Venerdì sera conobbe Marlène. Era esattamente come l’aveva immaginata: il suo arrivo eccitato e trasandato rispecchiava la voce squillante e le frasi confuse che aveva udito al telefono durante la settimana.
Com’è andato il viaggio? David ti ha già portata a fare il giro di Saint-Louis?
Fai come fossi a casa tua!
Ti sei fatta fare le crêpes? David le fa come quelle normanne!

In quei primi giorni lei e David non avevano mai mangiato insieme. Nella veranda sul retro Marlène aveva installato una lunga tavola a uso degli ospiti, e quelle mattine lei ci si era seduta – da sola – ignorando i messaggi che suo cugino le inviava dall’altra parte dell’oceano. Fin dal viaggio in taxi che dall’aeroporto l’aveva portata a Saint-Louis-du-Ha! Ha! aveva intuito che quel posto dal nome tanto strano non era di alcuna attrattiva per i turisti.
David avrà avuto sì e no vent’anni. Quando lo vide la prima volta dall’altra parte del bancone improvvisato della reception – scoprendo che era il figlio di Marlène – si chiese dove fosse l’altro fratello; le parve assurdo doversi occupare di qualcuno di solo pochi anni meno di lei. Di fratelli, sì, ne aveva due: Robert e Quentin; ma erano molto più grandi e figli di un’altra madre.
Saint-Louis-du-Ha! Ha! si trovava sulla Route 185 dell’autostrada Transcanadese, ai piedi degli Appalachi e nella regione dei laghi del Témiscouata; coordinate che per Anna erano la promessa di grandi paesaggi. Ma come David aveva anticipato, accettando scocciato di portarla in giro su ordine della madre, non c’era niente d’interessante: Saint-Louis si componeva di poche strade dove le case erano distanti una dall’altra, tutte rivestite in legno e con un loggiato sul fronte; i pochi esercizi commerciali si trovavano agli ingressi del paese: un meccanico, una taverna, un piccolo supermercato; al centro c’era solo una chiesa con un grande piazzale desolato, più avanti la posta.
Davanti all’entrata della casa riluceva la nuovissima insegna recante il nome Hotel du Lac, ma il lago era stato temporaneamente chiuso.
Anna aveva fatto domanda lì durante l’estate come in tanti altri posti; ogni anno passava dei mesi all’estero (ogni anno si allontanava da suo cugino Thomas); qualcuno aveva rinunciato all’ultimo e in fretta aveva recuperato i fogli della candidatura per ricordarsi di cosa si trattasse: tre mesi da receptionist nell’hotel locale, qualche turno di pulizia e, di quando in quando, badare al figlio della proprietaria. Era riuscita a parlare al telefono con Marlène solo una volta prima di partire; poi il suo cellulare aveva squillato a vuoto.
«Mia madre è in città. Non tornerà prima di venerdì.» Con gli occhi abbassati sul calendario della reception – vuoto –, David agguantò il telefono: «Mamma?» – al figlio rispose subito – «La francese è arrivata. Sì. In camera di Rob? O Quentin?», poi tappò col palmo della mano il ricevitore e indicò le scale: «La tua camera è quella in fondo a destra; riportami il cordless appena hai finito».
Marlène l’aveva tempestata di domande premurose e informazioni confuse mentre portava le valigie da sola e varcava la soglia dell’abitazione, la stanza scarna di qualcuno che se n’era andato da tempo. Quando tornò, venerdì sera, l’aiutò a liberarla. Ripose con cura e nostalgia ogni oggetto in uno scatolone, raccontandole aneddoti di famiglia, mentre David era chiuso in camera con la musica a palla.
«Prima di me suo padre ha avuto un’altra famiglia.»
Osservò una foto che non la ritraeva.
«Entrambi i suoi primi figli sono davvero brillanti. David è cresciuto con loro, ci sono sempre stati. Soprattutto Quentin. Rob lavora a Montréal, ha una bambina.»
Dalla camera accanto il pezzo s’interruppe di colpo; iniziò un rap più concitato.
«David ha uno spirito diverso. È più simile a me, lui.»
Chiuse lo scatolone, e quasi con sforzo rallegrò il tono di voce: «Quentin torna da Vancouver tra una ventina di giorni. Sicuramente li conoscerai.»
David si era mostrato nervoso per l’arrivo di sua madre fin dalla mattina. Durante la cena aveva trovato un pretesto qualsiasi per litigarci. Aveva preso una birra dal frigo ed era andato di sopra dopo aver sbattuto l’anta. Marlène gli aveva urlato dietro ma senza troppa convinzione. «Non devi bere! Ti fa male, con le medicine che prendi!», poi aveva finito di condire le verdure con l’olio, e poco dopo era salita con Anna al piano di sopra, per raccontarle pezzi delle vite che si erano incastrate con la sua.

