Affronti la discesa con le gambe molli e lo stomaco che manda scariche acide verso la bocca. Stringi i denti ogni volta che senti quella palla infuocata emergere dalle viscere, irrigidisci i muscoli, chiudi gli occhi. Passerà, ti dici, vorresti goderti il vento che ti sferza la faccia almeno ora che i pedali non sono tuoi nemici, ma l’aria è calda e secca, brucia anche lei come il centro del tuo petto, come la tua pelle. Il sudore ti scorre fra i capelli, da lì al volto come una corona liquefatta, poi lungo la spina dorsale irrigidita dallo zaino, le braccia, le gambe. Ogni centimetro del tuo corpo è bagnato, e continua a bruciare.
È solo la seconda consegna del giorno.
Distendi le gambe, una alla volta. Vorresti tener chiusi gli occhi per più del tempo necessario a smorzare l’ennesimo attacco alle tue viscere, ma non puoi. Qui in collina il traffico è meno intenso, ma le auto spuntano all’improvviso dalle curve a gomito, i dossi ti fanno perdere l’equilibrio. Provi a goderti il panorama, dicono che il verde risolleva il morale, ma sopra il grigio dell’asfalto la vista delle ville dei nuovi ricchi ti fa serrare la mascella. Più in alto, in quel cielo di un azzurro opacizzato dallo smog, i lembi grigi che vedi non sono nuvole. Crescono dal suolo, echi del fuoco che sta mangiando la vegetazione ai margini della città o chissà, forse sempre più vicino a te. Ascolti un suono alle tue spalle. Non è una sirena? Non sai dirlo, c’è un fischio persistente nelle tue orecchie da qualche secondo. Tua madre diceva che succede quando qualcuno parla male di te.
Ti sembra che il sangue fluisca nelle vene in modo anomalo. Vorresti avere uno specchio ora, per poter vedere il tuo volto, se è ancora roseo o di un pallore mortale, come stanotte, le ore passate ad alternare bocca e sfintere sulla tazza in bagno sperando che passasse, non sarà certo la fine del mondo mettere le gambe sui pedali domattina se solo riuscirò ad alzarmi, pensavi. Ma lo è. Anche se è rimasta solo una palla di fuoco al centro del petto a ricordarti le ore di sonno perse, e non ti serve provarti la temperatura per sapere che hai la febbre e che non dovresti lavorare in queste condizioni. Ma devi. Prendi un sorso d’acqua dalla borraccia, ti aiuterà. Speri di riuscire a tenerlo dentro.

Giri oltre l’ennesima villa, qui la pendenza è più pronunciata, una folata di vento rovente ti accoglie. Rilassati, ricorda la fatica provata poco prima in salita. Arrabbiati, se serve, forse servirà, per quello sguardo di sufficienza quando sei arrivato in cima alla collina, dove le ville vengono sostituite dalle siepi che le circondano, al confine fra la ricchezza ostentata e quella vera. La rabbia ti concede un po’ di energia. Immagazzinala, presto la discesa finirà. Ancora una consegna la puoi fare, c’è già la notifica sul tuo smartphone che ti dice dove andare. Non far caso ai contorni delle cose che appaiono improvvisamente sfocati. È solo un po’ di stanchezza.
Senti la testa sempre più leggera, il sangue non arriva, il mondo davanti ai tuoi occhi si riempie improvvisamente di piccoli pallini mentre braccia e gambe perdono sensibilità, le manopole e i pedali, è come fossero scomparsi, persino gli spallacci che ti incidono la pelle non mordono più. Freni giusto in tempo per toccare il terreno con i piedi, accasciarti con la testa sul manubrio, i dorsi delle mani a sorreggere la fronte. Dondoli il capo lentamente, boccheggiando, in cerca di una stabilità meno precaria. Senti il bruciore della pelle diminuire, le gocce di sudore sono schegge fredde, persino le viscere concedono una tregua e non ti saresti mai aspettato, dal risveglio fino ad ora, che ti sarebbe potuta mancare quella tortura. Il battito del cuore nelle tue orecchie sovrasta il fischio che ti perseguita.
