Tutto è energia e questo è tutto quello che esiste.
Sintonizzati alla frequenza della realtà che desideri
e non potrai fare a meno di ottenere quella realtà.

Albert Einstein


Sono uno dei pochi rimasti tra quelli che c’erano all’inizio. Io e Vittorio eravamo compagni di banco alle elementari, era noioso e testardo come un mulo. Ora che è tutto finito posso dirlo con serenità e senza paura di finire sepolto vivo, Vittorio Fanelli era davvero un idiota di serie A, si dava arie da grande mente, da pensatore geniale; tutte cazzate, è stata pura fortuna.

I primi visitatori non riuscivano a credere ai loro occhi, la centrale di Energia Circolare Aleatoria andava aldilà di ogni immaginazione. Soprat- tutto perché questo gigante sepolto si trova qui, nel modesto paesino di Monteverde Terme. Diecimila anime, contadini, mondine, quasi tutti in bici, macchine poche. D’inverno la nebbia era come un mare taciturno, senza onde; il silenzio spettrale tagliato solo dai rumori umani, voci, porte che sbattono, passi, risate. Una bestia sonnacchiosa e ubiqua, che nel suo sonno sognava noialtri e ci regalava una consistenza fisica. A volte, mi veniva il dubbio di non esser fatto di carne e ossa, pensavo che se mi fossi tagliato sarebbe uscito fumo grigio anziché sangue. Eppure si stava bene così. Poi Vittorio Fanelli ha creato e distrutto un mondo nuovo, lasciando solo le rovine.
Ora siamo pieni di turisti ogni giorno, la nebbia è massacrata da fari di pullman, flash, urla di bambini incapaci di apprezzare il miracolo architettonico e tecnologico che è la CECA, ovvero la centrale.
C’è perfino chi va al mausoleo di Vittorio, giù al camposanto, e di fronte alla lapide si mette a fare testa o croce. Idioti, se Albert Einstein in persona non è riuscito a capire l’Energia Circolare Aleatoria, figurarsi loro.
Il giorno in cui tutto iniziò ero al bar, da Giandomenico, pace all’anima sua! Mentre giocavo a biliardo con Gianni il guercio, era una domenica di marzo, entrò Luca, il fratello di Vittorio. Aveva il fiatone. Ci dice che è impazzito, che fa strani esperimenti nel bosco, di andar con lui e far ragionare quello là. Andammo tutti insieme, anche Menico che chiuse il bar; voleva davvero un gran bene a Fanelli. Lo trovammo in mezzo al bosco, con gli occhi da pazzo. Se ne stava là in canotta e mutande, accanto a una stufa elettrica. Pensai che Fanelli fosse completamente fuori, chi diavolo se ne sta così, mezzo nudo in mezzo al bosco, con una stufa elettrica staccata come unica compagnia?
Lui ci guardò e disse di aprire bene gli occhi. Sopra la stufa c’era una moneta da cinquecento lire, Vittorio la prese e la lanciò, come se stesse giocando a testa o croce. Ricordo benissimo che uscì testa, niente. Ci guardò disperato, riprese la moneta, la mano tremante, disse che prima aveva funzionato. Rilanciò, ancora testa. Vittorio era sempre più affranto. Dopo pochi secondi l’aria fu scossa da una scarica violenta, un ronzio diffuso e intenso. La stufa si accese a piena potenza, Fanelli l’abbracciò in estasi, stava crepando di freddo. Ripeto, la stufa era scollegata. In lontananza vedemmo la casa brillare come una stella in mezzo al mare di nebbia. Fu come assistere a uno spettacolo di magia, o forse di stregoneria. Menico, il più pragmatico, andò a controllare la stufa e prese la moneta, causando un panico totale in Vittorio che subito si avventò sull’amico per strappargli di mano la cinquecento lire. Ma era un omone di quasi due metri e non si fece sopraffare da Fanelli, che già a trent’anni era flaccido e debole, non come la statua nel mausoleo, dove sembra una sorta di Maciste. Menico lanciò la moneta: testa, niente, croce, niente, testa, ancora niente e via così per molti lanci. Al ventesimo uscì croce e ancora una volta la stufa si accese e la casa brillò. Faceva un freddo cane, Menico diede il suo cappotto a Vittorio, visibilmente sconvolto.
Quella notte rimanemmo tutti dai Fanelli, ma nessuno aveva sonno; cercavamo di razionalizzare l’accaduto, di riportarlo dentro un ordine comprensibile. Ciascuno recitava un suo monologo, fatto di quelle poche nozioni scientifiche in suo possesso, per poi passare a elenchi di normalità quotidiane, cosa mangiare a colazione, i fornitori del bar, la ricetta del risotto di Teresona; era una lunga preghiera alla dea dell’ordinario, del tiepido, del ripetitivo.

