1 aprile 2020, primavera, o così dicono. Dall’étagère di legno assopito nell’angolo si alza una melodia.

Lala, lalalalalala, lalalalalala, lalala… Oltre le tende damascate un accendino illumina il salone, i miei occhi si spostano silenziosi verso di lui.

Dance me to your beauty with a burning violin, lo sento biascicare attraverso il filtro che si appiccica tra le labbra. I suoi baffi affacciati alla grata beige accendono una Marlboro light sulle note di Leonard Cohen al tramonto, mentre l’odore denso di cenere e catrame si impiglia tra le nappe delle tende e corre a morire sui gerani oltre la finestra. Questa è la nostra canzone, non è vero? Claudicanti, le parole sgusciano via, boccoli ondeggiano al ritmo del fumo; io, intatta, lo osservo seduta sul nain al centro del salone.

Dance me through the panic ’til I’m gathered safely in, continua piano, quasi pregando, eppure io lo so che in questo momento la sua testa è una mandorla. Quando è nervoso Louis pensa sempre alle mandorle, me lo ha confessato un giorno innevato di qualche anno fa; nella sua mente, tra le note dei violini e lo zucchero filato, inziano a rincorrersi le mandorle tostate a Montmartre, le mandorle di Natale a piazza Navona, le mandorle di sua nonna strette tra le nocchie ossute vicino al camino, le mandorle dell’albero che i suoi genitori piantarono nel ‘94. Mandorle odorate, inventate, ricordate, dispongono i suoi ricordi in fila indiana e i turbamenti si rimpiccioliscono raggomitolandosi tra le strade di Parigi, Roma, il suo bel paese dai monasteri bianchi; la sua testa, semplicemente, diventa una mandorla.

Lift me like an olive branch and be my homeward dove. Sono 24 giorni che non torna a casa Louis. A metà febbraio era sceso da Milano alla volta del suo paese; poteva continuare in modalità smart working, gli avevano detto. Al Nord il panico si diffondeva lieve tra le Colonne e Parco Sempione, ma nelle campagne dipinte di monasteri bianchi l’epidemia sembrava non valicare i bastioni medievali. A casa Louis era felice; poi, insaziabile, l’8 di marzo era partito per Roma. Per farmi una sorpresa era salito sul treno cantando, accompagnato solamente dalla sua ventiquattrore di cuoio; l’8 di marzo, quando ancora credeva fosse scontato tornare. Ma quando puoi, si sa, non vuoi mai davvero tornare; ci si ricorda di voler tornare solo quando non si può. Una scelta fatta per caso, un impeto, un imprevisto, che alla fine si rivela fato. Più o meno quello che è accaduto a me, tanti anni fa, quando ho lasciato casa mia per questo salone odoroso di legno. È per questo che, ora, dove sono non fa differenza, tanto vorrei non essere ovunque. Non essere ovunque con Louis.

Dance me to the end of love, sussurra al rosso dei gerani sulla mia finestra. Dance me to the end of love, ripeto fissandolo muta, seduta sul nain al centro del salone.

La prima strofa è finita ma i boccoli continuano a dondolare, il fumo si attorciglia tra i baffi, il filtro brucia tra le labbra in movimento. Io lo guardo, impassibile, dal centro del nain. Chissà a quali mandorle pensa ora per colpa mia, forse a quelle dell’albero dai fiori bianchi di Piazza Mazzini; sono mandorle d’inverno quelle, le più difficili da sopportare.

Let me see your beauty when the witnesses are gone. Ci siamo solo noi in questo salone odoroso di legno, tra arazzi e applique di cristallo. Non riesco a staccare gli occhi dai suoi baffi di fumo, la Marlboro ancora brucia ma per un attimo sembra esitare. Si volta veloce, verso di me; sussurra. Spogliati, ti prego. Le mandorle lo stanno mangiando come tarli instancabili, io lo vedo, lo so, vorrei dirgli che davvero lo so; sono l’unica che capisce quando la sua testa diventa una mandorla.

Povero amore, la sera non si colora più di viola dall’8 di marzo. Sei qui, da solo, con me; sono io che ti innervosisco, lo sappiamo entrambi, eppure tu non vuoi ancora ammetterlo. Giochiamo a scacchi? Mi chiedi. No, non mi va, ti rispondo con gli occhi di ghiaccio. Di spogliarti o di giocare a scacchi? sembrano chiedermi i tuoi baffi. Entrambi, forse mi annoia di più sentirti cantare.

