Mi piacerebbe capire che pensa ma senza chiederglielo.
Anche se non la guardo, so che è seduta di fronte a me, e a ginocchi uniti l’arco delle sue gambe mima, senza saperlo, lo scheletro gotico della navata di una vecchia chiesa umbra di cui non ricordo il nome. La chiesa è in un paese che Elisa non sa esistere, ed io non le dirò che vi è qualcosa di simile a lei altrove. E in una cosa.
La grande città è lenta, moribonda. Deserta per ore e ore. Simili a prima restano solo le sue luci irrealmente vivaci e così preziose al buio. Abbiamo tutti il sotteso terrore che si spengano di colpo e che il passato ci abbandonerà così, in una notte. Non succederà, come so che Elisa non mi guarderà adesso. Sento che entrambe le cose mi fanno paura allo stesso modo ed è strano, forse.
Elisa sembra una bambola meccanica scarica, buttata su quel sedile arancione in modo scomposto ma con una certa distratta bellezza. È attraente, ma purtroppo ha una brutta voce.
Quando parla inglese ha toni quasi infantili. La sento come scordata mentre cerca di non usare le parole della sua vera lingua, spiegazzando malamente quella che deve continuare a parlare. Fa male sentirla, io ho un buon orecchio. E poi sono straniero anch’io. Penso che la mia voce non si sia mai deformata nell’eco della mia lingua madre ma, diversamente da me, Elisa non ha trovato il giusto accordo con questo posto. Forse non lo sa ancora o lo sa bene, ma credo che ora stia a testa bassa pensando ad altro, probabilmente a quello che l’ha fatta piangere al telefono.
Il mondo ci passa velocemente accanto, fuori dalla Metro. Stazione dopo stazione fisso la direzione nella mappa e cerco il luogo dove mi fermerò. Aspetto il mio turno di scendere.
Elisa fa un sospiro o un mezzo colpo di tosse, non capisco. Guardo il suo vestito morbido e cangiante. È un kimono largo, di seta o qualcosa del genere più a buon mercato. È mezzo rosso e mezzo blu. La fantasia non riesco a distinguerla bene alla luce artificiale della carrozza ma non è importante. Io non sono annoiato e non devo distrarmi trovando labirinti nel disegno che indossa. Il kimono è diviso a metà. Il suo è un vestito caldo e freddo insieme. Penso alla fiamma del mio accendino e poi penso che il fuoco distrugge tutto e sarebbe pericoloso per quel vestito. Troppo leggero, troppo corto. Molto infiammabile.
Le sue lunghe gambe bianche sono nude, le scarpe basse sono ancora bagnate di pioggia. Non ha borsa e non ha cappotto. Povera Elisa.
Scende, è la sua fermata. Ed è anche la mia. La vedo portare le mani alle braccia in un riflesso istintivo di protezione verso il freddo che la investe uscendo dal tepore immobile della carrozza. Stringe ancora il telefono nella destra. Sottoterra è inutile.
La metropolitana di piastrelle gialle è deserta, non lo sarebbe mai a quest’ora se fossimo in un momento normale. Ma il mondo non è normale da cinque anni che sembrano cinquanta, visto come tutto attorno sta marcendo per mancanza della necessaria cura per mantenere le cose funzionanti. Purtroppo è un dato di fatto che tutto si sbricioli più velocemente di quanto pensassimo, prima che iniziasse a farlo. L’odore di disinfettante che aveva questo luogo è perduto, ora si sente solo quello dell’umido. C’è sporcizia a terra, fanghiglia secca. Topi sulle rotaie, come sempre. Vicino alle panchine i segni di piccoli crolli polverosi, intonaco e mattonelle spezzate. Non è ancora un disastro, ma tra un po’ tutto sarà oltre un punto di non ritorno e le cose diventeranno relitti. Ci si chiede, giorno dopo giorno, se mai serviranno a qualcuno e se resterà qualcuno in grado di far funzionare quello che resta. Nessuno ne parla, c’è solo il presente. Questi sono tempi senza altri tempi.
Ricordo ancora com’era prima e che tutto è così chiaro nella mia mente da sembrare qualcosa che vedo adesso. Ma oltre un certo limite vago, sempre più vago purtroppo, la mia memoria si deforma e tutto si confonde in altro. Neanche saprei esprimere che cosa diventi il pensiero, certe volte. È crudele, per una persona intelligente.
Mi hanno detto che la malattia ha colpito il mio cervello in modo strano, singolare, ma che è diversa per tutti e non è possibile prevedere cosa faccia volta per volta, né cosa io debba aspettarmi dal futuro. Ho perso delle cose che ho dimenticato senza dolore, ma rimpiango qualcosa che mi manca come ora mi manca il rumore che c’era a quest’ora nella stazione sotterranea. Ora avrebbe coperto il senso delle mie intenzioni, almeno fino a una strada sotto il cielo. Sono invece del tutto scoperto, sottoterra. L’uscita della metro è dopo le scale che abbiamo già fatto, ma restano ancora un paio di corridoi. Elisa cammina più velocemente, è nervosa. Ci siamo solo io e lei. Non ho fretta, procedo un passo dopo l’altro. Ma sono con lei e vicinissimo. Troppo vicino.
