La signora Veronica S. aveva i suoi riti. Si svegliava alle sei e si faceva una caffettiera da tre tazze. La beveva tutta in una tazza grande. Poi usciva nel suo giardino. Veniva presa dallo sconforto per le erbacce che crescevano ovunque. Si fermava a carezzare i tronchi degli alberi da frutta. Ammirava le ragnatele. Alla fine del suo giro, si sedeva a guardare il panorama. La sua casa era lì alle spalle. E lei, come ogni mattina, osservava il piccolo cimitero del paese.
Il risveglio è la cosa più importante, si diceva. E si toccava i capelli bianchi, folti e sottili. Il suo volto aveva pochissime rughe per l’età. Qualche macchia più scura era apparsa sulla fronte, sulle tempie. I corti capelli bianchi sembravano scolpiti, immobili nel leggero vento del mattino. Era una piccola vecchia signora e guardava le case aggrappate alla profonda valle sotto la sua casa. La sua schiena curva la faceva ancora più piccola e le dava dei dolori improvvisi che passavano come erano arrivati. Ci aveva fatto l’abitudine.
Dopo aver guardato a lungo il panorama che conosceva a perfezione, rientrò in casa. Quel giorno aveva deciso di dare una bella spolverata al salotto, ai ripiani e agli scaffali pieni di libri. Per avere un sottofondo durante il lavoro, accese la televisione. Non guardava e non ascoltava. Passava il panno sulle superfici ingombre di oggetti. Poi lo vide. Nello schermo. Vide il volto del ministro per cui aveva lavorato per quindici anni. Si sedette sul divano, con il panno sporco tra le mani. Provò ad ascoltare la notizia, ma la memoria la inondò di ricordi. Non riusciva a sentire la voce della giornalista. Cos’era successo? Cosa? Il panno era caduto sul pavimento. Fece per raccoglierlo poi si fermò. Si lasciò cadere all’indietro. Era morto. Il suo ministro era morto.

Ricordava benissimo quel giorno di nove anni prima. Aveva cambiato la sua vita. Il ministro Tiborc V. l’aveva chiamata come al solito, ma quando se lo trovò di fronte vide che non aveva la solita espressione, la sua ben nota maschera amimica cui raramente sfuggiva un moto d’impazienza e ancora più raramente una piega della bocca di difficile interpretazione. Nemmeno i suoi stretti collaboratori avrebbero saputo attribuire a quei cedimenti un qualche significato. Per questo Veronica S. si sorprese alla vista del ministro che l’accolse sulla porta e l’accompagnò quasi spingendola verso la poltrona di fronte alla sua scrivania. Il volto di Tiborc V. non era più amimico. Aveva un lieve tremore che sembrava muoversi tra le labbra impallidite e i lobi delle orecchie. Gli occhi non riuscivano a restare fermi su qualcosa più di qualche secondo. Persino i capelli tirati all’indietro avevano una piccola ciocca scomposta sulla nuca. E il suo corpo, che era sempre stato parsimonioso di gesti e movimenti, ora si affaccendava a cercare oggetti da spostare e forse, alla fine di tutto, una posizione in cui mettersi a riposare.
Si sedettero dallo stesso lato della scrivania.
«Cara Nica, devo dirle una cosa e voglio farlo subito, prima che comincino a girare voci di ogni genere. Lei sa di cosa è capace questo palazzo, quanto a inventarsi notizie.»
Veronica S. era talmente sorpresa dai cambiamenti che vedeva nell’uomo che quasi non sentì cosa diceva.
«Ascolti. Dopodomani dovrò dare le dimissioni. Non è una mia scelta. Dovrò farlo e basta.»
Improvvisamente apparve tranquillo. Si alzò dalla poltrona e si diresse a una delle librerie che ricoprivano le pareti della stanza. Tornò sulla poltrona con una voluminosa busta gialla e la posò sulla scrivania. Guardò la sua segretaria che si era irrigidita e stava seduta come sul punto di scattare in piedi.
«Vorrei darle questo.» Indicò la busta.
Veronica S. non sapeva se guardare la busta o il ministro. Si voltò verso le librerie che coprivano tutte le pareti della stanza. Per la prima volta si chiese cosa contenessero. Tiborc V. prese la busta e la porse alla sua segretaria.
«Cosa devo farne?», disse Veronica S.
«Lei ha tra le mani tutte le poesie di Andreas R., un uomo che ho mandato al confino.»
Veronica S. pensò che non era possibile che il ministro potesse abbandonare il suo posto. Lei lo sapeva che era un uomo inflessibile contro i nemici dello Stato, ma non aveva idea di quello che aveva fatto realmente. Non era suo compito sapere. E ora lo Stato non aveva più bisogno di lui. Cosa aveva fatto? Cos’era cambiato?
«Poesie?», disse Veronica. «Non capisco. A che serve mandare al confino un poeta? Perché temete tanto un poeta?»
«Dovevamo prevenire le valanghe», disse il ministro. «Ci sono diversi tipi di valanghe. Sapete come inizia? A volte si stacca un grande masso di roccia e precipita a valle all’improvviso. Ma più spesso si stacca un sassolino e cade su una roccia instabile, in alto, nei pressi di una vetta. Il sassolino può restare lì per lungo tempo, ma un giorno il suo peso sarà sufficiente per staccare il masso. Allora cadrà su altre pietre e queste salteranno verso la valle. Quante seguiranno? Non possiamo saperlo e comunque, a questo punto, potrebbe essere impossibile fermarle. Potrebbero aumentare e precipitare in un rombo verso di noi. Ecco, il poeta è quel piccolo peso, l’inizio della valanga.»
Si guardarono a lungo, senza parlare. Ognuno aveva in mente la propria storia e la ripercorreva cercando di trovare un senso all’epilogo che stavano vivendo. Ognuno, a suo modo, aveva visto quanto può essere orribile il male.
«Cosa devo fare?», chiese Veronica.
«Mia cara Nica, niente», rispose il ministro. «Si metta in ferie, da domani. Faccia un viaggio. E quando ritornerà, faccia attenzione.»
«E le poesie?», aggiunse Veronica. Il ministro sorrise. E questo fu tutto. Non si sarebbero più rivisti.

