Era un luminoso mattino d’estate. Le cicale intonavano il loro stridulo canto d’amore, gli uccelli cinguettavano allegri, svolazzando di ramo in ramo, e un vento caldo, profumato di mare, giocava con le chiome del grande pino fuori dalla mia finestra.
Un timido raggio di sole si invitò dentro casa. Nel suo cono di luce danzava la vita camuffata da polvere. Senza chiedere permesso, si posò sul tavolo apparecchiato per la colazione, accarezzò le tre carte che avevo appena estratto dal mazzo, sfiorò le mie dita contratte attorno alla tazza. Chiusi gli occhi e sospirai. Non c’erano dubbi: su quel luminoso mattino d’estate incombeva la tempesta. A voler essere precisi, era su di me che incombeva la tempesta; il mattino andava bene così com’era.
Io, però, sentivo i tuoni brontolare in lontananza, vedevo le nubi addensarsi minacciose portando la notte che, a breve, avrebbe inghiottito il luminoso mattino in un solo boccone. Gnam!
Tutta colpa loro. Di quelle tre carte capricciose. E del mio superpotere fregatura.
Il Diavolo, la Morte e la Luna sembravano non essere consapevoli della tragedia che avevano appena predetto e si lasciavano scaldare dal raggio di sole, voluttuose come ragazze in bikini su una sdraio.
Diavolo strabico e impertinente, grande è la tua forza, non controllo più la mente. Con la Morte tutto finisce, si spezzano le catene, più niente mi trattiene. Si nasconde la pallida Luna, non mostra la sua vera faccia, ma io ci vedo bene. Non è più tempo che io taccia.
Fissai i tre Arcani stesi sul tavolo, tra i biscotti col buco e lo yogurt al mirtillo. Merda! Il mio super potere fregatura si era risvegliato.
Mentre bevevo il caffè, che avrebbe anche potuto essere tè, cicoria e persino cicuta per come stavo, uno sprazzo di lucidità si fece largo sgomitando nella mia testa. Torno a letto. A lavoro non ci vado. Mi sembrò la soluzione più semplice. E anche la più sicura.
Confortata dal pensiero di mandare tutto al diavolo, giusto per restare in tema, mi rilassai e finii di fare colazione. Poi pero, l’altra me, la Precisina, approfittò del momento di calma.
No, dico io, tornare a letto? Che ti viene in mente? Hai due appuntamenti stamattina. Mica li puoi rimandare all’ultimo secondo. Che figura ci fai?
La Precisina è una gran rompi, ma ha quasi sempre ragione. Annuii mortificata.
Guardai i tre Tarocchi con disprezzo e cominciai a sparecchiare, decisa a infischiarmene del messaggio che mi stavano lanciando. Li lasciai lì, stesi sul tavolo, a meditare sulla loro cattiveria. Mi preparai per uscire e quando stavo già con una mano sulla maniglia della porta, un pensiero mi tradì: “E se succede di nuovo?”
La Precisina non si fece cogliere di sorpresa: Grandi poteri comportano grandi responsabilità… citò un po’ a caso. Vale anche per i superpoteri, non puoi mica tirarti indietro!
Tolsi la mano dalla maniglia della porta. Meglio darsi malata.
La Precisina tossicchiò per richiamarmi all’ordine.
Eh, la fai facile tu! Sbottai. Ti ricordi cos’è successo l’ultima volta?
Lei esitò un momento. Poi si riprese e tentò di minimizzare: Embè… Il cliente si è un pochino arrabbiato, ma…
Spalancai gli occhi. Che sfacciata! Un pochino? Mi ha messo a soqquadro il negozio.
La Precisina ridacchiò. Poi, però, ti ha mandato dei fiori.
Molto poi, replicai imbronciata.
Quella volta avevo passato un’ora chiusa in bagno, in attesa che il tipo si calmasse. Ero uscita solo quando lo avevo sentito sbattere quel che rimaneva della porta, mandandomi a quel paese.
