Quando tornò nella stanza la trovò già a letto. Lo stava aspettando nuda sotto le poco sobrie lenzuola rosso fiamma. Rimase fermo nei pressi della porta senza sapere bene cosa dire, col cuore in tumulto e con l’impetuoso rimescolio dei sensi a fare da sottofondo. La osservò a lungo, scrutando il suo viso grazioso, impreziosito da una pioggia di lentiggini rosse e seguendo i suoi morbidi riccioli biondi che le ricadevano fin quasi sul pavimento. Sfoggiò un sorriso incerto e si preoccupò non poco quando, nonostante il turbinio di emozioni, si accorse che laggiù ancora non si era smosso nulla. Forse era successo tutto troppo in fretta. Forse avrebbero dovuto procedere più gradualmente senza accelerazioni così improvvise. Mentre nella sua testa si sovrapponevano domande di questo tenore, da sotto le coperte emerse piano piano il braccio bianco e sinuoso della ragazza. Lo distese verso la parete dietro al letto e con le dita andò a premere il tasto di un interruttore. Un ronzio, come di un motore elettrico in funzione, scosse la stanza. La ragazza aveva azionato un meccanismo che dal mobile ai piedi del letto stava lentamente facendo emergere una TV a schermo piatto. L’immenso televisore si palesò gradualmente in mezzo alla stanza come lo struggente sorgere di un sole nero. Così gli spiegò che avrebbe potuto tranquillamente lavarsi nella vasca con le zampe, sfruttando il mastodontico elettrodomestico come un paravento improvvisato, senza che nessuno entrasse nel campo visivo dell’altro. La strana situazione fece ridere entrambi, cosa che contribuì non poco a diluire il carico emotivo che si era venuto a creare. Per metterlo ancora di più a suo agio, lei accese la tv su un canale a casaccio e alzò il volume. A quel punto lui sparì all’ombra dell’enorme televisore e fu libero di spogliarsi e di lavarsi ma a soli tre metri scarsi di distanza dalla sua compagna di viaggio. Mentre si stava insaponando i corti capelli neri si chiese se esistesse in quella camera un altro bottone che, se azionato, fosse in grado di regalargli una confortevole e duratura erezione.

Stava parlando da un po’. Non sapeva determinare da quanto fosse in ascolto, a giudicare da quanto si fosse raffreddata la tisana poteva essere passata una settimana intera e, nel suo palato, zenzero e limone erano ormai sapori lontani e indefiniti. La bottiglietta d’acqua, invece, era lì accanto ancora intonsa. Lo ascoltava parlare, blaterare, eppure si sentiva sola, come se la distanza fra lei e le aspettative che si era creata fosse ormai incolmabile. Non era pronta ad ascoltare quei discorsi: nel corso della sua vita aveva imparato a comprendere quanto la verità potesse fare male, come quando da bambina scoprì che gli arcobaleni non si possono percorrere a piedi, in un senso o nell’altro, ma solo guardare svanire, sfuggenti e scivolosi come le bugie che abitano questo mondo.
«Se sto così male è perché non era te che dovevo lasciare per stare bene, anzi, ero io che mi dovevo lasciare, dovevo lasciare andare la merda che mi è piovuta addosso, i soldi che non ci sono, l’accontentarsi al lavoro; ero io che dovevo lasciare andare i miei morti, lasciarli finalmente riposare, in pace loro, e in pace io; ero io che dovevo lasciare andare me, in tutti i sensi, quelli dolorosi e quelli bellissimi.»
Lei lo ascoltava. Ma non lo stava a sentire davvero. Mentre la litania continuava, la ragazza appoggiò i gomiti al tavolo e si prese la testa fra le mani, sorreggendone il peso con i palmi congiunti e aperti. Con gli occhi andò agli occhi di lui, che stava ancora parlando, ma vi indugiò ancora un attimo prima di avvertire una gran rabbia che le montava dentro. Poi andò oltre, oltre quelle saccenti e noiose colline sulle quali aveva speso gli ultimi anni. E allora si rese conto di quanto tempo avesse buttato a inseguire sogni non suoi, a cercare di accontentare gli altri come i cani, a scodinzolare alla persona sbagliata, a lasciarsi sempre in un angolo, lei che in realtà avrebbe voluto stare sulla cima della montagna, proprio lì su quella vetta dove l’ossigeno è rarefatto, la vista è splendida e la testa è sgombra di pensieri. Invece, per colpa sua, era rimasta giù a valle, seduta su quelle dannate colline, alienanti e sempre uguali. Nonostante ciò c’era qualcosa che non le permetteva di processare il distacco dalla sua vecchia vita. In quel locale avrebbe avuto la sua chance di redimersi, di cambiare, cavalcando l’unico modo per staccarsi da lui, come una navicella spaziale che per salvare il proprio nucleo deve sganciarsi dal resto del corpo, un corpo che tanto brucerà velocemente e che scomparirà per sempre dimenticato nell’oblio e nel silenzio. O forse no. Forse quel legame non poteva essere reciso. Se non brutalmente. E il veleno, a breve, avrebbe lavorato in tal senso.