Let me feel you moving like they do in Babylon. Non cantare, falla finita. Come reagiresti se lo dicessi sul serio? Sempre efficace e sorridente, ne sono sicura, a questo non sapresti rispondere. Non te lo sei probabilmente mai chiesto, ma io te lo dico lo stesso: no, non mi è mai piaciuto sentirti cantare. Nella vita normale, tra Milano e Roma, parliamo lingue diverse io e te, sentiamo suoni diversi, io e te. Ma qui, nel salone odoroso di legno affacciato su Villa Pamphilj, qui non sentiamo più nulla, eccetto il rumore dei tuoi baffi. Chiusi dietro le grate beige, a me restano solo cristalli ed arazzi, che mi richiamano alla mente altri cristalli ed arazzi, ai quali tu, tu di certo non appartieni. Forse ancora mi ami? I tuoi boccoli lo fanno, io tra mascherine e guanti bianchi, giorni e notti di pigiami e sigarette, io ormai non ti vedo più, o meglio, vorrei non vederti più; sei solo qualcosa che convive con me, 24 ore su 24, e invade il mio tempo. Vuoi provare qualcosa di diverso? Lascia i tuoi ottusi scacchi, ti mostro qualcosa che non conosci. Ti insegno un gioco. Sai, quando non c’eri me l’hanno insegnato in un castello vicino ad Ariccia.

Show me slowly what I only know the limits of. Mi guardi scandendo per bene le parole; io ti rispondo, satura, seduta sul nain al centro del salone. Non vuoi conoscere davvero i tuoi limiti tu, tu che sai solamente inscatolare e ridurre i tuoi pensieri in matrioska, quei pensieri che affronti solo quando diventano grandi come una mandorla. Sei bravo a rinchiudere e a ridurre tutto in scala, talmente bravo che hai creduto di averlo fatto anche con me, ti è piaciuto guardarmi per anni sdraiata sul nain al centro del salone. Ma ingrandire, andare oltre… no, quello non l’hai fatto mai, i tuoi baffi sono sempre stati la tua grata beige, oltre il loro peso non sai cosa ci sia. Vuoi che mi spogli? Questa volta lo farò, ma ti farò provare qualcosa di più. Ti va?

Sì, dance me… dance me to the end of love, rispondi spegnendo la Marlboro sui gerani. To the end of love, ripeto slacciandomi il reggiseno con le mani.

Tu mi hai sempre conosciuto, questo pensi di me: mandorla bianca tra i tuoi fiori bianchi. Dance me to the wedding now, dance me on and on, mi guardavi un anno fa donandomi quell’anello. Credevi davvero ti avrei sposato? Non ci si sposa di certo per tenerezza. Disegnando solo bambole, tu credevi il mondo fosse cosa lontana da me; avrei voluto spiegarti che, riproducendomi in miniatura ogni giorno, nella realtà mi allargavo di più, nella vita sentivo di più, volevo di più. Tu mi lasciavi seduta al centro del salone per fare udienze in tribunale a Milano, pensando che sarei rimasta sempre sul nain fino al tuo ritorno; per te, per sempre lì, a disegnare bambole, a disegnarmi bambola. Anche il giorno dell’anello, secondo la tua testa a mandorla, io ero sempre stata lì, ad aspettarti in stazione. Povero amore, quel pomeriggio mi ero spogliata per altri andando oltre i miei limiti, ma tu, mandorla d’inverno, tu non avresti mai saputo immaginarlo, tu che hai sempre visto il bianco dei tuoi fiori bianchi, mai il rosso dei miei gerani oltre la finestra.

Dance me very tenderly and dance me very long, me lo hai detto anche quel giorno innevato di sei anni fa, quando, a poco meno di vent’anni, mi hai invitato spavaldo alla tua festa di laurea. Roteavano senza sosta gilet di raso e lunghi trench, tu mi guardavi sottecchi e sorridevi alle mie cosce con il tuo Martini liscio tra le mani. Eri all’apice delle tue aspettative, giurista laureato con lode in Sapienza, mentre io gattonavo all’Accademia delle belle arti e mi vestivo da bambola. Mi vestivo da bambola perché alcuni mi volevano così, e a me piaceva soddisfare vezzi e capricci di sconosciuti, ma tu credevi io fossi mandorla bianca e, ruotando sulle note di questa canzone, proprio quella sera mi hai invitato a stare con te, ad amare solo te. Quanta dolcezza in quella spavalderia, amore. Ti ho sempre illuso di essere di porcellana, ma ero ferro e catrame quando tu non c’eri, alcol e denti; ero latex e sangue rosso quando uscivo da casa tua per andare in altre case di arazzi e cristalli, quando uscivo da quella casa che di lì a due mesi avresti lasciato per far carriera a Milano.

