«L’arancione com’è?»
«Dice il colore 791/M?»
«Sì, bravo.»
«L’arancione è caldo, positivo, un raggio di sole che illumina una coppa di gelato alla frutta.»
«Molto bene, tenga. Il prossimo.»
Sergio origliava dalla sala d’attesa, si sentiva tutto attraverso la vecchia porta a vetri che probabilmente risaliva a quando il palazzo era stato costruito, forse ai primi del Novecento. Un uomo uscì dalla stanza e imboccò il corridoio lasciandosi la porta socchiusa alle spalle. Sergio si guardò attorno, guardò il numerino che aveva in mano e le facce distratte degli altri seduti sulle panche: il prossimo era lui. Si alzò con un gesto rapido, per farsi coraggio, come quando in acqua decidi di tuffarti di botto senza prima saggiare la temperatura col piede, ed entrò.
Nella penombra vide un uomo di mezza età, seduto a una scrivania logora e piena di scartoffie. L’aria era ingrigita dal fumo di una sigaretta accesa abbandonata in un posacenere, illuminata solo da un anziano abat-jour sul giallo e dal luccicare intermittente della lucina rossa sul telefono, uno di quegli apparecchi col filo che ormai si vedevano solo nei film, o negli uffici pubblici. Sulla parete alla sua destra era appeso un poster stropicciato del quarto stato di Pellizza da Volpedo, affiancato a un paio di calendari della Polizia, mentre dall’altra parte c’erano tre armadietti in metallo sporcati da una ruggine scura.
L’uomo seduto alla scrivania indossava una divisa chiaramente lavata fin troppe volte da una moglie che lo aspettava tutte le sere con un piatto di pasta da riscaldare. Sergio poteva quasi vederlo: quando rincasava si toglieva la giacca, si sedeva e mangiava freddo, in silenzio, con gli occhi fissi sul calendario del supermercato appeso a un frigorifero che ronzava insistentemente. Sergio lo vedeva così bene che quasi si stava perdendo anche lui nell’immagine di un maggio tutto frutta.
«Si sieda», disse la voce da dietro la scrivania, scuotendolo da quel divagare.
Il poliziotto aprì una cartelletta ed estrasse un foglio bianco sporcato solo da una serie di macchie gialle accompagnate a delle sigle. Forse un test della vista? O un test della personalità? Può essere, le voci sulla nuova questura erano tante, si diceva addirittura che il primo dirigente andasse in giro con un cappello da ammiraglio in testa.
«Com’è l’arancione?», chiese il poliziotto alzando un sopracciglio e guardando Sergio per la prima volta da quando era entrato nella stanza.
«Come scusi? L’arancione?»
«Sì, guardi i colori sul foglio e mi dica com’è l’arancione.»
Sergio saettò gli occhi sul foglio alla ricerca di un colore che fosse diverso dal giallo. C’erano sei o sette macchioline, qualcuna forse impercettibilmente più scura delle altre, è vero, ma tutte inequivocabilmente gialle.
«Mi scusi, sono un po’ stanco, io…»
«Allora, lei ha davanti un foglio con dei colori, giusto?» gli disse il poliziotto appoggiandosi allo schienale della sedia, prendendo la sigaretta e tirando una lunga boccata.
«Giusto.»
«E di fianco a questi colori ci sono delle siglette, le vede?»
«Le vedo.»
«Bene, guardi l’arancione 790/M e mi dica com’è.»

© Alessandra Di Paola

Sergio abbassò di nuovo lo sguardo. Sul foglio, contrassegnata dalla sigla 790/M, c’era una macchiolina gialla. L’idea di perdere il permesso di soggiorno lo terrorizzava: aveva passato gli ultimi vent’anni a Roma, ci lavorava, stava per sposare Giulia. Perderlo voleva dire tornare a Milano, ammesso che l’avessero fatto rientrare nella confederazione lombarda, e poi passare per l’Appello del Popolo, dove una giuria di suoi pari avrebbe deciso se quel rientro così improvviso fosse compatibile con una condotta socialmente accettabile. Iniziò a sentire freddo, lo stomaco gli lanciava segnali dolorosi, la testa si faceva leggera e la fronte sempre più pallida iniziava a riempirsi di tante piccole goccioline di sudore.
«Senta, sono le sei meno un quarto e io ho quasi finito il turno, mi faccia un favore e collabori», sbuffò il poliziotto, questa volta guardandolo dritto negli occhi, chinandosi verso la scrivania e schiacciando il mozzicone nel posacenere. «Io sono lo Stato, e se lo Stato le dice che 790/M è arancione, lei cosa risponde?»
Sergio esitò un attimo. «Sì?»
«Oh ci siamo, bravo, e com’è l’arancione?»
«L’arancione è… succoso?»
«Vabbè, e mi dica il verde.»
Sergio guardò il foglio vorticando gli occhi da una macchiolina gialla all’altra. In acqua ci si tuffa di botto, senza prima saggiare la temperatura col piede: «Dice 794/M?»
«Bravo.»
«Il verde è vivo, imperlato, minerale, un riflesso di mondi lontani, quasi uno sguardo nell’acquario torbido e misterioso nel quale sono immersi i pianeti del nostro sistema sol…»
«Va bene, va bene, però non strafaccia, eh? Ora mi parli di 792/V e la mando a casa. Che colore è?»
«Blu!»
«Guardi. Meglio.»
Sergio sentì un’onda gelida percorrerlo dalla testa ai piedi, pensava solo alla goccia di sudore che stava per entrargli nell’occhio destro, mentre fissava il foglio trattenendo il respiro. Volevano fare un figlio, lui e Giulia, avevano già avviato le pratiche per il nullaosta e ormai mancavano solo il matrimonio e il suo permesso di soggiorno, quello che lì, in quella stanza appena illuminata, sembrava scomparire nella nebbia lasciata dal fumo di sigaretta.
Il poliziotto sbottò impaziente: «Ma è giallo, non vede? E lo sanno tutti che il giallo è inglese. Uno splendido giallo inglese. Ripeta!»
«Uno… uno splendido giallo inglese?»
Il poliziotto picchiò un timbro imbevuto d’inchiostro su un foglietto rosa e lo porse in avanti.
«Bravo, ce l’abbiamo fatta, eh? Mi raccomando però, occhio, per il controllo tra due settimane più attento, d’accordo? Che non avrà sempre la fortuna di trovare qualcuno buono come me.»
«D’accordo, la ringrazio molto.»
Chiamando a raccolta le energie, Sergio convinse le ginocchia a reggere il peso del suo corpo e si alzò. Riaccostò la sedia alla scrivania, aprì la vecchia porta a vetri e uscì in sala d’attesa col permesso di soggiorno stretto in mano. Fece un cenno a quello che veniva dopo di lui, poi si avviò incredulo lungo il corridoio con passo incerto, quasi barcollante, riuscendo a schivare per un pelo un uomo in divisa e cappello da ammiraglio.


Alessandro Arndt Mucchi dopo il Conservatorio e Giurisprudenza ha fatto il giornalista per una decina d’anni (principalmente scrivendo di videogiochi, ma anche musica e teatro), e ora fa il project manager in un’azienda che si occupa di traduzione e doppiaggio. Suona, cucina, gioca, scrive, legge e riscrive. Spesso col favore delle tenebre. Spesso contemporaneamente.