Passerà. Sta già passando. Resti con la testa reclinata ancora un po’, lo zaino ti schiaccia la schiena verso il basso, andando a solleticare il collo. Ti dà fastidio, ma è un segno di presenza, come l’ennesima vampa che ti scaraventa la bile su per la gola. La ricacci giù a stento, l‘alito ha un odore acido e malato. Provi ad aprire gli occhi, li richiudi, ci provi di nuovo. Punti le braccia sulle manopole e alzi lentamente il busto, un formicolio salutare si diffonde per ogni centimetro del tuo corpo. Hai caldo e freddo allo stesso tempo, ma capisci che presto il caldo vincerà. Dopo questo viaggio al confine dell’oblio sei disposto ad ammettere che ti manca, lo maledirai più tardi, fra pochissimo probabilmente.
Ti guardi attorno. Sei fermo vicino a un cassonetto dell’immondizia, le case attorno hanno giardini meno ampi, alcune automobili sono parcheggiate in strada. Stai lasciando il mondo dei ricchi. Un signore intento a bagnare i fiori ti osserva, immobile, ignaro del cane dalle lunghe orecchie che ai suoi piedi abbaia, si abbevera direttamente dalla canna dell’acqua, gli macchia i pantaloni cercando di arrampicarsi sulle sue gambe. Indossa una visiera colorata, come quelle che degli anziani nei villaggi vacanze. È totalmente rapito dalla tua presenza, ha la bocca spalancata. Sei un alieno nel suo mondo.
Senti montare la rabbia, il sangue torna a scorrere nella maniera in cui dovrebbe, come ti aspetti faccia in un uomo nelle tue condizioni attuali almeno. Alzi la mano a disegnare verso il cielo un universale messaggio di spregio col dito medio, a lui e a chi ti umilia ogni giorno, il padrone di casa, la tua ex moglie, tua figlia che non vuole parlarti, quel damerino dallo sguardo folle che ti ha fatto penare lungo questa collina col caldo, il vento e la malattia senza nemmeno pensare di gratificarti per questo. Lui continua a osservarti immobile, senza reagire. Rimetti i piedi sui pedali, ti allontani accompagnato dai latrati del cane. Il vento sbuca da un vicolo laterale, una folata che quasi ti fa perdere l’equilibrio. Rabbrividisci, anche se il tuo corpo già assorbe solo il calore e i sudori freddi sono scomparsi. Forse è solo una sensazione residua.

Le gambe prendono facilmente il ritmo, hai ancora qualche centinaio di metri prima di lasciare il flebile sollievo della discesa. I marciapiedi si popolano, fra poco inizierai il consueto slalom fra le auto incolonnate ai semafori, i sensi sono già in allerta per evitare chi ti taglia la strada, chi attraversa senza guardare, chi non rispetta gli stop. Senti un clacson che saluta il tuo arrivo in piano, con gli occhi scruti la strada per il prossimo ristorante, un fast food, lo conosci, sai come arrivarci. Pochi minuti in piano e già la pedalata è meno fluida, le gambe diventano di marmo. Puoi farcela, la testa non gira più ma quel fischio non se ne vuole andare.
Una piccola utilitaria gialla ti affianca, decelera, il semaforo di fronte a voi è rosso. Sei tentato di fermarti anche tu ma ci sono pochi pedoni sul marciapiede, puoi evitarli e proseguire, la fretta è cattiva consigliera ma la pazienza non aiuta chi attraversa la città sui pedali. Maledici in silenzio chiunque ordina cibo online, lamentandosi per ogni piccola imperfezione nel servizio, maledici il giorno in cui ti sei messo nelle mani di persone del genere, maledici te stesso per aver accettato un lavoro da schiavo. Qualcuno prima o poi ti avrebbe assunto, nonostante le denunce, le assenze, gli ammanchi nelle casse. Sei cambiato: un mese di lavoro e sei riuscito a non dare di matto. C’è sicuramente qualcosa di meglio nel tuo futuro, vedrai.