In qualche modo l’erezione arrivò. Dopo che si fu asciugato frettolosamente, la raggiunse nel letto e saltando i preliminari fecero l’amore per la prima volta. Date le premesse e la situazione che si era creata in quella prima notte assieme, il sesso non fu memorabile, piuttosto lo sfogo di due corpi che finalmente si lasciavano andare, allentando la tensione rotolandosi fra le lenzuola rosse di quel bizzarro hotel sulla rive gauche. Nonostante il ragazzo si fosse dato un gran daffare, ebbe come la sensazione che l’amore se ne stesse in disparte in quella grande stanza, volteggiando ma tenendosi comunque a debita distanza dalle loro evoluzioni. Se non altro, questo appena percettibile disagio conferì longevità alla sua performance e non intaccò la tanto agognata erezione. Dopo l’orgasmo rimasero così avvinghiati per lunghi istanti. Quando il ragazzo riaprì gli occhi la vide atteggiare le labbra a un mezzo sorriso mentre infilava la guancia nell’incavo della sua clavicola che, nel corso di quella movimentata notte, pareva essersi modellata attorno ai suoi lineamenti. Poi tutto finì, il ragazzo rotolò lontano dal calore delle lenzuola e raggiunse quella parte del letto che ancora era temperata e fresca. In quel momento alzò lo sguardo verso gli specchi sopra al soffitto di cui era tappezzata la stanza. Vide la vasca con le zampe di leone, ma il suo sguardo era in cerca d’altro, un ingrediente che gli sembrava fosse mancato a quel piatto prelibato che avevano condiviso assieme. Lo vide, l’amore riflesso in quello specchio, gli sembrava di riconoscerlo, come una bella nostalgia che non si concretizza mai davvero. Se ne stava sopra le loro anime e quando il piacere carnale abbandonò del tutto il suo corpo scemando dai polpastrelli, pensò che quella mancanza in realtà avesse lasciato come un’ombra di rimpianto nella sua testa.

© Francesca Galli

Erano rimasti un’altra volta in silenzio. L’uomo aveva smesso di parlare. L’espressione sul suo volto tradiva un certo malessere, gocce di sudore ne imperlavano la fronte. Quasi contemporaneamente il battito cardiaco della donna accelerò di colpo. “Ci siamo”, pensò. Poi, da qualche parte nella stanza le sembrò che venisse della musica familiare, note conosciute che andarono a riempire tutti i vuoti di sceneggiatura di quel locale. La riconobbe facilmente, un brano degli LCD Soundsystem, Oh Baby, una canzone che aveva ascoltato per la prima volta proprio tre anni prima. E allora le tornò alla mente tutto quanto, il concerto, Parigi, quell’assurdo hotel da papponi, la vasca con le zampe, la loro prima notte assieme…
«La senti anche tu?»
Ma l’uomo non sentiva niente. Come avrebbe potuto? Il proprietario del locale si era venduto lo stereo solo qualche giorno prima per pagarsi qualche debito. La guardò stranito, con la testa piegata leggermente di lato ad accentuare il suo stupore e la sensazione che qualcosa dentro di lui gli stesse sfuggendo dalle dita, ancora una volta. La donna colse in quello sguardo il proprio malessere, che era un po’ anche il suo, e si stupì che il veleno somministrato facesse già effetto, poi tornò a concentrarsi su quella musica.

