre l’aria ovattata del pomeriggio riempiva la mia testa priva di ragioni per morire e di ragioni per vivere. Dal campanile, per l’ennesima e prima volta, mi si offriva Lima coi suoi cubicoli confusi, li contavo tutti, uno due millequattro ventisettemilatrecentodue, mentre la luce obliqua del tramonto faceva scintillare le finestre di Rímac come il barbaglio di mille torce, e quindi non me la sono sentita di abbandonare questa città grigia che d’estate puzza di picarones e scintilla di finestre, la città dove avevo incontrato e perso Eduardo, le mie eroine dell’opera morivano di tisi d’amore d’eroismo e io quel giorno non morivo, e non sapevo dire né perché non volessi vivere né perché non volessi morire. Avevo sognato, avevo amato, avevo concepito un figlio e l’avevo perso, come le altre mille donne che si affaccendavano dietro le finestre incendiate di Rímac, avevo ventitré anni, un oceano alle spalle e uno di fronte a me, e quel giorno non sono morta, e oggi non sono morta, mentre dal campanile Lima echeggia il sussurro della mia storia inutile e il canto dei picarones, anche oggi non sono morta.


Barbara Marunti (1989) vive e lavora nel senese. Dopo una laurea in Chimica e tecnologia farmaceutiche, sta provando a recuperare la sana abitudine di scrivere. Nelle pause dal lavoro studia Mediazione linguistica (Cinese, Giapponese) all’Università per stranieri di Siena e canto lirico al Conservatorio di Firenze. Suoi racconti sono o saranno pubblicati da inutile, Pastrengo e L’Ircocervo. Le biografie simpatiche non sono il suo forte perché la imbarazzano.