Prendersi cura di David significava accompagnarlo alle visite psichiatriche due volte a settimana. Imboccavano la strada in direzione Nuovo Brunswick, fino a Notre-Dame-Du-Lac. Lui scendeva senza dire una parola – la durata della seduta era ogni volta sconosciuta –, e lei lo aspettava nei pressi del lago, una distesa fredda di fronte agli alberi che voltavano al rosso, dove i sommozzatori cercavano qualcosa oltre le sbarre a bloccare l’ingresso. Davanti a quella visione, Anna aveva riletto più volte il messaggio di suo cugino Thomas, che le ricordava l’ultima sera passata insieme – una delle tante sere prima di una partenza (un’altra sera che non avevano passato da cugini).
La mattina dopo, la scatola con gli oggetti di Robert era scomparsa dal corridoio. Marlène aveva proposto di recarsi al lago e David l’aveva informata che era stato completamente recintato. Lei gli inveì contro, ma alla guida era di nuovo calma. Raccontò ad Anna dell’hotel.
«Siamo sulla strada più lunga dello Stato. Pensa a tutti quelli che dal Nuovo Brunswick o dal Maine vanno verso il centro.»
David si era steso sui sedili dietro, il volto nascosto dallo schienale dove sedeva la madre. «Quasi solo motociclisti» aveva bofonchiato.
«Non è così. Il lago dove stiamo andando attira turisti ogni mese dell’anno.»
«Ah-ah» aveva risposto lui.
«Appunto. Sai cosa significa “Ha! Ha!” Anna?»
«Bugie» fece David a bassa voce.
«Quando i primi viaggiatori sono arrivati qui, alla vista di un lago così bello hanno esclamato: Ha! Ha!»
«Io so un’altra storia… le tribù che volevano espandersi sono rimaste fregate dal lago» continuò lui. «Un imprevisto che ha bloccato l’avanzata.
Così si sono fermati a vivere qua e hanno fondato queste città di merda.»
Sua madre non rispose; stringeva forte i palmi al volante. Deglutì un paio di volte, poi, con gli occhi quasi lucidi, riprese a parlare: «L’idea dell’hotel è venuta a David. Per l’indovinello dell’hotel infinito che è sempre pieno».
Lui intanto si era seduto composto e la fissava attraverso lo specchietto retrovisore.
Passarono il resto del viaggio in silenzio.
Marlène volle scendere comunque a vedere il lago. Percorse la riva con lo sguardo, le braccia sui fianchi, poi sferrò un calcio contro la sbarra che li separava dalla riva.
Più indietro, David la guardava compiaciuto mentre Anna assisteva alla scena ma non vedeva altro che il lago.
«La stanza accanto alla reception è la nostra stanza numero uno. Se è un hotel infinito, ed è sempre pieno, dove metteresti il prossimo cliente che arriva?»
Le parole di David ora le arrivavano come dimezzate; la stanza d’albergo le ricordava la vista sui tetti, le bocche dei comignoli a perdita d’occhio – discese di zinco verso le periferie, nascoste in lontananza solo dalla nuvola di smog che prometteva chilometri di case, ancora. Il lago era meno infinito: era una chiazza lineare, e si distingueva la riva opposta. Il mondo sembrava finire lì.