Eviti una vecchietta piantata di fronte a te, la borsa della spesa in una mano, l’altra sulla bocca. Stava sbadigliando? O ti stava fissando? Ti guardano, lo sai, capita sempre. Vedono un maschio bianco nel fiore degli anni, sporco e macilento, e gli si dipinge la pena negli occhi. Come avrà fatto a ridursi così, a cadere così in basso? Sei la spazzatura bianca, ridotto a mischiarti con gli immigrati gialli, neri e rossi, che fanno comunella fuori dai ristoranti e ti chiedono come va, amico, come va, bello? Poco ma sicuro quel virus intestinale te l’ha passato uno di loro, uno di quelli che la gente non fissa perché è normale che siano lì, a sgomitare per un pasto, mentre tu sei l’eccezione, sei il fallimento di un sistema.
Ecco un’altra persona che ti osserva, una ragazza, bionda, due belle tette, una di quelle che cercavi di abbordare quando avevi i soldi per qualche birra in un bar. Ormai è troppo giovane per te. Tiene gli occhi sbarrati, forse è paura, forse qualcos’altro. Giudizio. Sembrano quelli di tua figlia, quando ti ha aspettato invano prima del suo spettacolo, chissà poi perché era così importante. Non guardarla, pedala. È facile deludere la gente, tutti si aspettano qualcosa. Tu sei quel che sei, che ci puoi fare? Lo stomaco non brucia più, ora ardi di rabbia e vergogna.
Manca un chilometro all’arrivo. Entrerai, prenderai il pacco, un sorriso di circostanza e via, di nuovo sulla strada. Speri che il volto non sia più esangue, prendi ritmo con le gambe, è un buon segno. I marciapiedi ora sono affollati, superi gelaterie con la coda fuori, negozi di souvenir, caffetterie alla moda, l’aria condizionata ti rinfresca quando passi di fronte agli ingressi. Cominci finalmente a sentirti bene. Hai ancora di fianco l’utilitaria gialla, guardi all’interno dell’abitacolo. Un uomo grasso, contenuto a stento nel sedile del passeggero, guarda verso di te. Il suo braccio annaspa verso il guidatore, si volta anche lui, intravedi spesse lenti di occhiali oltre le spalle massicce del ciccione. Segui la direzione dei loro sguardi, osservi la vetrina di un negozio di elettrodomestici. Niente di particolare. Torni a guardare l’utilitaria proprio mentre tampona l’auto di fronte.
Le tue mani stringono automaticamente i freni, un movimento istintivo. Stai per scendere dalla bicicletta, forse qualcuno si è fatto male, ma hai una consegna da fare e li guardi, i due uomini all’interno dell’abitacolo, il ciccione e il quattrocchi, ed è come se per loro non fosse successo niente. Hanno ancora la bocca aperta, gli occhi fissi altrove e non su quel che hanno appena combinato: stanno ancora guardando verso di te. Li fissi a tua volta, senza capire, guardi alle tue spalle ma ci sono solo curiosi in avvicinamento. Il tamponato scende dall’abitacolo, lo senti gridare, poi smette di parlare. Resti ancora qualche secondo a fissarti coi due uomini nell’utilitaria. C’è qualcosa di strano, oltre il fischio nelle orecchie e il rumore delle auto manca un elemento sonoro. Il vociare della gente.
Giri gli occhi tutto attorno. Una folla si è radunata sul marciapiede. Ti guardano tutti.
Metti il culo sul sellino, ti dai la spinta sui pedali, lanciandoti avanti. Il cordone che ti circonda si apre appena, come se fossero tutti troppo assorti per evitare il contatto fra le tue ruote e i loro stinchi, le tue spalle e i loro busti. O forse non volevano lasciarti andare? Manca poco al tuo arrivo alla meta, ma non sei più sicuro di volerci andare. Pedali a testa bassa per qualche metro, guardando solo cemento e piedi. Nessuno cammina. Perché sono tutti fermi? Il fischio nelle orecchie non ti impedisce di sentire che ora anche il rumore del traffico è attutito, i clacson lontani, il ronzio dei motori al minimo. Ti sembra di pedalare fra i birilli. Arrivi a un incrocio, non puoi permetterti di attraversare alla cieca, alzi gli occhi. Punti lo sguardo lontano, lo skyline della città s’intravede appena, le foglie delle palme lungo il viale dondolano pigre. Il vento si sta abbassando. Quando scatta il verde sei l’unico a ripartire. La città è ferma a osservarti, ma tu eviti i suoi occhi.