© Alessia Marino

Nei giorni successivi scoprimmo varie cose riguardo quella che sarebbe diventata famosa come ECA, Energia Circolare Aleatoria.
Punto primo, la scarica era, come dice il nome, aleatoria, poteva liberarsi sia che venisse testa sia croce. Non c’era una sequenza giusta o sbagliata. A volte la scarica avveniva al primo lancio, a volte al trentesimo. Ricordo ancora le nottate insonni dei primi tempi, sequenze interminabili di lanci, per cercare un ordine nascosto in quell’assurdità. Avreste dovuto vederci allora, dei tizi sudati, gli occhi in preda alla vertigine dell’infinito, la mano che replicava sempre lo stesso gesto, lo sguardo che seguiva supplice la moneta. A un certo punto, ci convincemmo che il segreto fosse nel modo in cui lanciavamo la moneta: iniziammo a tentare i lanci più assurdi, modificando la forza, la posizione delle spalle, le braccia, smorfie, urla, niente doveva essere lasciato al caso.
Punto secondo, non bastava una qualsiasi moneta da cinquecento lire e non funzionava ovunque. Quella di Vittorio scaricava da un preciso punto del bosco fino a casa sua. Delimitammo il suo raggio d’azione con dello spago, che più avanti diventò filo spinato. In tutto trovammo altre tre monete capaci di generare ECA, due di Vittorio e una del fratello Luca, due pezzi da cinquecento e uno da cento. Quest’ultimo non fu che un’ulteriore beffa a ogni nostro tentativo di comprendere quell’energia, o qualsiasi cosa essa fosse. Iniziai a bere forte e mia moglie mi lasciò. Io non ne volevo sapere di avere un figlio in quel mondo assurdo, dove una moneta lanciata per aria poteva illuminare mille città, ma solo se lanciata in un boschetto o nel bagno di Luca, nel caso della cento lire. Dormivo quasi niente, il sole dell’alba mi illuminava quasi scusandosi mentre contemplavo affranto la pianura, gli alberi mossi da qualche rara folata, le prime voci dei miei simili, ignari di vivere in un groviglio inestricabile. Ricapitolando, quattro monete erano in grado di liberare scariche di ECA a intervalli imprevedibili. Cercammo in tutta Italia, collezionammo monete, le lanciammo ovunque e in ogni modo, cercammo altri come noi sui giornali, italiani e non: nulla. Certo, con un tesoro del genere tra le mani, perché spifferare tutto?
Punto terzo, anche con le batterie ECA non ci fu niente da fare. Una volta usciti dal raggio d’azione, qualsiasi cosa la batteria stesse alimentando si bloccava. In seguito, tramite rilevatori costruiti appositamente, potemmo accertarci di ciò che già sapevamo, l’energia era ostinatamente localizzata. Disegnammo una mappa, tracciammo quattro cerchi; ognuno rappresentava il raggio d’azione di una delle monete, mettendoli insieme si otteneva la portata complessiva dell’ECA. A qualche mese di distanza dalle prime lettere inviategli, giunse a Monteverde Friedrich Lutzer; sì, il nobel, non mi va di dilungarmi troppo su questa storia; Lutzer stesso ha sempre taciuto sulla sua permanenza qui.
Punto quarto, l’unica centrale ECA al mondo, che io sappia, è qui da noi; l’ingresso è ormai noto a tutti, nasconderlo non ha più senso. Costruimmo la centrale ECA sotto la supervisione di Lutzer, dopo aver coinvolto il paese intero e i vicini di Villaregia. Le prime batterie le mettevamo a caricare di notte, mentre i rulli facevano roteare le monete di continuo; in più costruimmo un’enorme turbina per l’alimentazione. Vivevamo sospesi tra un sogno e un incubo, nessuna spiegazione plausibile per l’ECA, perché qui, perché noi, perché i Fanelli, perché delle monete e quelle monete. Lutzer diceva sempre che era un’assurda violazione della termodinamica, in cambio dello sforzo minimo richiesto per lanciare una moneta si otteneva a intervalli aleatori una quantità di energia capace di alimentare una città come Roma per mesi: e parlo di una sola scarica!
Verso la fine, Vittorio e Lutzer decisero di far costruire anche la fabbrica. C’è una cosa che non ho detto, il confine dell’ECA era valido solo in orizzontale, non in verticale, era un’energia polarizzata, come ebbe a dire Lutzer. Scavammo molto, i macchinari creati dal tedesco sembravano provenire da un altro universo; a volte passavo ore nell’hangar sotterraneo, a guardare i macchinari, enigmatici e miracolosi come una reliquia sacra o una piramide. Non serviva tanta manodopera, l’energia era così abbondante che non sapevamo che farcene. La salita in ascensore dall’ultimo livello della fabbrica sotterranea alla superficie richiedeva due ore di viaggio nel colossale montacarichi. Per qualche mese riuscimmo a produrre macchine ed elettrodomestici a prezzi stracciati. Vendevamo solo alla Volkswagen, ordini di Lutzer. Il governo iniziò a mandare controlli e infiltrati, non eravamo stati molto prudenti. Avevamo trasformato Monteverde in quella che vedete ora: nacque il museo della moneta, un pretesto per cercare nuove fonti di ECA, la stazione, la cui forma ricorda quella di una moneta nelle varie fasi della sua rotazione e infine il municipio bunker. Vittorio e Luca ormai vivevano come due suore di clausura nella loro casa fortezza, terrorizzati che qualcuno o qualcosa (Vittorio era tormentato da strani incubi) rubasse loro le monete. Una paura irrazionale, perché le monete funzionavano solo là. La casa era piena di quadri e statue raffiguranti la casualità in ogni sua forma. Secondo Luca la cosa più assurda era anche quella più apparentemente normale: la loro foto di fronte a Palazzo Fanelli insieme a Einstein. Cosa c’era di più insensato della presenza di Albert Einstein in persona a Monteverde Terme, sorridente in mezzo ai fratelli Fanelli?