Rischi del mestiere… rilanciò la Precisina. Vai, vai, dolcezza. Andrà tutto bene.
Uscii non del tutto sicura di stare facendo la cosa giusta, ma ormai era davvero troppo tardi per annullare.
Mentre sfrecciavo nel traffico a bordo della mia Vespa blu oltremare, ripensai alle tre carte per vedere se riuscivo a smontarle, le stronzette. Magari il super potere fregatura non c’entrava nulla con quello spread. Magari le carte mi stavano dicendo tutt’altro. Mi concentrai, o almeno ci provai, tra un semaforo rosso e l’altro.
Il Diavolo. Impulso creativo dirompente, energia incontrollabile. Eh no, no, non ci siamo. Devo tenere tutto sotto controllo, invece. Niente spazio al superpotere fregatura.
La Morte. Catene che si spezzano, libertà di agire. Di male in peggio. Eseguire il lavoro concordato, niente colpi di testa.
La Luna. Apparenza, facciata, maschera. Eccolo là, il mio superpotere. Smascherare gli impostori, la mia specialità. Mi accorgo sempre quando un cliente mi chiede una cosa, ma vorrebbe l’esatto opposto.
Ok, le carte potevano anche dire il vero ma quel giorno ero decisa a fregarmene di chi mente a se stesso. Superpotere o no, avrei fatto quello che i clienti mi chiedevano. Non uno svolazzo di più, non uno svolazzo di meno. Che ci potevo fare io se erano coglioni? E poi, di chiudermi in bagno proprio non mi andava.

Parcheggiai davanti al negozio e guardai la saracinesca, tentata di fare dietro front, nonostante tutti i buoni propositi.
Non ci pensare nemmeno! mi ammonì la Precisina. Andrà come deve andare aggiunse, dandosi arie da Sibilla cumana dei poveri. Sospirai ancora e aprii bottega.
Avevo appena finito di sistemare gli strumenti, che entrò il primo appuntamento: una biondina con gli occhi azzurro cielo e il corpo da bambina. Portava un vestitino blu a fiorellini, Superga immacolate e una borsa di tela con su scritto I love Mr. Darcy. Subito sentii il familiare clic nella testa, ma mi imposi di non dargli importanza.
Tatuare il disegno che la biondina e io avevamo concordato, dovevo fare solo quello.
Una lunga frase, una delle più romantiche che Jane Austen abbia mai concepito, tratta dalla lettera che il capitano Wentworth scrive ad Anne Elliot in Persuasion. La biondina era convita di essere un’inguaribile romantica. Il mio superpotere non era d’accordo.
Giulia, così si chiama, era al suo primo tatuaggio. Si capiva che era in ansia. Parlammo un po’ finché non si rilassò quel tanto che bastava, ma badai bene a che la conversazione non scivolasse sul personale. La feci accomodare sul lettino. Lei si scoprì la spalla trepidante e si affidò alle mie mani con uno sguardo pieno di fiducia.
Lo sentii arrivare. I see you, il mio superpotere, mi stava mostrando l’invisibile di Giulia. Mi detti da fare per non guardare. Se Giulia non voleva vedere, perché avrei dovuto farlo io? I see you proprio un bel niente.
Pulii e disinfettai la parte da trattare, mi accertai che fosse liscia come sembrava e poi sistemai il disegno sulla sua pelle di porcellana e procedetti al trasferimento.
Un altro clic. Eh no, non questa volta… Mi gettai sul superpotere, lottammo con ferocia e alla fine riuscii a strangolarlo. Ero quasi certa che avesse smesso di respirare. Mi congratulai con me stessa: avevo appena avuto la meglio su I see you.
Più tranquilla, feci un passo indietro per osservare l’effetto del disegno.
Una penna d’oca, appena intinta in un calamaio, scriveva in bella grafia le parole appassionate che Giulia voleva per sempre sulla sua pelle: You pierce my soul. I am half agony, half hope. Tell me not that I am too late, that such precious feelings are gone for ever.
