Mia madre lancia un’occhiata distratta alla sfera di cristallo, abbandonata sopra un tavolino nell’angolo, tipo regalo di nozze di cui ti vergogni ma che per qualche ragione non puoi confinare in cantina. Se ne infischia dell’oggetto e della tradizione, non le servono: è probabile che voglia solo controllare che io abbia pulito da brava ogni centimetro della superficie trasparente. Poi stringe gli occhi sul cliente: diventano monete da un centesimo, persino il colore, giuro che è impressionante. Lui sta lì in giacca e cravatta: l’ha scambiato per un colloquio di lavoro? Prima ha provato a piazzarsi davanti alla sfera di cristallo, però mamma gli ha sussurrato, con voce da nazista che si prepara a tirare il colpo di grazia, di spostare la sedia di fronte alla tavola centrale, dove è apparecchiato.
Forchette, coltelli, cucchiaio e cucchiaino. Al centro, piatto piano e scodella. Nella scodella, una scultura verde intenso di lasagne vegetariane sorride al cliente. Tra gli strati di pasta tirata a mano non più di un’ora fa in cucina, mamma ha disteso letti di asparagi, carciofi e zucchine; e nel mentre cantava, volando da un fornello all’altro e poi al forno, con brevi soste di tanto in tanto, il tempo di gettare un’occhiata pensosa alla foto del soggetto da eviscerare, dal momento che di questo si tratta. Ecco, ogni volta che fa così – tutti i giorni, in pratica, si salva solo il weekend – sento i brividi che mi scorrono tra i tatuaggi. Perché funziona, anche se io riempio me stessa e i pochi amici che non perdo per strada di storielle ridicole sull’insostenibile pesantezza dell’arte della predizione basata sul consumo di calorie. Funziona: in quel centrifugato di Pizia, Sfinge e Iside che dall’esterno si potrebbe scambiare per una casalinga grassoccia che, incrociandola per strada, nemmeno degneresti di un’occhiata. Mamma.
Mia madre ha inventato la chiromanzia culinaria. Allora non dovrebbe leggere la mano? «Leggo mani e bocca che si cibano», risponde, «poi non spacchiamo il capello in quattro». E sbarra il discorso. Il sistema è semplice: in base alla fotografia della persona che vuole conoscere il proprio futuro – a volte viene chiesto pure un oggetto personale –, lei prepara un pasto. Un pasto vero: primo, secondo, dolce. E con quelli ci indovina l’intera vita del malcapitato di turno, che può essere pure donna, ovvio. Però niente caffè, per carità, la lettura dei fondi di caffè è obsoleta. Ogni volta che lo ripete, le labbra le diventano ricce e il naso si abbassa, in un’esternazione di disgusto, neanche avesse scovato sotto il letto un vecchio vaso da notte.
Dicono tutti che sia dannatamente brava anche come cuoca; lei ci ride su e sottolinea che se si stancasse delle predizioni avrebbe a disposizione una seconda carriera.
«Sarebbe la terza», rimbecco in genere io, «visto che una volta alla settimana fai la star in televisione.»
«Quella è merda», la sua solita risposta, «fingo di spignattare un po’ e di tirarne fuori l’oroscopo della settimana. Come se funzionasse così…»
«Beh, ti pagano un mucchio.»
«Sennò me ne guarderei bene dal fare la stupida in quel modo.»
Invece sono convinta che si diverta come una pazza. E le piace che tutti la adorino a colpi di share. Ma il suo lavoro vero – quello che la rende felice e mai un incubo la notte – è frugare nella vita delle persone tutti i giorni, dal lunedì al venerdì, rimpinzandole e vedendo l’effetto che fa.

Tiro giù le maniche della mia maglia nera sino a coprire le dita, lasciando fuori le unghie smaltate di nero pure loro, sulle quali prima di dormire dipingo i teschi. Lei disapprova tatuaggi, unghie e amici, con un sopracciglio che sale e spande freddo all’intorno. Adoro che mi disapprovi, che si accorga di quanto siamo diverse. Disapprova, mamma, dai, per me è come un tuffo in piscina quando fuori ci sono quaranta gradi. Nel frattempo, mi tocca comunque svolgere la parte dell’assistente silenziosa – quando non sono a scuola – e sospetto che a furia di imbandire manicaretti mia madre speri di risvegliare il mio appetito defunto. Invece vomito in bagno dopo ogni seduta. Non ci penso proprio a toccare cibo, bevo qualche tisana. Non deve illudersi che la lasci sbirciare nella mia esistenza.
Il cliente di oggi afferra spaesato le posate e taglia le lasagne in piccolissimi cubi, ne inghiotte uno, le lasagne ferite secernono sangue pallido di verdure sventrate in un sudario di besciamella.