Il giorno successivo Veronica S. si svegliò alle sei e si fece una caffettiera da tre tazze. La bevve tutta in una tazza grande. Dalle finestre del suo piccolo appartamento si poteva vedere la facciata del ministero. Avrebbe tanto voluto poter scendere e attraversare la strada, come sempre. Ma era in ferie. Poteva tornare a dormire, guardare la televisione, uscire e girare la città. Non poteva. Aveva in mente una sola cosa.
Prese la busta gialla posata sul divano e si sedette. Estrasse i fogli. Cominciò a leggere meticolosamente ogni parola come era scritta. Le sembrò di non capire il senso di quelle parole che pure erano state scritte per dire qualcosa. Quelle parole le mettevano addosso un vago disagio. Le chiedevano troppo.
Rimise i fogli nella busta. Si disse che non era una cosa da decidere da sola.
Il giorno dopo si svegliò prima del solito. Si fece una caffettiera da tre tazze. La bevve tutta in una tazza grande. Poi uscì e andò alla stazione. Si era informata. Sapeva dove trovare l’uomo che poteva spiegarle. Salì sul treno con la sua borsa più vistosa, appesantita da una busta gialla. Il viaggio le sembrò lunghissimo. Dal finestrino vide la sua terra che non aveva mai visto. Distese aride che sembravano infinite, lontane montagne senza un albero e ruderi di mattoni sbiaditi accanto a strutture di metallo arrugginito. Alle stazioni salivano e scendevano contadini vestiti con i variopinti costumi tradizionali. Nello scompartimento si spandeva un odore che Veronica S. non aveva mai sentito. Era un odore indefinibile, un misto di muffa, cipolla e sterco. Nessuno ci faceva caso.
Scese a una stazione che sembrava una casupola cadente. Un vecchio sdraiato per terra la guardò mentre attraversava il breve tratto verso l’uscita. Si ritrovò in una piccola piazza. Vide un poliziotto e gli andò incontro. L’uomo la osservò con indifferenza. Veronica S. gli mostrò il suo documento ministeriale. L’uomo scattò sull’attenti e le fece un goffo inchino. Si offrì di accompagnarla. Giunti a destinazione, le ci volle un po’ di tempo per convincere il poliziotto che non aveva più bisogno di lui. Aspettò che l’uomo si allontanasse, poi si avviò verso una casetta, poco più di una baracca seminascosta in via laterale. Bussò alla fragile porta fatta di semplici assi di legno. Le venne ad aprire una donna alta, incongruamente elegante nel suo abito di velluto nero. Fu accompagnata all’interno, in una piccola stanza accogliente. Le pareti erano coperte di pochi quadri, alcune vecchie foto e moltissimi disegni. Un giovane uomo, alto e magro, vestito con una tuta grigia da lavoro, si alzò da una poltroncina rossa e le venne incontro. L’imbarazzo di Veronica S. era almeno pari a quello di Andreas R. e il loro incontro fu breve e laconico. Il poeta estrasse il contenuto della busta gialla e dovette subito sedersi. Leggeva e poi passava i fogli alla donna alta che era rimasta in piedi. Veronica S. cominciò a sentirsi fuori posto. Avrebbe voluto chiedere cosa dicevano veramente i versi che stavano leggendo quei due. Avrebbe voluto capire il motivo del suo viaggio. Ma non chiese nulla.

