Mia madre è diventata mia madre quando io sono diventata adulta. Prima era mamma: era morbida, comoda anche nel suono, respirava e abbracciava come abbraccia la emme, come respira la a. Ed era bianca in tutte le mie rappresentazioni mentali. Bianca come i cuscini del letto matrimoniale su cui avrei voluto dormire tutte le notti della mia vita, come le margherite che coglievo in giardino e di cui ancora riuscivo a sentire l’odore.
Ha smesso di esserlo il 28 dicembre 2018. Ero appena stata dalla parrucchiera. Da settimane mi guardavo allo specchio e non mi riconoscevo: i capelli lunghi che avevo portato dai sette ai quindici anni mi restituivano un’immagine incoerente, obsoleta in modo inquietante. Il colore non era più quel biondo cenere che mi aveva fatto meritare le carezze degli amici di famiglia, il ciuffo non scendeva più bene incorniciandomi il volto e smussandone gli angoli quadrati, eppure i capelli erano ancora lunghi, lisci, ordinati. Tempo dopo, guardandomi indietro, avrei capito che quello era stato il primo segnale. Il cuoio capelluto doveva essere cambiato nella conformazione, doveva essersi stretto per non far scappare fuori ciò che avevo imparato, e quindi i capelli stavano su così, scomodi.
Avevo preso un appuntamento al salone. Una volta seduta davanti allo specchio, con i vermi nella pancia per la spiacevolezza che il mio riflesso mi causava, avevo detto «Voglio un caschetto, qualcosa di nuovo». La parrucchiera mi aveva risposto «Lo facciamo nero». Io mi ero guardata, avevo pensato ai colori che ero solita indossare. «Forse il nero non mi sta bene» avevo risposto, ma lei aveva fatto una faccia, era davvero convinta della sua idea. «Ti fa forte, ti fa rock. Donna.»
Era successo anche qualche anno prima, quando mi ero fatta prendere dal ticchio per i capelli alla garçonne. Seduta su una sedia in pelle bianca dal tipico odore di nuovo le avevo mostrato un’immagine di una ragazza con quattro peli corti in testa che le scendevano di poco sulla fronte. Le donavano personalità, come avevo imparato a dire nelle settimane prima leggendo gli articoli sui trend della stagione. Non aveva nulla a che vedere con me, eccezion fatta per l’audacia che in lei era in atto e in me solo in potenza, ma la parrucchiera mi aveva detto «Ti somiglia, guarda che roba». Mi aveva preso il cellulare, l’aveva messo accanto alla mia guancia. Le sue pupille avevano preso a fare destra sinistra, destra sinistra. Poi aveva fatto ruotare la sedia, l’aveva fermata di fronte allo specchio, mi aveva riconsegnato il telefono e mi aveva messo le mani in testa. Ma sì, ma tagliali, vedrai come ti senti donna.
Non avevo mai tagliato via più di un anno di capelli e in qualche settimana avevo convinto la gente che mi circondava a fare pressione su di me perché ne tagliassi via ben quattro. E allora non potevo esimermi: non ero più io a chiederlo al mondo, ma il mondo a chiederlo a me. Non avrei mai tagliato senza approvazione, ma ero certa di averne bisogno, quei capelli mi imbruttivano dei litigi, delle notti insonni a pettinarli per cercare di calmarmi. Volevo essere coraggiosa come mi dipingevano, dicevano che non avevo paura di cambiare e che bisognava prendermi a esempio, aspettavano la foto della nuova me. Avevo mandato un messaggio alla mamma, Vado quindi?. Lei mi aveva risposto Vai. Il 28 dicembre era stato diverso, mi ero seduta sulla sedia bianca del salone senza avvisare nessuno e senza farmi domande. Avevo cominciato da poco le sedute dalla psicologa, pensavo stessero andando bene, eppure in un lampo, con Ti fa forte, donna, mi era stato chiaro che quella signora a ridosso della mezza età che mi metteva le mani in testa da quindici anni, e che ogni volta lasciavo fare perché sentivo con lei una forte affinità elettiva, mi aveva appena tirato un nodo che né io né la mia psicologa avevamo mai preso. In un mondo giusto, tutti i soldi che i miei genitori stavano sborsando per la seconda sarebbero dovuti finire sul conto della prima, tutti coloro che avevano bisogno di aiuto sarebbero dovuti passare dal suo districante.