Sento che sa già che succederà e lo sa meglio di quanto non lo sappia io stesso. Ecco, si volta verso di me e la sua espressione è tesa, spaventata. Urlerà con quella strana voce da bambina stonata e io non potrò dirle una sola parola. Lei non lo sa, ma ho perso anche la mia voce con la memoria e non parlerò mai più.
Sono un silenzio che cammina verso di lei. L’improvvisa fine della strada.
Vedo adesso che i suoi capelli sono più chiari dell’altra. Lei è più alta dell’ultima e forse la più sottile di tutte. Elisa.
L’ho uccisa con altre facce e lo farò ancora, fin quando non mi puniranno per averlo fatto la prima volta.
Ho bisogno di credere di poterla ricordare, che ripetere l’azione abbia il potere di riscrivere il nero nel mio cervello. L’unica cosa che so con certezza è che Elisa è morta ed è colpa mia. Non so altro. Non doveva succedere ma è accaduto. E di questi tempi impossibili forse anche le luci della grande città potrebbero davvero spegnersi tutte di colpo, per sempre.
Ho più paura di prima a questo pensiero, mentre lei è terrorizzata da me. Elisa ha iniziato a correre e corre veloce perché è leggera ma io sono più veloce di lei, la sto già raggiungendo. La prenderò, lo sa, lo so…
La prendo, eccola! E lei… grida nel vuoto attorno e la sua voce vibra ancora più alta: è una lama acutissima. Potrebbe fessurare una fila di bicchieri di cristallo forse, ma le mie ossa purtroppo restano intatte. Da vicino capisco che è una ragazzina, non la donna che sembrava prima. Piccola, fragile, freddissima Elisa. Tra le mie mani scricchiola come una foglia secca.
Pioviggina ed è una cosa normale. Mi piace perché succedeva anche prima e proprio allo stesso modo. L’autunno di questi strani anni è sempre autunno, così come le altre stagioni. Guardo le nuvole color acciaio stracciarsi su un cielo precocemente buio e nonostante tutto sembrano così leggere e lontane, come per me non sono mai quelle bianche in un cielo azzurro.
Per strada non c’è nessuno, sono solo. Molti quartieri sono deserti, non c’è più gente che ci viva. Ma per ora ci sono ancora le luci per le strade e le strade stesse. E c’è anche questa pioggia che è così sottile e gentile mentre ti cade addosso. Non so se ciò che vedo è qualcosa che può davvero bastare, ma per ora tutto questo mi sembra bellissimo perché è reale e sempre più spesso anche le cose più comuni mi sembrano improvvisamente diverse, deformate. Improvvisamente spaventose perché è come mutassero in altro. So che è la voragine che si allarga sempre di più. Lo sento e fa male. Come mi fanno male le mani, per quanto ho stretto forte la ragazza.
In questo momento ho molto freddo e forse è il suo, che alla fine ha lasciato la sua pelle ed è stato assorbito dalla mia, passando dal suo corpo al mio come fa questa malattia che ti uccide o rovina. È stato veloce, almeno. Ma purtroppo inutile, perché neanche stavolta ho ricordato Elisa.
I medici mi hanno detto che quando sono stato trovato avevo una giovane donna vicino, già morta. Non mi hanno detto nient’altro di lei, mi hanno solo chiesto se ricordassi cosa fosse successo e chi fosse: ma nulla. Provo un dolore lancinante da quando mi sono svegliato all’ospedale, ormai tre mesi fa, e anche se non so nulla di lei, ho questo nome conficcato in testa. Persa la mia voce, neanche posso sapere come suonava quando la chiamavo. È sparita del tutto ma non abbastanza. E so che se è morta è colpa mia.
Tra le mie cose non ho niente di Elisa, neanche una sua foto, e chi mi conosce non ha conosciuto lei. È strano. Mi chiedo come sia possibile dimenticare così qualcuno, se non sei stato malato quasi da morirne e la tua mente non è stata svuotata come un uovo rotto. Ma sembra che i tempi facciano dimenticare più facilmente ogni cosa, anche le persone. Come la data del giorno.
Io non so più chi sia Elisa, ma so con certezza fisica che lei ha a che fare con la mia sofferenza, con la rabbia che ha preso questa forma cercando la sua. Se lei è il mio dolore, sento di non poter fare diversamente e provo a riportarla da me con la stessa violenza che ha ogni mattino della mia vita.
Ma sembra che lei sia sprofondata nel precipizio che è diventato il mio cervello. Mi sento stanco, ma so già che la rassegnazione che ora provo è solo passeggera. Tutto sarà calmo e buio fin quando non mi sembreràdi ritrovarla, di poterla quasi ricordare. Allora succederà di nuovo, come oggi.
Elisa…
Mi chiedo di che colore fossero i tuoi occhi e me lo chiedo ogni giorno davanti ai miei. Ma chiunque fossi, fino alla prossima volta, tu mi mancherai per sempre.
Mattia Alari solo di recente ha pensato di proporre le sue storie, anche se in precedenza aveva già adattato e scritto dei testi per il teatro. Si occupa di critica, ha pubblicato un racconto su ROA Rivista Online d’Avanguardia e un altro su Malgrado le mosche. Al momento è concentrato sullo studio della lingua inglese e della sceneggiatura.