© Beniamino Musto

Passò gli altri giorni di ferie a leggere. Da quando era rimasta vedova, ventidue anni, quattro mesi e quindici giorni prima, non aveva più letto nulla. Aveva conservato i libri del marito, ma non erano tanti, perché avevano passato la vita a trasferirsi da una casa a un’altra ed era meglio non avere troppe cose.
Il giorno del rientro in servizio, le dissero che doveva presentarsi a un funzionario che non aveva mai visto. Lui le disse che poteva andare in pensione. Le avevano assegnato una casa fuori città, in collina. Veronica S. fu prudente. Firmò il suo congedo dal servizio.
Le avevano assegnato una casa di pietra in collina, nel paese più vicino alla capitale. Per raggiungerla si doveva passare da una strada sterrata che passava tra alti muri irregolari. Aveva un pezzo di terra con alberi da frutto e cespugli fioriti. Dall’ampio terrazzo poteva vedere il paese e sulla collina di fronte il cimitero. Non poteva chiedere di meglio.
Nei mesi successivi notò che sulla strada sterrata si fermavano uomini vestiti di grigio che certo non si erano persi. Rimanevano per una o due ore, assorti e attenti a ogni cosa. Lei li guardava, nascosta tra i rami delle sue piante. Ma era sicura di essere vista. Le visite degli uomini grigi si diradarono negli anni: potevano passare settimane senza che si facessero vedere.

Veronica S. si alzò dal divano e raccolse lo straccio. Il suo ministro era morto. Aveva fatto in tempo a vedere la fine del suo mondo. Era solo un lontano ricordo. Non era tristezza quella che sentiva. Un piccolo vuoto nel suo vecchio cuore, forse solo quello, nel vuoto che ogni giorno si allargava. Quanto tempo era rimasta in piedi davanti alla televisione? Il telegiornale era finito. Non c’era niente da vedere. Si poteva spegnere.
Uscì in giardino. Il suo piccolo disordinato giardino, la sua consolazione, sembrava aspettare qualcosa. Sembrava una domanda. Ma lei non aveva la risposta. Era sicura di non avere nessuna risposta, tranne la sua vita stessa. Non era abbastanza?
E allora facciamoci un giro, tra le erbacce e gli alberi indeboliti dai parassiti. Camminò, avanti e indietro, per poi fermarsi vicino al cancello. Sulla strada sterrata c’era, ancora una volta, un uomo vestito di grigio. Non ne vedeva uno da mesi. Uscì sulla strada. L’uomo fece qualche passo verso di lei. Veronica S. gli andò incontro. Non l’aveva mai fatto.
Quando vide il volto dell’uomo in grigio sentì un sollievo.
«Buongiorno Andreas.»
«Buongiorno», rispose l’uomo in grigio.
Si avviarono insieme verso la casa. Veronica S. lo guidò verso il terrazzo e lo invitò a sedere. Guardarono la ragnatela tra le foglie dell’alloro. Rimasero seduti a lungo, a guardare il cimitero e la valle e la città lontana.
«Mi hanno offerto di fare il ministro», disse Andreas.
«Accetterà?», chiese Veroniva S.
«Non lo so.»
Veronica S. si alzò e si diresse in cucina. Preparò una caffettiera da tre tazze. La mise tutta in una tazza grande e la portò all’uomo che guardava il panorama.
Il poeta sorrise. E questo fu tutto. Non si sarebbero più rivisti.


Fabio Foti è nato a Padova nel 1959. Lavora come medico, specialista in psichiatria. Ha svolto un’attività pubblicistica per alcuni anni e ha pubblicato articoli, recensioni, testi in prosa e in versi su numerose riviste tra cui Contrappunto (Padova), Sinopia (Ferrara), La Corte (Mantova), Erba d’Arno (Firenze), Verso (Pescara). Era molto tempo fa.