Oh baby
Oh baby
You’re having a bad dream
Here in my arms
//////////
Oh piccola
Oh piccola
Stai facendo un brutto sogno
Qui tra le mie braccia

«Davvero non la senti?», fece di nuovo rivolta all’uomo.
«Ma di che parli? No, non sento niente».
Allora lei si sollevò un poco dalla sedia e, allungando le braccia, strinse con forza i polsi di lui.
«Mi dispiace», disse.
«Che significa?»

Oh sugar
You came to me
Could all be a bad thing
And do you harm
//////////
Oh, zuccherino
Sei venuta da me
Potrebbe essere una brutta cosa
Farti del male
Oh oh oh

Quando provò a ritornare seduta, ebbe un sussulto e perse l’equilibrio rovesciando lo sgabello e finendo rovinosamente per terra. Le vibrazioni della caduta fecero cascare in terra anche il ritratto di Victor Hugo, col vetro della cornice che andò in mille pezzi. L’uomo, spaventato, provò immediatamente a soccorrerla ma, non appena le fu vicino, la vide tremare come in preda a convulsioni mentre dalla bocca le usciva un filo di bava al retrogusto di zenzero.

Oh I’m on my knees, yeah
I’m on my knees
I promise I’m clean
And my love life waits
/////////
Oh, sono in ginocchio
Sì, sono in ginocchio
Prometto di essere sincero
Ma la mia vita amorosa aspetta

Ormai respirava a malapena, col viso gonfio e gli occhi iniettati di sangue. Allora l’uomo urlò al ragazzo del locale di chiamare subito un’ambulanza. Il giovane, terrorizzato, prese il cellulare e telefonò al 118, mentre lui, nel tentativo di farla respirare meglio, le teneva la testa sollevata.

And you’re already gone
Yeah, you’re already gone
We are already home
And my love life stumbles on
///////////
Te ne sei già andata
Sì, te ne sei già andata
Siamo già a casa
La mia vita amorosa ci inciampa su

Ma ormai era tardi. Con la testa appoggiata sulle ginocchia dell’uomo e gli occhi socchiusi riuscì a dirigere lo sguardo annebbiato dal veleno verso l’unico specchio posto alla parete del locale. Da quell’angolazione osservò il bel volto di lui, inconsolabile e impotente davanti a quello che stava accadendo. Nonostante la tragedia dell’aborto spontaneo e di tutto il dolore provato nell’averglielo nascosto, la donna sentì indistintamente di appartenergli. Poi, mentre la vita le roteava davanti come una porta girevole, le tornò alla mente una frase di Victor Hugo, contenuta in un libro che avevano comprato assieme, L’uomo che ride, che lui aveva sottolineato a matita e sulla quale lei spesso si era soffermata: Nel destino di ogni uomo può esserci una fine del mondo fatta solo per lui. Si chiama disperazione. L’anima è piena di stelle cadenti. L’ultima cosa che fece fu quella di esprimere un desiderio, ma il buio l’anticipò e, un attimo dopo, calò il silenzio.

Oh baby
Lean into me
There’s always a side door
Into the dark
Into the dark, shh
/////////
Oh piccola
Appoggiati a me
C’è sempre una porta laterale
Nel buio

Nel buio,
Shh


Luca Murano è nato al nord (Lodi) da genitori del sud (Salerno) e attualmente vive al centro (Firenze). Il poliedrico Luca è uno scrittore biodegradabile, se disperso nell’ambiente, si decompone facilmente in composti meno inquinanti come caffè amaro e carboidrati. I suoi lavori sono apparsi su varie riviste letterarie, fra cui, Streetbook Magazine, Spazinclusi, Rivista Inchiostro, Voce del Verbo, Rivista Blam, Malgrado le mosche e Risme. Nel luglio 2018 è uscito il suo primo libro, Pasta fatta in casa – sfoglie di racconti tirate a mano, pubblicato con Bookabook.