Stesi sul disegno della pomata e misi un po’ di musica per darmi la carica.
I Guns’N Roses erano perfetti per smorzare Giulia lattemiele. E per riprendermi dall’omicidio che avevo appena commesso. Avrei dovuto capire che la mia non era stata una scelta casuale.
Presi l’ago e cominciai.
Lavorai con grande concentrazione, rispondendo a monosillabi a Giulia che stringeva i denti e s’informava di come stesse procedendo. Impiegai un bel po’ di tempo, ma alla fine venne fuori un buon lavoro. Perfetto direi. Il disegno, le ombre, le sfumature: una meraviglia. Peccato che non fosse quello che Giulia aveva chiesto.
Guardai e riguardai la spalla della ragazza, desiderando con tutte le mie forze di non vedere quello che stavo vedendo: tra fiamme guizzanti e una maliziosa diavolessa con la coda a punta, avevo scritto I love to play with fire.
Mi accasciai sulla sedia. Era successo di nuovo. Il superpotere aveva preso il controllo delle mie mani. Dalla mia bocca uscì un sussurro: «Finito», e Giulia s’illuminò tutta. Io, invece, precipitai nel buio.
Prima di mostrarle il lavoro, le spiegai come trattare la parte nei giorni a venire e le misi in borsa il flacone di pomata. Sapevo che dopo aver visto il mio capolavoro non mi avrebbe più ascoltato. Poi mi feci coraggio e la portai davanti ai doppi specchi. Il sorriso sulle sue labbra si spense non appena realizzò che cosa avevo fatto. Guardò il tatuaggio incredula, poi me, poi il tatuaggio. E ancora me. Due grossi lacrimoni le scesero sulle guance. Avrei voluto morire.
Si lasciò medicare senza dire una parola, si rivestì e poi, la borsetta Mr. Darcy stretta al petto e le labbra tremanti, mi guardò un’ultima volta con occhi pieni d’odio e scappò via. Naturalmente non mi pagò, ma come darle torto.
Con la morte nel cuore, mi misi a ripulire tutto. Maledette carte, ci avevano visto giusto. I see you mi aveva fregato. Che senso ha possedere un superpotere se non puoi decidere quando usarlo? Se fa tutto di testa sua, senza consultarti?

© Francesca Zanette

Ero ancora persa nelle mie riflessioni, quando sentii il rombo di una Harley Davidson. Il secondo cliente stava arrivando.
Sbirciai dai vetri della porta. Un ragazzone tutto muscoli, lunghi capelli scuri e gli occhiali a specchio aveva appena parcheggiato la sua moto davanti al negozio e stava scendendo. Una specie di Witcher in jeans attillati, t-shirt nera con un grosso teschio con bandana e le braccia tatuate.
Pregai con tutta me stessa che per quel giorno il superpotere I see you si fosse esaurito. In caso contrario, avrei passato un po’ di tempo chiusa in bagno.
Per Diego, così si chiamava il mio cliente, avevo disegnato una testa di gorilla con un casco da motociclista vecchio stile, lo sguardo minaccioso e un grosso sigaro tra le labbra. Sotto avrei aggiunto le parole Lethal threat.
Mi salutò con un sorriso di cartavetro, scambiammo appena due parole e poi diede un’ultima occhiata al mio disegno, che approvò con uno sguardo ruvido. Gli dissi di accomodarsi sul lettino e di scoprire la schiena. Lui annuì. Disinvolto, si tolse la maglietta e si sdraiò a pancia sotto. Io sentii improvvisamente caldo.
Andai allo stereo per scegliere la musica, rigida come un manico di scopa. Diego alzò un sopracciglio e un angolo della bocca: doveva esserci abituato all’effetto che faceva alle donne. Le note di Wind of change riempirono lo studio senza che neanche me ne accorgessi. Il clic nella mia testa era già scattato e io ero impotente. I see you, Diego.
