Sentii il rumore dell’auto in lontananza, dieci minuti e sarebbero arrivati.
Mi ero appena fasciata le mani e i piedi, già cosparsi di burro di karité. L’ammoniaca del guano corrode la pelle di chi impasta il cuoio nelle vasche e le lacerazioni erano un’eredità della conceria. L’altra era la puzza che mi portavo addosso, dopo un mese ancora trasudavo fetore di carogna.
Agli altri con me, seduti spalle al muro nel buio mozzicato da una candela, avevo detto che non ci sarebbe stato nessun viaggio: gli uomini delle barche avrebbero trovato un’altra scusa e prima o poi sarebbero spariti con i nostri soldi.
Scesero in due. Graffiando l’aria polverosa al grido di jalla! jalla! ci fecero salire in tutta fretta sul pick-up bianco, cassone scoperto e sponde basse; lo stesso che un giorno sì e uno no portava cibo e acqua nelle stamberghe dove eravamo stati isolati.
Era il quarto tentativo d’imbarco. Come i precedenti sarebbe finito in un’inversione a U e saremmo ritornati nell’entroterra rosso. Ne ero certa. Invece, parcheggiarono vicino la spiaggia.
La sabbia non era pulita. Paglia marina, ossi di seppia e spugne grigiastre la macchiavano a tratti. Evitando vetri e schegge di metallo da cui occhieggiavano bagliori di cielo, ci fermammo davanti al gommone ancorato a pochi metri dalla riva. Un nuovo gruppo arrivava dall’altra direzione.
Al gesto stabilito entrammo in mare, tutti senza bagagli: chi teneva in alto i sandali, chi i figli.
Infilammo i piedi negli arcobaleni di grasso misto a benzina all’interno dello scafo, molti di noi sedettero in quel liquame, altri sui tubolari. Dopo aver visto le mie mani di mummia, un ragazzino mi assicurò il giubbotto salvagente con dita veloci.
«State fermi o finiremo tra i pesci» disse l’uomo. E accese il motore. Tenemmo la testa voltata tra le scapole come piccioni finché non sparì l’ultima striscia d’Africa. Poi il buio ci avvolse e i volti si fusero con la notte, il bianco delle sclere spalancato, quello dei denti chiuso in labbra tremanti.
Procedemmo in silenzio per tanto, tantissimo tempo, con gli abiti zuppi e il freddo addosso. A bordo, acqua dosata. La bottiglia sembrava intrap- polare la luna e nel passare di mano in mano ne riconsegnava il riverbero. Sorrisi alla vista delle luci che puntinavano la costa sul mare ancora nero, mi accarezzai la pancia quando l’alba esplose bianca e violacea, rischiarando i nostri visi e la sagoma di una nave in lontananza battente bandiera italiana. Non appena l’uomo la vide, ci puntò una pistola contro.
In acqua le fasciature si allentarono e le bende presero il largo come serpenti pigri. Il sale scavò la carne avvampando le ferite, ma la paura spense il bruciore nel momento in cui capii che il giubbotto si impregnava e diventava piombo sulle spalle. Non ce la feci a sciogliere le cordicelle, irrigidite intorno a nodi troppo stretti. Affondai.
La veste capovolta mi inguainò e si fece corolla: dal seno in su ero il pistillo, le gambe lo stelo. Scalciavo in vortici di bolle, insieme a quelle sputate dal mio respiro affogato esplodevano su di me in una lontana luce opaca. Slacciai la gonna. Volò nell’acqua.
Improvvisi tremori arrivarono a scuotermi il ventre e pregai che non fosse mio figlio a bussare. Con le forze rimaste cercavo di strappare i cordoncini dall’attaccatura mentre il blu diventava sempre più scuro. Li sentii cedere, sbrandellai il tessuto con rabbia. Una scia arancione sparì in profondità e io riemersi nella spuma bianca trattenendo l’aria in un grido strozzato.
Intorno qualcuno strillava, alcuni sbracciavano, altri annegavano. La costa era lontana. La nave più vicina e aveva calato due barche.
