Si era svegliato con la ragazza addosso, 7.15 diceva la sveglia sbirciata tra le cispie, troppo presto per svegliarsi, già tardi per riaddormentarsi. Era un ottobre pluviale, la stanza ricolma d’acqua. Galleggiava in un mattino liquido ricco di ombre, si era svegliato con la sensazione di scivolare giù. E su. Il lenzuolo mimava un’onda, sentì un gusto di sale in bocca, la ragazza addosso gli era nuda. Sentì i polmoni pieni d’ansia come quando stai per affogare, annaspò per ringraziare la ragazza e si alzò in direzione del bagno. Tornò quasi subito, facciamo la doccia? disse lei incontenta, vado a correre, rispose lui. Con questo tempo? Sì. Era un ottobre di piogge varie, torrenziali che ti spazzavano via la voglia, convinte che proseguivano per ore, o snervanti, leggere come polvere. S’infilò i pantaloncini e una maglia sintetica fluo, fascia sulla fronte a fermare i fluidi, baciò la ragazza a labbra chiuse e serrò la stanza dietro. La ragazza restò a galleggiare nella sua insoddisfazione; lui era già a ritmo sostenuto, nel grigio lucido e inumidito, un basso continuo lo segnavano i passi, il corpo già arreso, la mente aperta. Correre per sospendere la vita, pensava, forse corro per questo, raggirare il tempo, andare più veloce nelle ripetute e poi rallentare, ipnotizzarlo sulle lunghe distanze. Addomesticare il mattino prima che mi prenda, questo tempo è mio, l’ho strappato al giorno, al lavoro, alla ragazza, è un contenitore multiforme, so riempirlo o lasciarlo vuoto, in ogni caso, somiglia a una proprietà.

Mentre srotolava questi pensieri la sua traiettoria sfiorava la ciclabile, passò un ponte pedonale, un parchetto per i cani dove i padroni stazionavano quel giorno con lunghi stivali di gomma multicolore, poi una camionetta militare a guardia del nulla, coi fucili a tracolla e la noia appesa alle cinture. Passò un acciottolato, era deserta la strada, tutti avevano scelto l’auto, la pioggia batteva regolare, come un cuore esterno che ti ricordi di vivere, come una percussione sorda. Si addentrò, il parco si svolgeva verde e frammentato, passò un’area giochi con altalene e animali in legno, poi un paio di campi coltivati a spighe in estate, gli orti comunali per gli anziani, e progressione di alberi ordinati, faggi, tigli, salici, un laghetto artificiale, un altro cavalcavia. Cinque chilometri, qualche anatra vera nel laghetto finto. Arrivò alla parte più vecchia, lì era solo parco, e s’increspava in collinette dolci, artificiali anch’esse, verdi, battute dalla pioggia. Salì fino a quello che chiamavano l’anfiteatro, un’architettura che non era che una gabbia di cemento protesa verso il grigio, i ragazzi ci andavano le sere d’estate per guardare la città dall’alto e sentirsi sollevati, sorgeva su un’ex discarica di scorie delle acciaierie che per decenni avevano macinato vite lì accanto, e dagli anni ‘80 ospitava i glicini, ora un reticolo di rami fatti scuri dall’acqua che scendeva a funi. Girò intorno, fino ad addentrarsi fra i cerri, i roveri e gli aceri. Tutte piante con foglie caduche. Il corpo andava come una macchina abituata, ogni cosa era costante, il respiro, la lunghezza dei passi, i battiti, ogni cosa continuò a funzionare nel momento in cui l’occhio vide la figura.
Un corpo penzolava dal ramo di un albero, un albero con le foglie caduche, un ramo spesso e nero di pioggia, un corpo stava appeso immobile e per poco non ci sbatté contro. La mente glielo disse ma le gambe ci misero un po’ a capire che dovevano fermarsi, e fu a pochi centimetri che accadde. Restò qualche secondo a gocciolare nell’immobilità, aprì e richiuse gli occhi un paio di volte, poi si guardò intorno. Che chilometro era?
Devo chiamare la polizia, si disse. Non ho il telefono con me, si disse. Mentre i battiti deceleravano, lo guardò. Era un corpo di donna, di ex fanciulla. La corda e il suo esercizio avevano cancellato un po’ di rughe, e i difetti fisici. Doveva aver avuto i fianchi leggermente prominenti. Forse era una madre? I capelli erano castani, gli occhi chiusi li immaginò verdi, il vestito era giallo ocra, con una stampa a fiori, i piedi erano nudi e un paio di scarpe da tennis stavano appoggiate lì accanto, vicine allo sgabello pieghevole rovesciato sul prato. Era chiaro che aveva voluto morire scalza. La testa si era chinata verso sinistra, e fili d’acqua costanti scendevano dalle dita delle mani, dai piedi, dalle punte dei capelli. Era solo un ostacolo, quel corpo, la pioggia arrivava comunque al suolo, dopo i rami e le foglie quel corpo era solo un passaggio in più, una superficie attraverso cui. Continuò a guardarlo, si voltò, intorno nessuno. Potrei correre fino alla cascina e avvertire. Ma era presto, troppo presto, fino alle 9.30 non sarebbe arrivato nessuno. Tornare a casa, e chiamare la polizia, forse non poteva fare altro.

