Mi sveglio in un silenzio da cripta vuota, come fossi in adorazione solitaria di una salma esposta solo per me, nei bassifondi inesplorati di una chiesa costruita da pochi anni e priva di ogni interesse turistico. Non mi è mai capitata prima d’ora una stanza d’hotel così ben isolata, eppure ieri sera ricordo di aver salutato il mio dirimpettaio, il Flaccido, mentre entrava in camera con due extraterrestri di un metro e novanta, due rosse poco vestite e molto chiassose. Ho subito pensato al peggio per la notte, soprattutto quando la più magra delle due si è girata per farmi l’occhiolino e la mimica del sesso orale. Il concerto è iniziato neanche due minuti dopo, un orgasmo forte e improvviso come il clarinetto della Rapsodia in Blu di Gerswhin. Il Flaccido si dimostrava all’altezza della situazione: eppure, in qualche modo, ero riuscito lo stesso ad addormentarmi. Non ricordo nemmeno di aver provveduto, mediante autoerotismo, ad accompagnare l’adiacente amplesso, quell’orgia di corpi che così bene immaginavo e invidiavo. Niente. Avevo chiuso gli occhi, e mi ero svegliato in un luogo davvero privo di rumori.
Sono le dieci di mattina, forse di là dormono, forse le ragazze sono già tornate a casa, tutti gli altri ospiti devono essere già scesi per colazione. Così faccio anch’io, dopo un potente bisogno e una breve doccia tiepida. Alla reception non c’è nessuno. L’albergo non è di lusso, forse non c’è permanenza, eppure a quest’ora dovrebbero lavorare, fuori c’è un sole così forte che di una cosa sono sicuro: non ho l’orologio rotto. E nemmeno il cellulare. Chiamo Veronica per darle il buongiorno. Non risponde. Non c’è manco lei.

Nel refettorio i tavoli sono pronti per accogliere i clienti; la grande tavolata ospita il minimo standard per una colazione continentale: qualche cornetto, fette di prosciutto cotto un po’ grasso, formaggio giovane a sottiletta, bevande di rito. Mi faccio un caffè annacquato pigiando due tasti qualunque su un apparecchio dei primi anni Novanta, con evidenza mai rottamato e con probabilità di rado pulito. Addento il croissant: è industriale, ma potrebbe essere peggio, almeno non è duro. Forse è ancora congelato nel mezzo. Lo lascio lì a metà. Tutto qui dentro mi ricorda una catena di montaggio atta alla riduzione massima dei costi: e infatti non c’è personale.
Spingo una porta riservata a chi qua dentro ci dovrebbe lavorare e mi ritrovo nelle cucine tra un vago odore di muffa e piscio di gatto. I fornelli sono accesi: è pericoloso, se nessuno li tiene a bada. Li spengo io, il proprietario dell’hotel mi ringrazierà. Se mai ci incontreremo.
Risalgo in camera per lavarmi i denti, prendo il borsello e scendo di nuovo. Alla reception mi approprio del telefono e faccio il numero della camera di Giancarlo. Non risponde, deve essere già andato, poteva aspettarmi. Lo chiamo al cellulare. Niente. Non mi rimane altro che uscire in strada e andare da solo al luogo della riunione.

Il vicolo dell’albergo è vuoto, dà su uno stradone pedonale, un’arteria commerciale che a quest’ora di un lunedì dovrebbe essere in piena attività. Turisti, pensionati, disoccupati, gente che chiede la carità: dove sono? Sospetto che ci sia una fiera importante, magari nella piazza grande, qualcosa di profondo interesse per l’umanità, e che tutti siano lì, anche il personale dell’albergo, anche il Flaccido e le sue troie. Forse anche mia moglie che continua a non rispondere al telefono. No, lei è a mille chilometri da qui, non dire sciocchezze.
Controllo dieci volte l’indirizzo scritto nella mia agendina. È questo. Chiuso. Buio. Controllo l’ora. Combacia con quanto scritto. Giancarlo continua a non rispondere. D’accordo, va bene così: andiamo a vedere ‘sta città.
Percorro strade principali e vicoli, cerco di raggiungere il centro. Percorro anche il quartiere a luci rosse: le vetrine sono tutte vuote, oggi non c’è domanda né offerta nemmeno nel mercato del piacere, quello che di solito non conosce crisi. Una porta è socchiusa: entro. Do il buongiorno al nulla, mi risponde solo una frazione d’eco. Mutandine di pizzo per terra, camicie da notte di seta. Le annuso. Di donna c’è l’odore, ma solo quello. Prendo un souvenir, poi esco da quel bordello silenzioso. Arrivo in piazza, un evento è previsto di certo: ci sono le bancarelle, fiori, frutta, salumi, pesce. Nessuno di guardia.