A dicembre di quell’anno tutto finì, l’ECA sparì. La nebbia dà, la nebbia toglie. Una notte la fabbrica rimase senza energia per sempre. Dei periodici blackout erano la norma vista la natura dell’energia circolare, per questo avevamo le batterie, ma un’assenza così lunga di scariche era inusuale perfino secondo le nostre teorie approssimative. In fondo, nessuno di noi ci capiva davvero qualcosa. Essendo aleatoria, l’energia avrebbe potuto rimanere dormiente per anni o secoli e poi riattivarsi. Aspettammo, ma Lutzer diventava via via impaziente. Proprio lui, quello che ne capiva di più, aveva dato per scontata l’ECA, o forse sapeva qualcosa che noi non potevamo neanche sognarci di capire. Inutile che vi dica quello che successe poi: Lutzer sparì dopo la cerimonia del nobel, Vittorio si suicidò e Menico morì di cirrosi epatica. Restano i cimeli, le batterie, i macchinari ciclopici di Lutzer e quelli più ordinari; i turisti guardano i frigoriferi ECA come fossero un manufatto alieno. Alle pareti del municipio sono appesi i progetti della fortezza verticale, nel negozietto gestito da Luca i collezionisti spendono fortune per comprare le lire Monteverdine, pezzi da cinquecento dove su un lato è raffigurato Palazzo Fanelli e sull’altro una moneta da cinquecento lire italiana. Il municipio e la stazione sembrano due giganti in letargo, resti sdentati di un’illusione fomentata dal lancio di una moneta. Einstein aveva ragione, Dio non gioca a dadi. Una lezione da imparare ci dev’essere, ma io sono solo il custode di un museo numismatico. Venitemi a trovare, sono sempre qui, giorno e notte, a lanciar monete, ad aspettare che l’ECA torni.


Adriano Manca ha abbandonato un dottorato in filosofia della mente in Nuova Zelanda, perché l’aria del mondo accademico era irrespirabile. Al momento tenta di essere un copywriter freelance, spacciandosi per esperto SEO e cose così. Appena sarà miliardario scapperà in Sudamerica e per prima cosa vedrà il derby River-Boca, per seconda si abbufferà di empanadas.