© Alessia Marino

La toccò, era già fredda, non del tutto rigida, non ancora. Si voltò a guardare quello che gli occhi di lei avevano visto prima di. Un declivio dolce, un autunno di parco, alberi indecisi tra un colore e l’altro, sullo sfondo la periferia della città, mescolata con i primi comuni dell’hinterland, le serie irregolari delle case, profili di fabbriche che evaporavano, un orizzonte non definito, intriso di polveri, di poveri tentativi. Come ti chiami? Qual è stato il tuo pensiero penultimo? Le si mise accanto, sembravano due amici arrivati sulla collinetta al termine di una lunga passeggiata, fermatisi fra i piloni dei glicini a riprendere fiato e guardare il panorama. Stavano lì affiancati, uno coi piedi saldi a terra e i respiri nel petto, l’altra a mezz’aria col sangue fermo e le labbra blu. Lui le prese la mano, e restò con lei a guardare il reticolo dei sentieri in terra battuta, le fontanelle ai crocicchi, il verde caduco. Gli sembrò di vedere anche per lei, in quel momento, gli sembrò che la sua vista fosse acuita, più profonda, più penetrante, come un superpotere temporaneo. Gli sembrò di sentire i rumori più distinti, le gocce d’acqua che cadevano una a una, il ronzio delle auto oltre la cintura del parco, il frullo dei passeri, pochi nella pioggia. Le prese la mano come un fidanzato arrivato troppo tardi all’appuntamento.

Qual è stato il tuo pensiero penultimo? Con questo tempo? L’acqua è ovunque, resta nella stanza, non può succedere nulla di male, qui dentro. E se corressi più veloce di te? Se scappassi per prima?
Come si erano fermate, le gambe ripartirono, rapide e regolari nel passo annacquato. Tornò a casa rifacendo il percorso all’indietro, si tolse gli abiti fluo sulla soglia, cercò solo un asciugamano da mettere intorno al collo, e prese il telefono. La casa era vuota, la ragazza presente al risveglio non c’era più, per un istante l’immagine delle due donne si sovrappose, si disse che ci sono molti modi di non esserci più. Cercò qualche notizia sulla suicida. Non trovò nulla, ci sarebbe voluta qualche ora per l’arrivo della polizia, la rimozione del corpo e la burocrazia che ne seguiva. Trovò un sito che riportava l’elenco di tutte le persone morte per suicidio sul territorio nazionale. Divise per anni, potevi leggere i nomi di tutti quelli che si erano tolti la vita nel 2018, o nel 2011, o quando volevi. La data, due punti, luogo, età, qualifica. 21/03/2018: Venezia, 43 anni, elettricista. Non era riportato il nome e neppure il pensiero penultimo. Solo dati che non dicevano nulla, non dicevano che di un corpo trovato. iononmiuccido.it, si chiamava così.
Ci era tornato qualche mese dopo, su quel sito, per vedere se l’avessero aggiornato, se ci fosse il suo suicidio, la ragazza dell’albero. Pagina non trovata. L’url reindirizzava a un sito di shop online di scarpe da corsa.


Antiniska Pozzi (1978) è nata e vive a Milano. Dopo la laurea in Lettere ha lavorato come traduttrice d’incunaboli, redattrice e giornalista. Ha pubblicato il monologo teatrale L’insalata di pomodori (Premio Per voce sola 2008, Nero- subianco), il romanzo Dove vanno le iguane quando piove (Cabila, 2009) e la silloge Amavo (una volta) un comunista (Premio Beppe Salvia 2018, Lietocolle). Suoi racconti sono apparsi su diverse riviste, tra cui Cadillac e Monolith Volume. Traduce testi di poeti inediti in Italia (quasi tutti morti), pubblicati su riviste e litblog (Poesia, Crocetti Editore, Nuovi Argomenti, Carteggi letterari, Medium Poesia). Le bozze del suo ultimo romanzo sono in attesa di stampa, causa imprevista pandemia. Il romanzo parla di pugili e di carcere, e racconta una storia vera.