Seguii la procedura in trance, o almeno credo, perché non me lo ricordo. Quando arrivò il momento di usare l’ago, era ormai troppo tardi per salvare l’uomo steso sul lettino. Lavorai veloce, in preda a una specie di delirio, che mi abbandonò solo quando pulii la pelle un’ultima volta.
Tra romantici svolazzi e piume d’oca, che avrebbero dovuto essere sulla pelle di Giulia – accidenti a me – avevo scritto queste parole:
That love is all there is,
Is all we know of love.

Una poesia di Emily Dickinson. Sulla schiena muscolosa di un biker. Morta. Ero una donna morta.
Disinfettai con cura e poi andai incontro al mio destino. Accompagnai Diego agli specchi doppi e chiusi gli occhi.
Silenzio. Uno, due minuti, forse più, trascorsero senza che nessuno dicesse niente.
Mi azzardai ad aprire un occhio, poi l’altro. Diego osservava il suo nuovo tatuaggio con uno sguardo strano. Valutai se correre a chiudermi in bagno, ma lui non mi sembrò in preda all’ira, solo perplesso. Andò alla sedia dove aveva lasciato la maglietta, l’afferrò e stava per rivestirsi quando tornò verso di me. Pensai che mi avrebbe mollato uno schiaffo, invece mi baciò. Con passione. Poi, senza aggiungere nulla, si rivestì, lasciò il compenso che avevamo pattuito sul tavolo da disegno e, senza aspettare la fattura, uscì.

Sono trascorsi due anni da quella mattina. La Harley Davidson di Diego e la mia Vespa blu oltremare se ne stanno parcheggiate una accanto all’altra nel garage di casa mia.
Diego si era fatto vivo un paio di giorni dopo il fattaccio. Mi disse che nessuno lo aveva mai capito come avevo fatto io. «Donna preziosa», aveva sussurrato con una strana luce negli occhi. Poi, mi aveva baciato di nuovo e invitato a cena.
Di Giulia non ebbi notizie per parecchi mesi. Neppure dal suo avvocato. Una mattina la trovai ad aspettarmi davanti al negozio. Sul momento non la riconobbi. Aveva cambiato completamente look. Ora era una biondina molto sexy, fasciata in un abitino nero che lasciava scoperte spalle e schiena, e portava disinvolta un tacco dodici. Il tatuaggio che le avevo fatto era bene in vista.
Mi aiutò ad aprire e una volta dentro mi abbracciò stretta e mi ringraziò. Disse che l’avevo aiutata a scoprire la vera Giulia, che le avevo dato il coraggio di essere quello che è. Saldò il conto che aveva lasciato in sospeso e poi, mentre usciva, confessò maliziosa che se non fosse stato per me, non avrebbe mai saputo quanto c’era da divertirsi là fuori.
Il superpotere torna a farsi vivo ogni tanto, ma non mi chiudo più in bagno. Quando al mattino estraggo dal mazzo certe carte, Diego mi accompagna al lavoro. Spiega lui ai clienti che cosa è successo e soprattutto perché è successo. Lo guardano straniti, ma fino a ora nessuno ha mai avuto il coraggio di arrabbiarsi. La corporatura di Diego è un deterrente, certo, ma soprattutto credo che il mio ragazzo tutto muscoli ci sappia fare con le persone, lui sa quali corde toccare.
I see you, il mio superpotere fregatura, ha finalmente trovato il suo angelo custode.


Barbara G. Castaldo è mamma, moglie e blogger. Vive tra Livorno e Parigi. Tutto questo andirivieni tra Italia e Francia le ha causato un lieve disturbo della personalità: refrattaria a ogni forma di attività fisica nella sua città natale e podista con la macchina fotografica nella capitale francese; topo di biblioteca e attacca bottone plurilingue; pallido fantasma confinato a una scrivania e abbronzatissima anima delle feste. Al momento, nessuna cura è stata trovata: ma la famiglia non perde le speranze.