Ti getti in un vicolo, ignorando lo smartphone, pedalando più veloce che puoi. Ringrazi la tua conoscenza della città, le sue scorciatoie, i suoi angoli oscuri lontano dalle luci brillanti che attirano i turisti. Punti verso casa tua, verso la tranquillità di quelle quattro pareti, troverai una scusa domani per giustificare l’ennesimo ritardo nei pagamenti al padrone di casa. Sempre che ti ascolti. E se si limitasse a osservarti? Gli occhi fissi, sgranati. La bocca aperta. Anche ora, anonimo, mentre eviti la folla lanciandoti in vicoli stretti pieni solo di spazzatura e giacigli improvvisati, dalle finestre avverti presenze immobili che ti scrutano. La rabbia è sparita, la furia con cui pedali è dettata da altro. Ammetterlo non è peccato, anche se fa male all’orgoglio.

© Francesca Galli

Hai paura.
Nelle narici affannate avverti l’odore di salsedine che proviene dal mare, da quella spiaggia distante solo pochi chilometri in cui non vai mai perché non hai il fisico adatto, l’umore giusto e perché piaceva tanto alla tua ex moglie, l’entusiasta della vita. Come ti guarderebbe lei, ora? Temi di incontrarla, ora che mancano pochi metri a casa, in quel quartiere di bungalow fatiscenti dove si raduna chi non ce l’ha fatta. Sbuchi nella strada di fronte al vialetto d’ingresso, le luci dei lampeggianti ti accolgono assieme a uno strano brusio. Intravedi un gruppo di persone, in attesa, alcune le conosci, altre no. Ti aspettano? Cosa vogliono farti? Forse, dopo tanto osservare, passeranno all’azione. Torni piano nell’ombra, leghi la bicicletta a un palo, scavalchi la recinzione di legno e ti muovi circospetto fra i cespugli, rasente ai muri, attento a ogni minimo rumore. Speri che quel maledetto fischio non ti sia d’ostacolo verso la salvezza. La chiave mentre gira nella toppa ti sembra creare uno stridio infernale.
Apri la porta piano, entri, la richiudi alle tue spalle con tutta la cautela possibile. La casa è al buio, le imposte accostate. Non accendi la luce, forse aspettano solo un segnale per entrare, fartela pagare. Per cosa? Non lo sai, non capisci. Cammini circospetto lungo la parete del monolocale, scrutando ogni angolo, col timore che qualcuno sia già qui ad attenderti. Sei solo. Entri in bagno, fai scorrere un rivolo d’acqua nel lavandino, sciacqui il volto sudato e bevi un po’. Alzi la testa, lo specchio ti rimanda la tua immagine.
Che cosa hanno visto tutti? Che cosa vedono? Sei sempre tu, non c’è niente di strano. Niente di anomalo. Niente da cambiare.
Ti siedi sul divano, sull’unico cuscino ancora integro. Il fischio nelle tue orecchie cala, un poco alla volta. Qualche minuto ed è sparito del tutto. Ti senti più tranquillo, sicuro. Prendi il telecomando e accendi il televisore, col volume al minimo. Non è successo niente. Domani tornerai a lavorare, affronterai le stesse pene. C’è forse un’alternativa? Non hai voglia di pensarci, non ora. Ti alzi, apri la finestra e schiudi le imposte. La folla è radunata di fronte a un altro bungalow, vedi facce costernate, qualcuno piange. Torni sul divano e alzi il volume del televisore.
Non è un tuo problema.


Stefano Ficagna scrive, legge, suon(av)a, ascolta e talvolta recensisce musica indipendente (preferibilmente strana), guarda film, recita e, durante il giorno, fa l’operaio metalmeccanico per mantenersi. Ma preferirebbe mantenersi con tutte le altre cose. Ha frequentato la scuola Belleville di Milano, pubblicato qualche racconto sulla rivista Alibi e su un paio di raccolte a tema dell’associazione La Recherche-Proust En Italie. Ha terminato da poco una raccolta di racconti che chissà se mai uscirà. Scrive e ospita racconti basati su canzoni del panorama musicale indipendente su https://tremilabattute.art.blog/