Quando Quentin tornò da Vancouver si organizzò la cena con la famiglia di Robert. Sua moglie era nata e cresciuta a Montréal e non pareva a suo agio a Saint-Louis. Avevano una bambina di due anni che la donna teneva stretta a sé. Robert era un tipo serio; Quentin più brillante, aperto – sembrava la versione positiva degli altri due fratelli. Fu lui a tenere banchetto fra gli invitati, cercando di coinvolgere Anna come meglio poteva, ma lei era distratta da David, che aveva l’aria più torva del solito, e dal ricordo delle sue cene in famiglia (Thomas che le prendeva la mano sotto al tavolo).
Qualche giorno prima aveva raccontato tutto a David.
Stavano tornando da una seduta quando all’improvviso lui aprì lo sportello sulla Transcanadese urlando che voleva guidare. Lei gli gridò di rimando mentre il vento entrava nell’auto e lui faceva contropressione sullo sportello perché non si chiudesse. Anna imboccò la prima uscita e quando David si decise a chiudere, lei proseguì comunque.
Erano di nuovo sul lago.
Saltarono la barriera: prima lei, poi lui dietro.
La riva era ancora chiusa, ma non c’era più nessuno a cercare.
«Sei una testa di cazzo!»
A un primo impatto David non recepì il tono di Anna.
«È pericolosissimo quello che hai fatto! E non ti rendi conto che non puoi guidare con le medicine che prendi?»
Poi chiuse gli occhi qualche secondo.
«Senti. Non voglio tornare in Francia prima del tempo perché tu hai rischiato di uccidermi. È meglio se ti calmi, prima di riprendere l’autostrada.»
Si sedette di fronte al lago e lui la imitò.
Passò qualche minuto, poi le salì quasi come un conato: «Ho una specie di relazione con mio cugino».
David non ebbe nessuna reazione particolare.
«Di primo grado?»
«Sì.»
«E allora? I miei hanno venticinque anni di differenza.»
«Non so se è la stessa cosa.»
«Siete innamorati?»
«No. Non credo. Non so come succede. Succede soprattutto prima di partire. E io parto anche due o tre volte l’anno.»
«E poi quando torni?»
Anna scosse la testa: «All’inizio come se niente fosse accaduto. Poi succede che devo partire di nuovo». Studiò con gli occhi la fine del lago: «E tu?».
«Io? No, a me l’amore non conviene. Penso di essere tipo… una di quelle persone che sta bene da sola.»
«Intendevo… qual è il tuo cruccio?»
David pensò al tubo delle pasticche che aveva in tasca; al perché andavano verso il lago. Proprio in quel momento squillò il suo telefono: lo schermo segnalava una chiamata deviata dal numero della reception.

© Alessia Marino

«Era solo un motociclista. Come ho sempre sostenuto.»
«È pur sempre un cliente, credo che dovremmo proprio fare un brindisi.»
Quentin levò il bicchiere in aria: «Al primo cliente dell’hotel.»
Brindarono – la moglie di Rob con reticenza.
«Ha lasciato qualche recensione positiva?»
«No» sorrise Marlène. «Credo che sia rimasto poche ore, non ha fatto neanche colazione.»
«L’abbiamo aspettato a notte fonda, ha dormito pochissimo ed è ripartito all’alba. Era un tizio molto strano. Non ci credeva che l’hotel fosse nostro.»
«Perché non sembra un hotel» intervenne Rob. «E non mi sembra neanche così sicuro, due ragazzini accogliere gente di notte. Non lo farei mai fare a mia figlia.»
Marlène entrò in uno dei soliti stati di agitazione.
«Ma certo Rob, ti pare? È stato inaspettato, e poi sicuramente fornirò qualcosa perché possano difendersi.»
A quelle parole la moglie di Rob saltò sulla sedia. Sembrava aspettare quel momento fin dall’inizio.
«Oh, intendevo un bottone d’allarme, qualcosa per spaventare…» si corresse Marlène.
David, che sembrava sapere dove la situazione andava a parare, inforcò una patata e avvicinò la forchetta tesa alla bocca della nipote.
«Lasciala stare!» gridò la donna, mentre Robert si alzò a prendere la bimba, allontanandola da David.
«Ti avevo detto che doveva stare vicina a noi! Rob, dio mio!»
Più voci iniziarono a sovrapporsi.
Quella di Robert che cercava di calmare la moglie senza contraddirla ed evitava di guardare suo fratello minore; Quentin che tentava di moderare la situazione e rassicurare Marlène che respirava affannata; la bambina che piangeva, il suono della macchina in moto e Marlène a pregare Anna di fermare David; Quentin che le diceva di aspettare, non era il caso inseguirlo ora.

