Un sabato grigio, poco dopo pranzo, mentre cammino mi immagino un racconto su una ragazza senza un braccio. Non uno sulle sue difficoltà o sofferenze – non so se il braccio le manchi dalla nascita o se gliel’abbiano amputato per un incidente, o magari un’infezione –, perché io le sofferenze di chi è senza un braccio non le conosco e a provare a immaginarle farei forse un torto a chi senza un braccio ci vive davvero.
No, me la immagino più come una ragazza fine, gentile e con un’intelligenza viva, a cui semplicemente manca un braccio, come a qualcun altro mancano le tonsille, o l’empatia. Un difetto come un altro, ecco.
Non so dire se questa versione estetizzata di una ragazza senza un braccio sia una necessaria normalizzazione della disabilità o se invece non sia un’inutile appropriazione, irrispettosa dei problemi veri dei disabili. Probabilmente entrambe, e a voler essere onesta io voglio solo sfruttare un tema che mi attrae senza fare la fatica di comprenderlo, perché dei diritti dei disabili mi interesso poco, mentre mi interesso molto all’idea di trasfigurare nella sua mancanza di un braccio la mia cronica mancanza di serotonina.
Peraltro mai appurata.
E quindi forse non scriverò un racconto su questa ragazza, anche se forse se fossi una donna senza un braccio anche io ogni tanto vorrei essere oggettivizzata in quanto donna, come succede a tutte le altre.
Nel frattempo giro per via Duchessa di Galliera, una di quelle vie in cui ho sempre voluto abitare – più che altro per l’eleganza del nome in sé, per poterlo dettare al telefono o allo sportello del comune. Importa poco che poi i negozi siano ormai quasi tutti chiusi, e sopravvivano due bar, una per ogni lato della strada, uno con la T dei tabacchi e uno senza; un’edicola vecchio stile che emana l’odore di quando andavo a comprare le figurine, un odore di stampa e di infanzia; un tappezziere, un negozio di scommesse e poco altro; e importa poco che il resto sia palazzine con le saracinesche abbassate – vestigia di un tempo in cui si pensava che ogni condominio meritasse il proprio negozio di prossimità. Alla fine come ti vendi è tutto, e il nome della via in cui abiti ti dà sempre un certo prestigio.
La duchessa di Galliera, al secolo Maria Brignole Sale De Ferrari, fu un’influente donna genovese: nacque nel Palazzo Rosso e visse a lungo a Parigi, e con lei non sento affinità se non per il fatto che da sempre penso che in un’altra vita sarei dovuta nascere a Genova, dove comunque non sono mai stata, e perché anche io avrei voluto vivere a lungo a Parigi, soprattutto nell’Hôtel de Matignon, che Wikipedia dice oggi essere la sede della residenza del Primo ministro francese.
Mi colpisce però la ragione per cui lei e la sua famiglia decisero di trasferirsi nel 1829 a Parigi, dove poi continuarono ad arricchirsi investendo soprattutto nelle ferrovie: il marito, Raffaele De Ferrari, membro di un’altra illustre famiglia genovese, nipote addirittura di dogi, uccise per sbaglio un suo domestico mentre puliva il fucile, e questo fatto sollevò un’ondata di maldicenze e astio nella città, così forte da sentire il bisogno di andare via – almeno fino a quando, vari decenni dopo, non tornò come benefattore, donando alla città il Palazzo Rosso con la collezione di opere che conteneva e costruendo ospedali e case per i lavoratori. Per quanto la sua ascesa sociale ed economica sia proseguita senza troppe difficoltà, diverse disgrazie colpirono la sua famiglia, tra cui la morte di due figli e il ripudio dei titoli e dell’eredità da parte del terzo, idealista socialisteggiante, a riprova del fatto che anche sei ricco e di buon lignaggio, e la strada per la serenità sembra spianata, alla fine la vita trova sempre qualche modo alternativo per bastonarti.
E mi immagino che il duca di Galliera Raffaele, per quanto squalo della finanza speculativa ottocentesca, possa essere rimasto segnato dalla morte di quel servitore, un po’ nello stesso modo in cui lo fu Horacio Quiroga, scrittore uruguayano che nel 1902 uccise con un colpo accidentale il suo migliore amico Federico Ferrando, proprio mentre puliva il suo fucile.

Anche l’esistenza di Quiroga fu sferzata di continuo dalla morte, dal suicidio del patrigno e della moglie e infine anche dal proprio, e ciò che emerge da alcuni dei suoi racconti, oltre all’Amazzonia selvaggia in cui si ritira pochi anni dopo la morte dell’amico, è una malinconia profonda, buia: forse l’assenza definitiva di una speranza di redenzione, per via della quale ogni azione sembra già dal principio vana.