Mi taglio da solo una fetta di salame all’aglio, la mangio con godimento profondo, mi servo una seconda volta.
Con il coltello da salumiere ancora in mano, corro al centro della spianata, urlo, faccio una capriola. Mi denudo. E tanto fa caldo. Lascio i vestiti per terra, tornerò tra mezz’ora, vediamo se ci saranno ancora. Il cellulare lo porto con me, ben saldo all’interno del mio pugno. Devo continuare a chiamare, ogni tanto: c’è qualcuno in giro?
Afferro una mela, le do un morso e getto il resto.
Continuo a camminare per le strade del centro, libero da tessuti sintetici che grattano sulla pelle e da scarpe sempre troppo strette per la larghezza dei miei piedi. Farò attenzione ai chiodi, ai vetri e alle secrezioni altrui. Se di altrui possiamo parlare, oggi.
La porta del cinema è aperta, vado verso la biglietteria. Mi stacco da solo il permesso di assistere allo spettacolo. Sono in ritardo: il film è già iniziato, sono l’unico spettatore. Mi siedo nell’ultima fila, la mia preferita; le poltrone presentano macchie sparse, sarà Coca Cola, spero solo di non prendermi qualche fungo alla schiena. Fa freddino: chi ha abbandonato quest’attività a se stessa non ha spento l’aria condizionata, uno spreco di elettricità che qualcuno pagherà per niente. È una vecchia pellicola con Cary Grant. Anche lui è solo, nel mezzo di un campo. Forse sta provando le stesse sensazioni mie. Ora però arriverà un aereo a sparargli dietro: inizio a sudare da tutto il corpo, spero non capiti pure a me. Sono in una città deserta, se ci sono altre persone oltre a me dovremo riunirci, cercare di legiferare, metterci d’accordo su come organizzare la convivenza. Se arriva uno dall’alto, con un aereo, a spararmi, non saprei come difendermi, non saprei a chi rivolgermi. Non ho visto poliziotti in giro. Basterebbe che ci fosse anche una sola persona per strada più forte di me: senza protezioni istituzionali diventerei il suo schiavo per sempre.
Esco dal cinema, ho già visto il film e so come finisce.

Vado verso un ristorante consigliato da tutte le guide turistiche, non è lontano. Il telefono suona sempre a vuoto. Su Whatsapp non mi scrive nessuno, la qual cosa mi riempie di tristezza perché di solito mi tiene molta compagnia. Apro e chiudo l’applicazione due o tre volte nel giro di quindici secondi, ma niente. Non mi scrive nessuno. Allora scrivo io, scrivo all’intera rubrica telefonica. Nessuno indica la spunta blu, nessuno ha letto il mio messaggio: AIUTO. Entro nudo nel tre stelle Michelin che mai potrei permettermi di pagare, e mi siedo nella grande tavolata al centro. Chiamo l’oste a gran voce, ma sembra che nessuno voglia prendere la mia ordinazione. Salgo in piedi sopra la tovaglia, la imbratto di nero – accidenti, sono sporchi i miei piedi – e piscio girando il corpo a trecentosessanta gradi. Qualcuno accorrerà per sgridarmi. Aspetto così, in piedi, mezz’ora: non succede niente.
Entro nella seconda cucina della giornata: questa è più pulita. Prendo un pentolone e mi faccio una pasta, la condisco con un po’ d’olio e qualche pomodorino intero che trovo nell’ampio frigorifero. Mangio lì: in cucina, il salone ora odora della mia stessa urina e mi passerebbe l’appetito. Finisco in due minuti, getto il piatto nel lavandino: ha i rubinetti dorati.
Nell’atrio c’è un pianoforte a coda, che bello strumento, suono tanti auguri a te con la sola mano destra – sol, sol, la, sol, do, si – ed esco, di nuovo, in strada. Sono da solo.

Vado al museo: cammino per ore attraverso i lunghi corridoi, mi fermo a salutare tutte le videocamere di sicurezza che incontro. Non mi rispondono neanche loro, nemmeno con un led lampeggiante. Mi disoriento la testa con così tanta bellezza. All’uscita strappo il quadro più piccolo che trovo e scappo fuori. A occhio è un Monet, o era Manet, comunque un bel colpo. Corro per tutta la gradinata, cado, buco la tela, rimane in ogni caso un pezzo da collezione. Potrei anche tornare dentro a cambiarlo, ma non ne vale la pena, il cliché intima di non passare due volte per il luogo del delitto, perché lo fanno tutti, e io tutti non sono, io son’io, sono l’unico individuo che esista al mondo. Sono l’uomo! Immagine e somiglianza di Dio.
È sera, potrei tornare all’albergo ma mi dico che potrei anche cambiarlo, andare in un cinque stelle, un Hilton, e potrei sceglierne ogni giorno uno diverso, chissà se la colazione rimane fresca ogni mattina, in un mondo inabitato.

Varco la hall dell’Hilton, prendo una chiave a caso e faccio le scale: rabbrividisco al pensiero di poter rimanere bloccato in ascensore. La stanza è stata utilizzata da qualcun altro, la governante non è passata a pulire. Ritengo sia comunque meglio del mio cesso di ieri notte.
Appendo il quadro al posto della stampa priva di gusto che sta di fronte al letto e mi distendo davanti all’emblema dell’impressionismo. Gli faccio una foto col telefono, da domani inizierò a viaggiare solitario e spedirò a casa le foto di quest’opera nei diversi alberghi che visiterò, come se questo Monet fosse il nano del film Amélie di Jean-Pierre Jeunet. Chissà se qualcuno mai le recapiterà. E tanto la tabaccheria qua fuori ha la porta aperta, i francobolli li posso prendere gratis. Se poi le lettere non arrivano me ne farò una ragione. Non ho messo la sveglia. Monet, un nano? Ma cosa dico, cosa penso? Sono stanco, molto stanco. Chiudo gli occhi.


Gabriele Esposito è nato a Venezia nel 1983; dopo un gran girovagare per il continente, un dottorato in economia e un diploma di cineasta, è approdato a Bruxelles, dove vive e lavora. Ha scritto due romanzi, ancora inediti, e qualche racconto, uno dei quali sarà pubblicato dalla rivista Risme