Mi ero guardata. Di nuovo, non ero una bambina, neanche un’adulta, bensì un ibrido. La mia immagine mi stava stretta, m’infastidiva. Avevo preso a muovere impercettibilmente la gamba accavallata, avevo alzato il sopracciglio sinistro. E avevo dato il nulla osta.

© Luca Brunetti

A casa ero tornata non troppo convinta, ma ormai era fatta. Avevo tagliato via tre anni, non era il mio record ma la tinta mi faceva arrivare almeno al livello di quando mi ero fatta fare lo shatush e la permanente in una botta sola, una coccarda al coraggio me la sarei assegnata. Mi ero guardata, nell’ordine, nello specchietto retrovisore della mia macchina cionca, nel finestrino della portiera chiusa, nel vetro sporco della portineria all’aperto, nello schermo del cellulare per mandare una foto a Simone e alle mie amiche. Poi, dopo aver suonato il campanello e aver aspettato che la porta di casa si aprisse, negli occhi di mia mamma.
In un sentiero nel Grand Canyon visto in prospettiva, gli occhi di mia mamma erano là dove lo sguardo si perde prima di una discesa. Lei si era allontanata dall’uscio per inquadrarmi meglio – dovevo essere fuori dai suoi margini – e aveva stretto gli occhi curvando di poco la testa. Poi aveva preso a sorridermi di un sorriso che non avevo mai visto. Mi aveva detto «Eh, stai bene».
Non mi orientavo, non ci vedevo più il mio riflesso ma solo mia mamma che non era mia mamma: non parlava come lei, non sorrideva come lei, non mi guardava come aveva sempre fatto. Rispondeva in un tono asciutto, era bianca ma senza latte. Era là, prima della discesa nel Grand Canyon. Lontana in quell’ambiente duro.
Mi ero chiusa in camera senza nemmeno passare da mia sorella, che mi avrebbe di certo dato soddisfazione, e avevo cominciato il gioco del silenzio. Me l’ero presa perché non capivo dove avessi sbagliato, per quale motivo lei avesse reagito così. Avevo sempre perso nella lotta coi sensi di colpa, ma quella volta avevo fatto muro, le braccia incrociate sulla bocca dello stomaco a farmi da scudo. Mi era sembrato un gioco volto a farmi inutilmente del male e non lo tolleravo, ma lei aveva detto che andava tutto bene. Il suo unico pensiero era che dovevo accompagnarla in stazione: lei temeva di perdere il treno, io la mia mamma morbida e bianca; temevo di non vederla tornare da Torino o da quel luogo che avevo intravisto nelle sue iridi. Allora in quel gioco al massacro dalla difesa ero passata all’attacco. Provocazione dopo provocazione.
Mi diceva di muovermi e non rispondevo. «Tra quanto partiamo?» chiedeva, e io: «Non lo so». Non ricordo come abbiamo iniziato a urlare, ma sapevo che sarebbe successo: gli insulti vivono nell’aria di casa e aspettano l’esplosione dei non detti, per loro sono l’anticamera di un veglione. Le parole che si erano organizzate nella mia testa e con le quali avrei voluto risponderle erano uscite dalla mia bocca dapprima a bassa voce e poi a tono medio alto, avevano riempito la stanza e quando non c’era stato più spazio avevano sfondato le pareti e raggiunto il corpo esile di lei. Lei che, dall’altra parte, ugualmente bisbigliava cattiverie e con porte, ante e piedi faceva musica, spalancava le finestre per invitare i vicini ad assistere. Era il conto alla rovescia, la provocazione del cretino, e allora scattava lo zero e io aprivo la porta e le urlavo in faccia. Lei era già lì, le vene uscivano dai nostri colli e i capelli lucidi e leggeri di piega mi erano così irrilevanti, così stupidi, non avrei dovuto dedicarmici, sarei dovuta restare a casa a fare qualcosa di utile, qualcosa con lei, lei che voleva andare via, che lo aveva già fatto. Mi ha sempre fatto schifo l’ultimo dell’anno, litigare con lei pure.