Non riesco a pensare a come debba essere uccidere qualcuno di vicino per sbaglio con un’arma, ma probabilmente è il corrispettivo di un’epoca in cui l’uso delle armi era più comune del nostro uccidere un nipotino mentre si esce in macchina dal parcheggio sotto casa – una cosa che è successa in un ramo della mia famiglia, molti anni fa, a persone di cui non saprei oggi nemmeno dire il nome. E chissà dove si trova, se c’è ancora da qualche parte, la lapide di quel bambino, e dello zio che per sbaglio se lo trovò sotto le ruote e da allora non fu più lo stesso.
Mentre percorro via Duchessa di Galliera, la trovo in qualche modo assimilabile al fasto e alla desolazione della vita di Maria Brignole: bei villini tra cui uno con le imposte di un blu intenso, separato dalla strada da un cancello in ferro battuto – villini del primo Novecento, di quelli per cui ho un’attrazione istintiva da sempre, sin da quando da adolescente passavo per via Buonarroti a Trento e guardavo i fregi sotto il tetto di alcuni palazzi lasciati a ingrigire nell’aria malata della città; e poi, accanto ai villini, una lavanderia, e poi qualche altra saracinesca abbassata, con l’erba che cresce mangiando la calce e prendendosi spazio negli interstizi.
Incrocio un ragazzo alto che tiene il trasportino di un animale per la maniglia. Accenno a un sorriso, ma lanciando un’occhiata dentro scopro che è vuoto, e un trasportino vuoto non è un buon segno: non c’è ragione di portare un trasportino con sé se si lascia il gatto qualche giorno da un amico, o anche in clinica per un’operazione. Un trasportino vuoto è come un carro funebre senza bara: da qualche parte il gatto è stato trasportato, e lì è rimasto, e il traportino portato via sembra dire che il gatto non tornerà più.
Superato il ragazzo incrocio i volantini di un ristorante accartocciati sull’asfalto sbriciolato del marciapiede, smossi da un vento troppo caldo per la stagione, appiccicoso, poi un uomo africano con le calze in mano e una busta di plastica azzurra traboccante di chissà che prodotti su una spalla – gli unici attori in scena in questo spettacolo di vuoto postprandiale, di cui io faccio parte nel momento in cui, con il mio zaino giallo in spalla, percorro la strada, e di cui però mi sento un’estranea spettatrice non pagante.
Calzini, fazzoletti? mi dice l’africano avvicinandosi.
No, grazie.
Ce l’hai una moneta? mi chiede ancora, chiarendo in quattro parole il non-segreto delle strade del nostro tempo che in fondo quella vendita di calzini e fazzoletti presi chissà dove è soprattutto un’elemosina mascherata – e in effetti quanti pacchi di fazzoletti ho comprato, negli anni, anche se non mi servivano, solo per una vaga pena?
No, non ho moneta, dico, perché so di non averla, o di averne troppo poca per tirarla fuori senza vergognarmi, e comunque di non averne per lui.
Lo supero e giro l’angolo di via Duchessa di Galliera, oltrepassando il negozio di massaggi thailandesi forse gestito da cinesi, e un negozio di scarpe per bambini – l’ultimo segno, mi sembra, di un’umanità in espansione, che pensava di crescere invece che di invecchiare soltanto.
Mi immergo in meditazioni superiori, belle frasi che non vedo l’ora di scrivere e ripeto più volte per ricordare, su autori che magari mi faranno apparire più colta, almeno a me stessa. Autori umbratili, dialoghi con l’oltretomba, il dolore lancinante dietro certi brani di uno scrittore ritrovato – di certo superiori rispetto al dolore alla spalla che viene all’africano mentre porta quella busta enorme, o al dolore del ragazzo che forse ha appena dovuto sopprimere il suo gatto, e anche di tutte le ragazze senza un braccio che non conosco e di cui non scriverò.
E credo ancora una volta che questo mi tirerà fuori dalla desolazione di un sabato pomeriggio in città, che mi salverà dalla bellezza e tristezza, come l’avrebbe chiamata Kawabata, di una carta di Kinder Cioccolato che intravedo semisepolta in quella che un tempo era un’aiuola, e oggi è un tronco scorciato in una pozza di terra grigia e dura.


Daria De Pascale (1989) nata in Puglia e cresciuta a Trento, per buona misura ha scelto di vivere a Roma, dove ha studiato editoria e giornalismo. Un suo racconto è stato pubblicato su Pastrengo Lit. Si occupa della sezione Libri di Flanerí.