Frequentavo i cabaret da prima che si riducessero a soggetti per cartoline in finta tinta seppia, tappe segnate da stellette d’oro sulle mappe turistiche di Parigi; dai tempi in cui gli impresari smaniavano alla ricerca di un valido epigono di Lenny Bruce, capace di spezzare l’ininterrotta sequela di esibizioni sulla lipidica noia matrimoniale, sulle mogli infagottate in vestaglie di flanella che scaldavano cibo in scatola e preparavano sandwich in cucine di linoleum a mariti disgustati. Quegli stessi mariti grassi che tentavano di evitare di sfiorare le loro grasse mogli. Prima che le battute sulle Genti del Libro venissero sdoganate, proibite, nuovamente boicottate e infine rese acquistabili tramite pagamento di un ostracismo formale, di durata e intensità variabile, a seconda della creatività con cui venivano taglieggiati i sudditi di Davide e quelli di Pietro; parecchio prima che scoprissimo il divertimento e il pericolo di prendere per il culo Maometto. Tutto questo, prima che l’uso del termine si ridusse a indicare un desueto intrattenimento per francesi e un fortunato musical di Broadway.
Bei tempi quelli. A Chinatown non c’era niente che non si potesse dire, ed erano ben pochi quelli che spendevano la notte a dormire. La città dei destini scontati versava in un costante stato d’insonnia, che si tramutava in letargica inedia appena le prime luci del crepuscolo si rifrangevano sulle finestre. Di giorno, era poco più che un’ameba.
Un locale troppo illuminato era un locale fallito. Tiravano le tende e oscuravano le finestre con assi e drappi neri per non rischiare che la luce del sole risvegliasse quel senso di sconfitta che faceva sentire in colpa la gente che si ubriacava di giorno.
Qualcuno intuì che l’umorismo non doveva necessariamente innescare una vera risata, il potere di far storcere il naso e tappare il gozzo diede nuova linfa agli aspiranti comici che stagnavano nella palude delle barzellette coniugali, ormai decadute in un primitivismo rivoltante.
Gli unici fari d’illuminazione puntavano verso il palco, i tavoli della platea erano immersi in un’oscurità impenetrabile di cui ogni specie presente beneficiava in modo diverso: i cabarettisti non dovevano perdere tempo a figurarsi una quarta parete, ad occhi chiusi potevano fingere senza sforzo di parlare alla lampadina del loro bagno; i mariti etilisti alla ricerca di un luogo pubblico e deserto in cui appartarsi con l’amante, impastare le cosce di una puttana, intavolare trattative per coccole, pompini e orologi falsi.
Sono esistito tanto a lungo tra queste pareti da trascendere la condizione umana ed evolvermi in cimelio d’antiquariato. Diventare reliquia, corredo funebre del mausoleo d’infelicità che ho eletto a residenza. Solo adesso riesco a ricomporre tutto questo, e non riesco a dispiacermene più di tanto.
Non avevo molto di meglio da fare. Quando un uomo non può avere quello che vuole, non gli resta che arredare la propria solitudine, o diventare l’arredo di quella altrui. Il buio, la catramosa coltre di migliaia di sigarette consumate, il disintegrarsi dei gusci di frutta secca sotto le suole, assordanti silenzi a fare da gogna per battute criminali. Se avessi preteso dell’altro, avrei dovuto farlo per tempo, quando in mano avevo ancora delle carte da giocare, delle incertezze su cui scommettere.
Non saprei collare il momento esatto in cui cominciarono i problemi. Immagino ci fossero da sempre, anche se d’istinto si credeva che quelli peggiori fossero lontani. L’Inferno appare sempre lontanissimo, quando si è giovani e si crede d’aver ancora tutta una vita da vivere, di essere prigionieri nell’interludio che precede l’inizio di quella vera, e non si vede l’ora che cominci.
Un ragazzetto balbuziente, una sera si prese uno scroscio di lattine. La platea, per quanto ridotta, amava farsi sentire. Poteva essere la terza o quarta volta che lo cacciavano dal palco, ma continuava a salassare le finanze della madre per pagarsi le esibizioni. Quelle del sabato sera, le più care. A pagare erano solo i comici che non facevano ridere, quelli bravi venivano chiamati e anche retribuiti: di quando in quando, a seconda delle contingenze.
Le risate salivano e calavano come la lama di una ghigliottina; non avrei mai spalancato un sorriso per qualcuno che non se lo meritasse.
Le risate, al contrario di coiti e orgasmi, non si lasciano forzare. Niente annichilisce un teatrante più di una truce espressione ammutolita. E la soddisfazione della piccionaia viene sempre dal suo inviolabile diritto a far piovere fischi e sputi.
Quella notte, il ragazzo tornò a casa, uccise la madre e si gettò dal tetto. Lo lessi il giorno dopo sulla gazzetta del mattino.