Dopo un po’ le avevo urlato «Ti aspetto in macchina» e significava «Ti odio», o «Torna». Lei mi aveva risposto «Non ho bisogno di te» ma io non ci credevo, avevo la presunzione di credere che senza di me non avrebbe saputo fare nulla. In viaggio avevo gridato a tal punto da dover abbassare i finestrini, la pressione nella mia testa non era mai stata così alta. «Mamma, cazzo!» e giù per la Statale 36. Da sotto il caschetto nero ormai spettinato la vedevo mentre si teneva alla maniglia del tettuccio, aveva la mascella serrata, tratteneva la paura per il mio piede che fremeva sull’acceleratore. Sapevo di poter decidere almeno in quel momento cosa farle provare; per una volta quella condizione di subordinazione psicologica era nelle mie mani, attiva, e io non vedevo l’ora di servirmene. Se non avesse sputato il rospo avrei accelerato più di quanto sarebbe stata in grado di sopportare, le avrei fatto del male come lei stava facendo a me. Le avevo chiesto «Perché non parli? Rispondimi», ma lei guardava fuori, forse stava piangendo ma non un singhiozzo usciva dalla sua gola bianca. Allora avevo affondato il piede. In pochi secondi su viale Zara la macchina aveva raggiunto i centottanta, lei si era buttata con le mani sul cruscotto, aveva gridato il mio nome come se la stessi accoltellando e il cuore mi era salito in bocca, avevo smesso di respirare. D’istinto avevo spostato il piede dall’acceleratore al freno e l’avevo schiacciato, avevamo sbandato, per poco non eravamo entrate nella siepe a lato della strada.
Ero sconvolta. Mi era sembrata un animale, una preda pronta a difendersi. Quanto era cruda la mia paura di lei, quanto imbarazzo provavo nel riconoscerla anche appagante. Avevo respirato, avevo cercato di fermare le mani tremanti sul volante, poi avevo scalato le marce e guidato a passo d’uomo sugli ultimi trecento metri prima dell’incrocio.
Non pensavo che il nostro rapporto potesse fare la muta nel tempo di un semaforo rosso, ma a macchina ferma lei aveva aperto la portiera ed era scesa. «Vattene, non farti vedere mai più» mi aveva detto mentre sulla corsia accanto le sfrecciavano a un palmo di mano. Inaccettabile: la prima vittima di quel gioco ero stata io, non poteva mica mollarmi lì come fossi colpevole. Il semaforo era diventato verde e io, con una forza che non avevo mai avuto, l’avevo ricacciata dentro per il cappotto ed ero ripartita, Se riparto mica si butta, mica scende se vado forte. Le auto avevano suonato il clacson, ci erano passate accanto e attraverso il finestrino abbassato si erano sincerate che non stesse accadendo qualcosa di grave, mentre noi procedevamo a passo spedito con la portiera spalancata. La tragedia era a un passo e io, con i capelli ormai disfatti ma a quel punto davvero miei, decidevo che era abbastanza. Piangevo, piangevo di una paura inspiegabile, le dicevo «Sei pazza, davvero sei pazza», ma pazze eravamo entrambe.
A volte le mamme smettono di essere mamme e le figlie di essere figlie soltanto per dimostrare di potersi fare male, di essere rilevanti l’una per l’altra a qualsiasi età. Ci infliggevamo spesso dolore, marcavamo il territorio, ma quel giorno era successa un’altra cosa. A marcare il territorio era stata la me adulta sulla me bambina, e lei se n’era accorta, mi aveva lasciato lo spazio che avevo inconsciamente richiesto con la scusa di un caschetto a tinta nera. Non l’avevo capito, ma quel 28 dicembre 2018 sull’uscio di casa aveva abbandonato i panni di mamma ed era diventata madre. Bianca, sì, ma dello zucchero filato che mi comprava alle volte alle giostre, morbido sulla lingua e duro sotto i denti.


Giulia Laino è nata nel 1994, vive in provincia di Milano e lavora in un’agenzia letteraria. Dice che una storia è una linea nera fine su sfondo bianco, e che il suo lavoro sia rifinirne i contorni, arricchirla di strati e sfumature. Per questo gira sempre con dei colori in borsa: non di sole penne rosse vive un editor. Nel 2019 ha illustrato il libro Eat.Mi di Valerio M. Visintin (Baldini+Castoldi). Nel 2020 un suo racconto è stato inserito nell’antologia Come Salmoni.