Tutto l’incrocio è occupato dalle maschere. Sopra, l’ombra di un uomo dalle gambe lunghe, con le labbra coperte di un rosso pastoso. Il trucco non riesce a nascondere la barba, troppo pungente per un pagliaccio. In attesa di attraversare la carreggiata, l’uomo si accorge che dal borsone sottobraccio sono caduti tutti i suoi travestimenti, incastrati uno nell’altro fino a smentirsi: una parrucca bionda sulle grinze di una pelle ributtante, la guaina verde di un ranocchio accanto all’occhio azzurro e immobile del principe.
Una rapida ramazzata e tutto quel miscuglio di illusioni viene ringoiato dalla sacca nera. Per fortuna gli scheletri e le armature dei suoi burattini sono rimasti nascosti; i bambini lì intorno non avrebbero retto al vedere esposta così chiaramente l’anatomia del loro fantasticare, ritrovandosi tra i piedi i diversi strati delle storie apparse poco prima dietro un sipario di cartone. È proprio una grande fede, quella che, sotto un mucchio di stoffe, genera dieci personaggi al posto di due mani.
L’immagine di Walter non ha nulla a che vedere con la magia che attira i piccoli. Arruffato, tra i lavoratori e i loro labirinti urbani, tra uniformi e coppie distratte, eccolo: un punto deragliato dalla trama delle traiettorie civili, esule in ogni cantone di piazza.
Dopo uno spettacolo, fugge in altre città, più per angoscia sociale che per curiosità, sempre scortato dalle sue marionette. La loro città è la sua borsa. A Walter, invece, ogni luogo sembra una valigia rigida dove non trova posto, nemmeno in un angolo, nemmeno attaccato alla maniglia.
Di fronte a lui una ragazza accarezza il pulsante pedonale. Inocula in quel gesto d’attesa un calore che neppure una sposa metterebbe nella mano del marito sull’altare. L’ombra del corpo di Jenni è lunghissima, sembra sperare di non avere fine. In città il destino è davvero angoloso, si avvera in strettoie o incroci.
Scatta il verde: nel centro del bivio asfaltato cadono di nuovo i pupazzi del pagliaccio, tra le strisce bianche e i tacchi che macinano tutto quello che si lascia calpestare senza urlare.
La sacca avrà un buco, pensa Walter. La ragazza si ferma e raccoglie una testa, una di quelle che ridono anche mentre rotolano, con i capelli rossi di spago che trafiggono un uovo di polistirolo: nella sua mano di donna sembra un frutto, un fungo, qualcosa di dolce, autunnale e inesploso. Lui riporta al suo tronco quella pallina mozza, poi l’avvita veloce.
Jenni domanda (e il labbro inferiore le si mostra capace, sul mento, di un’ombra profonda), chiede chi sia quella parrucca indispettita che non vuole tornarsene dentro: una fata rissosa o una bimba sperduta?

«Una personificazione della Natura» dice Walter, ma la risposta pomposa lo tramortisce: non si svela il segreto dell’arte a un incrocio di strada, soprattutto se intorno suonano trombe d’auto rabbiose.
Si fanno da parte, si danno la mano, lei la ruba a lui, si guardano intorno (perché non si fermano gli altri?) ed eccoli un po’ ad accompagnarsi, un po’ a perdersi insieme. Si dirigono alla stazione: hanno destinazioni diverse, ma forse saranno vicini i binari.
Walter parla dei suoi spettacoli, dei suoi progetti, quasi avesse paura a scambiare con Jenni qualche banalità sul tempo, sulla città che attraversano o su quelle che li attendono. Lei sorride, mezza perplessa, l’altra metà forse in estasi o forse assopita, più rugosa che radiosa.
Senza troppe sbavature o troppi squarci dentro il cuore, i due si abbracciano con fresca competenza; i loro tepori si allargano, come sentieri di una periferia dove aumenta, man mano che si parte, il vuoto e l’erba.

Walter si volta, si guarda alle spalle: è già finito tutto il tramonto. Le ombre che lasciano a terra sbadigliano prima di fondersi alla sera. Quando c’era il sole era più facile evitare di guardarsi.
Arrivano al piazzale della stazione. Lui ripete l’abbraccio. Tra i loro corpi ci sono i pupazzi che li hanno fatti incontrare. Questa volta sono stati loro, quei miscugli di panno e cartone, a creare la storia d’amore, tra le quinte aperte della città: una piccola storia d’amore senza draghi.
«Resti ancora con me, Jenni?»
«Finché non arriva la mia corsa.»
«Ti ho pestato i piedi per abbracciarti, scusa. Vieni qui, sotto i lampioni possiamo vederci meglio».

Lei ama guardare come cammina la gente. Molti costeggiano i margini; i più camminano a coppie e nessuno dei due mantiene il passo originario, è facile farsi influenzare dagli altri. A volte è la borsa a tracolla che detta l’andatura. Ci sono quelli che senza accorgersene imitano il portamento dei piccioni in piazza. Certe camminate poi, lo si vede bene, portano lontano.
«Che fortuna incontrarti oggi. Se non ci fossi stata io, ora avresti più freddo. Non ti sembra?»
«Guarda: sotto i lampioni si abbracciano anche le nostre ombre!»
«Sì, è vero. Ma non ci assomigliano molto. Speriamo di non essere unici».
I passeggeri in attesa sono tutti a coppie: uno parla, l’altro ascolta a occhi semichiusi tra stanchezza e piacere. Una ragazza si tiene la guancia con una mano, mentre l’amica le scalda l’altra; uno prende un libro dalla borsa, un altro glielo sfoglia.

A un uomo mezzo vestito da pagliaccio, una ragazza sta raccontando qualcosa. Si erano già conosciuti, in passato, ne sono certi, pur senza ricordarlo: lo intuivano da una certa necessità delle forme di uno per completare quelle dell’altra. In mezzo a loro il groviglio dilatato della metropoli, quei larghi tratti dove tutti possono passare e frapporsi senza incrociarsi. Per molti avventurosi e memorabili minuti rimasero lì, tra la banchina e la sala d’attesa. Prima di raggiungere i rispettivi binari, ogni passeggero, ogni netturbino, perfino ogni capotreno li aveva notati.
In città, quando accade un miracolo, si voltano sempre tutti i passanti.


Stefano Serri (1980) è infermiere e laureato al Dams di Bologna (Discipline teatrali). Dal 2005 ha scritto alcuni libri: poesia, un paio di romanzi, testi teatrali. Ha tradotto e curato (con Kolibris e Robin edizioni) una decina di libri dal francese, tra (anche qui) poesia, narrativa, teatro. Ha pubblicato alcuni racconti su riviste e antologie, mai in un libro: forse è il momento, dice.