Ma il primo che conoscevo personalmente fu Cappuccio Rosso; venne cacciato dopo un annetto, ma ritornò dopo pochi mesi con sommo rammarico di tutti i sedentari spettatori che avrebbero assistito al suo ritorno. Lo ricordo bene, perché lo vidi con i miei occhi. Un tempo era discreto, nel quartiere era riuscito a ritagliarsi un nome e riuscì a mantenerlo per almeno un paio d’anni prima di perdere l’inventiva. E, subito dopo, il senno. Esibizioni sempre identiche: notte fonda, l’ultima in scaletta prima della chiusura – sempre collocata in un momento qualsiasi tra le quattro e cinque e mezza del mattino –, monologhi costruiti sul paradigma di pazzi che facevano cose da pazzi. Negli ultimi tempi assunsero i tratti di sermoni veterotestamentari, come tentasse di diventare una caricatura di Savonarola.
Più simile a un aedo sotto barbiturici che a un comico di stand-up. La sua auto era parcheggiata nel vialetto laterale, sotto la fila di lanterne rosse poste sotto porte e finestre, le stesse che lasciavano i marinai sulle porte dei bordelli del porto. Aveva ingoiato un po’ di porcherie per lasciarsi andare, col motore acceso e il piede sull’acceleratore, lasciando che l’abitacolo si riempisse del monossido deviato dallo scappamento. Non aveva documenti. Avrebbe potuto bussare a una porta qualsiasi, magari a più di una, scrutare i volti affusolati delle ragazze irradiati dalla luce vermiglia delle lanterne, avrebbe potuto scegliere la sua preferita tra mille. Anche ammesso che ci abbia pensato, niente gli sarebbe apparso tanto appetibile quanto una mortale boccata di gas di scarico. Avevamo tutti la sensazione di conoscerlo bene, ma ci rendemmo conto solo al momento che nessuno s’era mai chiesto come si chiamasse. Lo caricarono sull’ambulanza come Cappuccio Rosso.
Il cadavere di Cappuccio Rosso.
Le esequie si svolsero secondo un sincretico rito scintoista-animista, in una camera mortuaria allestita nel retro della bisca. Pronunciarono preghiere e profusero inchini in cinque idiomi diversi, raccomandandolo a quante più divinità possibili.

Kaliningrad Gaga Cabaret. Pack, il proprietario, pensava fosse brillante dissacrare un’industriosa città sovietica, consacrando tempio omonimo alla stessa mortifera tristezza sull’opposta sponda dell’oceano.
Al Kaliningrad quasi non esistevano avventori casuali, non prima di una certa ora. Ben pochi inciampavano nell’entrata per caso, sette gradini sotto il livello della strada; per le bolge è sempre necessario discendere le viscere della terra.
Al vecchio Pack piacevano i dadi, il Remy Martin e l’Armand de Brignac; gli piaceva annegarsi l’encefalo in bevande di cui potesse apprezzare le sapide note del prezzo nel sapore. In giro si diceva avesse avuto una discreta fortuna a un gioco chiamato Tokio. Non avevo idea di che gioco fosse, ma quando ci parlai, una delle ultime volte, ebbi l’impressione che non fosse un caso se aveva aperto il cabaret nel centro vibrante di Little Ceylon, vecchio cuore originario di Chinatown. L’ultima volta venne al tavolo a offrirmi una bottiglia di Paul Roger d’annata, resa regalabile da un ciclo decennale di congelamento e scongelamento dentro e fuori da cantine e frigoriferi, i cui effetti mi esplosero in bocca al primo sorso. Pack mi parlò di un gioco a cui si era appassionato di recente, una specie di bridge cinese, chiamato così per rendere più appetibile, e pronunciabile, il vero nome del Duo Di Zhu; lui lo chiamava Decapita il boss, era convinto che, prima o poi, sarebbe arrivato d’ovunque. Si giocava con carte francesi. Non ne sentii più parlare. Nelle bische di Little Ceylon il gioco più popolare era un domino adattato all’azzardo, chiamato Pai gow.
Ad ogni modo, Pack perse prima la casa, poi la macchina e infine il Kaliningrad, precipitati in fila indiana nello stesso crepaccio finanziario. La bisca in cui si compì il suo destino era abbastanza vicina che qualcuno disse di aver sentito lo sparo. Cazzate, col bordello di questo quartiere mentre si cammina per strada non è semplice neppure chiacchierare, impossibile sentire cosa accade sul lato opposto della strada. I successivi proprietari cambiarono con la stessa velocità con cui Pack aveva incenerito le rendite e la sua esistenza, per poi spararsi nella latrina di una bisca cinese.
Cambiarono il nome, divenne Hyena Ridens. Un nome ancora migliore. La risata della iena, il surreale squittio che l’accompagna nella frenesia del sangue. La frenesia del sangue. Mi è sempre piaciuta questa espressione, così adatta a tutto questo. Impiegai due mesi per smettere d’avercela con me stesso per non averci pensato da solo. Non esisteva nome migliore, come per quelle bambine dal musetto che non potrebbe chiamarsi in nessun modo se non Lucille, Rachele, Camille.
Col senno di poi (la saggezza dei vermi) l’arrivo dalla nuova insegna poteva essere visto come un preannuncio delle intenzioni del futuro. I tempi erano cambiati, provocare grasse e incontrollate risate era diventato un marchio d’inutilità. L’umorismo era regredito a stati elementari, a forme scatologiche. Volevamo la volgarità, sentire tutti quei cazzi-fica-e-culo che rendevano paonazzi i benpensanti in televisione – specie umana di cui, da quelle parti, s’era solo sentito parlare.