Spinsi indietro la nuca e mi lasciai galleggiare sulle onde piatte e sotto il sole non ancora caldo, l’acqua mi incorniciò il viso e la pancia affiorò da me come un’isola. Wajib è giacere supini al momento della morte e qiblah la direzione verso cui posizionare gli alluci quando stai per andartene; i miei non puntavano a la Mecca, non era la mia ora.
Dovevo solo stare calma. Invece, il tempo di stare calma non lo ebbi.
I tremori ripresero con frequenza, scosse e vibrazioni mi attraversarono con fitte costanti finché il dolore divenne acuto e incessante. Non poteva essere il travaglio, mancava un mese e mezzo. Eppure mi raggrinzivo tra gli spasmi e le contrazioni delle doglie, con le guance gonfie soffiavo a ritmo cadenzato in mezzo agli schizzi che mi tornavano salati sulle labbra. Strinsi a vuoto il mare nelle mani quando il tepore si diffuse tra le cosce: si erano rotte le acque.
Sta per nascere mio figlio, gridai.
Si avvicinarono due naufraghi.
«Respira…» disse la donna.
«Stanno arrivando» disse l’uomo guardando una delle barche.
Mi sostennero e con bracciate fiacche nuotarono verso il salvagente bianco e rosso. Io cercavo di non muovermi, di non spingere, di rallentare i tempi, ma quando l’uomo e la donna afferrarono il salvagente il parto era aperto. Mio figlio usciva a centimetri premendo sulle mie labbra come una carezza di carne, sentivo la sua testa molle e temevo di schiacciarlo tra le gambe, che non riuscivo a tenere ferme né a divaricare. Nascere era la sua unica salvezza.
Incamerai aria, spinsi forte, urlai nell’acqua.
Risalii.
Incamerai aria, spinsi forte, urlai nell’acqua.
Risalii.
E ancora e ancora…
Sgusciò da me come una lumaca nuda: piccolo, morbido, caldo. Appoggiai il suo viso al mio e sorrisi a voce alta, doveva solo aprire gli occhi e gridare alla vita.
Non lo fece neanche quando lo pizzicai sulle guance e nei talloni.
Non lo fece mai.
L’uomo vestito di grigio mi tirò su dalle ascelle e a bordo mi avvolse con una coperta.
Io e il bambino eravamo ancora legati, dondolavo in silenzio mentre diventava freddo tra le mie braccia. Rimasi così fino allo sbarco.
Al porto un medico scostò la coperta, gli fu sufficiente uno sguardo per far cenno all’ambulanza. Venne anche lui. In infermeria disse che doveva tagliare il cordone, lo capii perché fece le forbici con l’indice e il medio. Io feci sì con la testa e fissai il soffitto.
In un istante ci divise, ma non ci separò.
Continuavo a stringere mio figlio mentre il dottore mi puliva dal sangue.
Medicò le escoriazioni dei piedi. Non mi chiese di aprire le mani per disinfettare le ferite, facendo attenzione a non sporcare quel corpicino cosparse di liquido marrone solo quelle visibili. Poi mi coprì con un lenzuolo.
Ricordo quell’uomo prendere una siringa e una fiala da una vetrina di metallo, metterle sul comodino, inclinare la testa e poggiare la guancia sul dorso della mano. Mi stava dicendo che dovevo dormire.
Non ci provò nemmeno a togliermi il bambino.
Sedette su una sedia di metallo.
Aspettò che annuissi.
Quando sentii le braccia molli, fui io ad aprirle perché lo prendesse.
Federica Rigliani vive e lavora a Roma. Il suo romanzo, La mia Bolivia esiste, è uscito con Tracce Edizioni nel 2009. Ha vinto il primo premio dei Concorsi Letterari Nazionali Carlo Vittone (2017) e Laura Bosia (2018). Suoi racconti sono usciti con Giulio Perroni Editore, Roa Rivista online di racconti e approfondimenti letterari, Nazione Indiana, La Nuova Carne e Blam. A breve uscirà su Risme, La rivista che non deve essere spolverata. Attualmente sta ultimando una sua raccolta.