La sera del motociclista erano rimasti svegli tutta la notte.
L’avevano aspettato seduti sulle poltrone del salotto improvvisato a hall di attesa, con un televisore spento e sulla parete i volantini del lago.
«Com’è crescere a Saint-Louis?»
«Non sono mica cresciuto qui.» David rispose rilassato. La confessione di Anna lo aveva in qualche modo ammorbidito. «Sono stato a Toronto fino a dodici anni. Poi siamo venuti qui; all’inizio io e Quentin dividevamo la camera. Rob invece ha sempre avuto la sua, quella dove stai tu. Ed è una testa di cazzo.»
«Tua madre non l’ha dipinto proprio così.»
«Lei stravede per entrambi, ma lui è quello che somiglia di più a mio padre. Mi saprai dire quando li conoscerai la settimana prossima.»
L’orologio digitale segnava le due di notte e il suo riflesso ribaltato sulla TV era avanti di tre ore.
«Tuo padre verrà?»
«Mio padre?», chiese David sistemandosi più comodo sulla poltrona. «Pensavo che Marlène te l’avesse già detto. È morto quando eravamo piccoli. Quando ero piccolo. Non lo ricordo neanche.»
Anna guardò il suo profilo nel televisore, sopra l’ora digitale.
«Mi dispiace.»
«Non dispiacerti. Anche se quello strizzacervelli continua a cercare il mio trauma esistenziale nella sua morte, non è così. È come se non avesse mai fatto parte della mia vita, cosa dovrebbe cambiarmi? Io sono cresciuto bene con mamma e con Quentin.»
«Per questo sei fortunato. Si vede che lei ci tiene a te.»
Si voltò a guardarla: «La tua no?».
«Ho sempre avuto la sensazione di esserle di peso. Quando sono andata a vivere sola è stata un po’ la conferma.»
«E il resto della famiglia?»
«Papà è andato via di casa quando avevo quindici anni e, sì, per me è stato un trauma.» Lo disse però con un lieve sorriso. «Fratelli non ne ho. Il resto lo sai. È bella Toronto?»
«Sì. Ci sono tornato a vivere tempo fa, per studiare. Prima che volessi aprire un hotel.» Guardò il suo riflesso nella TV. «Hai capito come risolvere l’indovinello?»
«No.»
«Basta liberare la prima stanza. Fai scalare il primo ospite nella seconda, il secondo nella terza, e così via, all’infinito. Il problema che si pone è se dovesse arrivare un bus di infiniti passeggeri.»