Il primo corrisponde al passato.
Mentre lui mangia, mamma lo osserva. Questo è il metodo: lei sceglie le pietanze giuste per il tizio e poi controlla come lui se le pappa, pare che abbia uno scanner al posto degli occhi. Così percepisce gli spezzoni di quella vita sconosciuta. Lei non parla di come succede, io non chiedo. Siamo alla tappa del passato, perciò la voce di mia madre – nella tonalità assertiva di quando vede, che mi dà sempre la pelle d’oca, potere puro – comincia a snocciolare frammenti di umiliazioni scolastiche e di scopate adolescenziali, l’esultanza dei primi guadagni, un addio, un viaggio finito in dissenteria. È implacabile come qualsiasi chirurgo che si rispetti: l’uomo boccheggia sbalordito, allenta la cravatta, gli esce qualche lacrima di ricordi. Fornire i kleenex è uno dei miei compiti.
A un cenno invisibile di mamma ritiro la scodella, sforzandomi di non guardare il lembo di pasta che copre pietoso rimasugli molli non so se di zucchina o di asparago. Al mio ritorno esce lei, va a dare gli ultimi ritocchi alla portata successiva. Neppure un’idea di odore penetra nella sala delle consultazioni. Mia madre rientra e si lascia cadere sulla poltrona, quindi è di nuovo il mio turno nel balletto e servo il secondo, riuscendo a scivolare avanti e indietro per la stanza in modalità silenziosa, nonostante gli anfibi. Scenografia sparsa a piene mani. Il cliente scruta il filetto di dentice, con maionese di zucca e julienne di arance amare, come se fosse lui l’aruspice. Rilassati, bello, guardalo come un foglio bianco attraversato da diagonali arancioni di varie tonalità: non ti morderà, non è ancora il momento. Lui solleva le pupille verso mia madre, comprendendo da che parte arriveranno i veri morsi. Attende che lei riannodi il filo delle rivelazioni, come un vitellino al macello.
Il secondo corrisponde al presente.
Mamma si vanta della sua abilità col viscido pesce osceno. «Nuotiamo vicini nel sopramondo» è la sua frase preferita sul punto. Io detesto il pesce, con quella consistenza che già nasce marcia, per non parlare dell’odore. A giudicare dagli occhi bovini, il presente dell’uomo con la cravatta deve essere farcito di idee che decadono non in secoli ma in pochi secondi; di intenzioni appuntite come giavellotti che vorrebbero conficcarsi a fondo nel terreno e invece rimbalzano. Per riequilibrare, lui conficca la forchetta nel dentice, mastica lento, spalma la salsa sui bocconi. Mia madre non lo perde di vista un attimo, avida di captare i particolari dell’interazione con la pietanza. A me sembra che tutti i clienti mangino nella stessa maniera. Al massimo qualcuno mastica a bocca aperta ma non penso che sia determinante. Il pesce scompare, e mamma alla fine parla con la voce speciale di chi sa e non c’è niente da aggiungere. Del tipo, appunto, di quella che se ne stava a Delfi tra il fumo, e doveva essere roba buona. L’uomo si sente raccontare i progetti che ha messo insieme stamattina sbarbandosi, o ieri sera guardando con una birra gelata la partita di calcio in differita. Forse queste frasi non gli servono a molto, sono un Bacio Perugina di cui aveva già letto il biglietto. Ma almeno capisce che mia madre sa, sa tutto e che quando arriverà al futuro ci sarà da tremare.
Si illumina il mio cellulare, che tengo nascosto e silenziato. Durante le sedute è un oggetto proibito e allora prendo le precauzioni del caso. La chiamata di Caty si spegne dopo una brevissima insistenza, lei è un’impaziente. Subito arriva il messaggio.
dv 6?
casa. lavoro mm,
rispondo attenta a digitare immobile, le mani sotto il mio tavolino da assistente.
uffff ! ci 6 dp? Qnd?
nn so. ttel+trd
🙁

Lo scambio si chiude appena in tempo. Porto via piatto e posate sporche sotto il naso del cliente, ormai soggiogato. In cucina c’è una bella confusione e tra poco mi toccherà pulire, attività insopportabile salvo i momenti in cui faccio sparire i resti di cibo nel buco nero dell’immondizia. Mamma, quando ha finito, riposa la testa spossata dalla fatica del rovistare tra i fatti altrui, perciò riesco sempre a farle credere che ho mangiato un pezzo di formaggio o che ho arpionato dal frigo una delle sue melanzane sott’olio. Invece digiuno. Accidenti, mi sono distratta e invece di là stanno aspettando il dolce. E la tensione è al culmine perché è il momento più atteso, il senso di tutto.