Marlène, in assenza del figlio, fumava. Quentin le aveva preparato una tisana dopo che Rob e la moglie se n’erano andati.
«Perché non vai a riposare? Ci penso io. Lo troverò sicuramente al lago.»
Lei farfugliava con lo sguardo perso, sembrava parlare a sé stessa.
«E poi, poi… Devo delle scuse a questa ragazza.» Si rivolse ad Anna: «Se vuoi tornare a casa tua già da domani dimmelo, ti porto in aeroporto, ti pago tutto. Ci sono forse cose che avrei dovuto raccontarti prima, ma… ma non sapevo se avresti capito…». Ricominciò a respirare a fatica e Quentin le si avvicinò sussurrandole ancora di andare a dormire. «Pensaci tu, ti prego» continuò lei rivolgendosi al figlio. «Non le ho mai detto niente, a Notre-Dame-du-Lac ci sono degli hotel dove può dormire.»
Un affanno la costrinse a fermarsi. Bevette l’ultimo sorso, poi scomparve. Anna rimase con Quentin; si avviarono verso il lago.
Di notte, sulla Transcanadese, le luci erano poche. Sulle colline si distinguevano contro il cielo scuro le sagome delle pale eoliche girare instancabili. Anna abbassò la luminosità del telefono, controllò il fuso orario italiano (scrisse qualcosa a Thomas). Mentre guidava nella strada buia, Quentin raccontò tutto, come un annuncio.
«C’è stata una sparatoria, mesi fa, all’Università di Toronto. Sono morti sei studenti. Lui non c’era. Era a casa.»
Lo schermo del cellulare si spense.
«Il ragazzo con cui conviveva è quello che ha sparato. La pistola era di entrambi. L’avevano acquistata per giocare alla roulette russa.»
Uscirono dall’autostrada, si trovarono sul cammino imboccato quando David aveva spalancato la portiera in piena corsa.
«È sempre stato così lui. Ma la parte più brutta è un’altra: quella mattina, la mattina dell’accaduto, David l’ha visto caricare la pistola, prendere le munizioni e uscire dicendo Vado al corso di arte moderna. Lo ha visto, ma non ha detto niente.»
Quentin accostò la macchina; erano vicini al lago.
«Intanto ti lascio la mia prepagata per prenderti il volo. Per l’hotel…»
Quentin cercava la carta ma Anna guardava fuori, verso il lago.
«Non ci sono più le recinzioni.»
Scese. Adesso la riva appariva integra, senza barriere, e si stendeva nella notte. David era seduto con le braccia sulle ginocchia, là dove prima c’erano state le barriere. Anna lo raggiunse.
Quentin fece per seguirla, poi esitò, rimase alla macchina.
«Non mi hai ancora detto come risolvere l’arrivo del bus infinito.»
David scrollò le spalle. La fece attendere un po’ prima di rispondere.
«A ogni ospite dovresti chiedere di andare nella camera con il numero doppio rispetto a quella dove si trova. Così tutti gli infiniti ospiti si spostano in camere con i numeri pari. L’infinito fatto di numeri dispari sarà quindi infinitamente libero.»
Il cellulare di Anna s’illuminò nel buio, gettando luce sui sassi.
«Ma tu in che camera ti trovi?»

Lui esitò: «Io non sono in questo ordine di grandezza. Questo hotel tratta solo una parte dei numeri, e io non sono un numero positivo.»
Dove il cellulare illuminava a terra, ora si distingueva la fine dell’ombra lunga di Quentin.
«Mi sento come se fossi sotto terra. In una frazione. Una stanza di un mezzo.»
Per qualche secondo nessuno parlò; il cellulare si spense nuovamente.
«Tu ti sei chiesta perché sei in perpetuo movimento?»
Le onde andavano e tornavano in una chiazza nera che si muoveva senza spostarsi da nessuna parte.
«Sembra che tu sia uno di quegli ospiti a cui viene chiesto sempre di cambiare stanza. Perché non ti fermi mai?»
Il cellulare iniziò a vibrare e muoversi slittando sui sassi.
Come un oggetto luminoso avanzava sulla riva, verso l’acqua.
Da lontano sembravano due ragazzi che avevano finalmente trovato ciò che era perduto nel lago.


Alessia Del Freo è nata in provincia di Lucca nel 1991. Fin da piccola ha coltivato la passione per la scrittura e il cinema; crescendo ha scoperto le lingue, i viaggi e la fotografia. Si è laureata in Cinema e audiovisivo alla Sorbona e ha vissuto a Parigi per sei anni. Fa parte del collettivo di scrittori Spaghetti Writers, ha collaborato con la casa editrice Nowhere Books, e adesso lavora come content creator. È stata tra i finalisti dell’edizione 2020 di 8×8, si sente la voce.