Il dolce corrisponde al futuro.

Rientro in sala con la bavarese di patate e more, ricoperta di gelato al peperone dolce. L’aria intorno al cliente è elettrica. Lui afferra il cucchiaino, poi torna a posarlo in preda alla paura. Una punta me ne trasmette, tipo un virus che si passa con lo sguardo. Mia madre non dice niente, ha la faccia grigia del destino che cerca in giro dove ha lasciato il suo rocchetto di filo della vita. Eddai, mangia quel cazzo di dolce e beccati le notizie su quello che ti aspetta e per cui hai pagato un botto di soldi. Poi saluti e baci e ognuno è libero di tornare alle proprie cose.
Lui palpa con la posata il fianco giallo della piramide zuccherosa che gli risponde tremolando nella sua mollezza di colla di pesce: affonda il cucchiaio, inghiotte. Con mamma si squadrano come avversari, ma lei vince facile quando gli dà il permesso di farle le tre domande per cui ha pagato. È un copione che conosco: carriera, soldi, donne. La novità sono le risposte di mia madre. No, no, no. Niente andrà bene. Lo dice con quella voce odiosa che sa di verità definitiva, che passa dal sopramondo a questo mondo di cacca. Passa e chiude. Il cliente balza in piedi, mutando da un pallore incredibile a una faccia paonazza. La bavarese avanzata si rovescia flaccida fuori dal piatto e là termina la sua fuga. L’uomo alza le braccia stringendo i pugni e gli leggo sulle labbra l’inizio di un insulto pesante contro mamma, che però viene ucciso dalla frase di lei, pronunciata nella solita modalità inappellabile: «È ora che se ne vada.»
E lui esce, benché sprizzi furia da tutti i pori. Fortuna che i clienti pagano in anticipo. Controllo che sia davvero andato via, poi torno in sala. Mia madre contempla i resti del dolce con aria di disapprovazione.
«Dovevi proprio trattarlo tanto male? Non riuscirà in questo, non riuscirà in quello, la donna che lui vuole da mesi lo odia. Della serie che persino lo sciacquone si deve guastare.»
«Era la verità.»
«Con quello che ha sborsato potevi indorare la pillola.»
Mamma toglie i grumi di bavarese dalla tovaglia.
«Non otterrà nulla perché morirà tra un paio di mesi in un incidente. È difficile indorare questo tipo di pillola.»
Resto come un’imbecille. Non saprei nemmeno ricordare bene la faccia di quel tipo, l’ho guardato appena. Solo quegli occhi da manzo. Purtroppo le credo, non sbaglia mai: ho controllato tante volte, quando ancora speravo che imbrogliasse.
«Perché non gliel’hai detto?»
«Almeno si godrà questo periodo. L’ho visto» dice nella sfumatura da portavoce degli dei.
Adesso so che me ne andrò di casa, non ce la faccio più. Nemmeno posso sperare che mi abbia adottata perché le nostre facce sono quasi identiche, anni e ciccia a parte. Lei e le sue predizioni onnipresenti che s’infilano sempre al centro del bersaglio. Non riesco a vivere in questa serra di piante velenose e a chiamare mamma la strega di Biancaneve, mentre mi allunga una mela. Per qualche giorno posso stare da Caty, poi troverò qualcosa.
«Ho fame, tesoro. Ci facciamo un piatto di pasta?» Non è una domanda, è Darth Vader che parla. Ma già lo so. Per questo da un sacco non mi riesce di mangiare: ogni boccone me la sentirei dentro che raspa nella mia vita, che rovescia ogni cassetto. Non voglio nessun futuro.
«Vado a cena da Caty. Studiamo insieme.»
Brontola qualcosa e si dirige in cucina. Corro in camera, butto un po’ di roba nello zaino e sono fuori lasciando che Whatsapp mi preceda. Caty apre la porta di casa mangiando un gelato.
«Tanto so che tu non lo vuoi», non è che si giustifichi: constata.
Strisce di cioccolata le colano sulle dita. Succede così. Di colpo. La vedo. Domani. Mentre piange nei gabinetti della nostra scuola stringendo il compito di matematica su cui risalta un 3, a penna rossa.


Elisa Franco è stata una bravissima penalista e ha studiato reati che voi umani non potete immaginare. Poi si è stufata e ha deciso che fotografare era più leggero, ma forse il passato non smette di influire perché evita di inquadrare persone: vuole solo cose. Negli ultimi anni scrive: ha un paio di romanzi nel cassetto e una miriade di racconti. Uno di questi, Chierichette, è stato pubblicato sul numero due della rivista efemera.