We’re both of us beneath our love, we’re both of us above. Sotto, sopra, sotto, sopra. Sarebbe continuato in eterno il tuo amore di mandorla se non fossi venuto a trovarmi senza chiedermelo l’8 di marzo, se non fossi rimasto con me dall’8 di marzo. Non era previsto. Io ti avrei fatto credere ancora un po’ in quella favola di bambole e mandorle, tu mi avresti tenuto in piedi una normalità con i miei genitori. Era indistricabile il nostro amore, né sopra né sotto di noi, una roccaforte perfetta di menzogne che ognuno costruiva a piacimento colorandola dei propri bisogni. Ma ora che sei bloccato nel mio salone di arazzi e cristalli non posso più nascondermi tra i miei modelli e i miei spilli. Vorrei conficcarmeli nella carne e farti godere, ma tu non capiresti. O forse sei pronto? Bloccati in casa senza fine, non mi resta che provare. Facciamo un gioco allora, ti dico sdraiata sul nain al centro del salone. Sopra o sotto, decidi tu, mi regolerò di conseguenza.

Dance me to the end of love, amore mio, dici mentre ti avvicini piano, accarezzandomi una spalla. Dance me to the end of love, rispondo legandoti il reggiseno sugli occhi.

Dance me to the children who are asking to be born. Inizi così a baciarmi appassionato, tentando di profumare l’amplesso di mandorle salate. Staremo insieme per sempre amore, progetteremo i nostri sogni e li faremo nascere come un sol levante; saremo grandi e forti io e te, tra bambole e cause da vincere. Io non ti rispondo nemmeno, mi annoi mentre mi tocchi sdraiata sul nain al centro del salone. Sotto o sopra? Continuo io, ma tu ti ostini a baciarmi ad occhi legati per pensarmi solamente mandorla o bambola. Sotto o sopra? Ti ripeto gelida, senza pietà. Finalmente: sotto, rispondi disarmato. Sorrido tingendomi leggera di rosso. Ottima scelta, Louis; non era propriamente la tua, ma l’importante è che io ti faccia credere lo sia stata. Ecco bravo, sii il mio bambino. Lasciati cullare tra gli arazzi e i cristalli. Proviamo a sentire qualcosa di più, ti porto con me laddove non esistono mandorle, laddove le bambole sono reali. Sì, per oggi sii tu la mia bambola, è ora di interrompere questo tempo senza fine sul nain al centro del salone.

Dance me through the curtains that our kisses have outworn. Rotoliamo tra accendini e nappe beige, vicino ai gerani. Siamo ai piedi delle tende damascate, ti bacio fino a consumarti lo sguardo. Sono stanca di stare a un metro di distanza, stanca delle file ai supermercati, stanca delle mascherine bianche, dei guanti bianchi, delle mandorle bianche; sono stanca di te e del tuo amore di mandorla. Ora è il tempo dei broccati. Sì, ti donano queste tende, si impigliano tra i tuoi boccoli, ridono tra i tuoi baffi… ecco stai buono, voglio provare un angler’s loop con te.

Raise a tent of shelter now, though every thread is torn. Giro, giro, stringo, entro, entro, tiro, stringo. Stringo. Sei al sicuro non temere, non ti amo io, ma la tenda è salda, non c’è che questo broccato tra noi. La tua testa a mandorla si rimpicciolisce tra i fili delle nappe. I fili sono rossi, come i gerani, rossi come i tuoi occhi sotto il reggiseno, rossi come il mio cuore tra gli arazzi e i cristalli. Sei la mia bambola rossa, rotta, legata a me da quest’ultimo filo.

Dance me to the end of love, te lo giuro, Louis.

Dance me to your beauty with a burning violin. Leonard Cohen scrisse questa canzone per il quartetto d’archi obbligato a suonare davanti ai forni crematori, costretto a portare bellezza nelle viscere dell’orrore. Sei come quel violino in fiamme per me Louis, non ti senti meravigliosamente grande per essere una mandorla? Dance me through the panic ‘til I’m gathered safely in. Non avere paura amore mio, è solo un attimo. Ti salvo io da tutte quelle mandorle, ti porto lontano, oltre le tende, ti faccio assaggiare il rosso dei miei gerani bruciati dalle sigarette. Respira piano Louis, è ora che io vada a fare la spesa, altrimenti il supermercato chiude. Con le restrizioni al tramonto non si può più uscire, lo sai. Touch me with your naked hand, touch me with your glove. Infilo la mascherina bianca, i guanti bianchi. Una carezza ai tuoi baffi arrotolati tra le nappe, ai tuoi boccoli persi nel broccato delle mie tende, alle tue mandorle sparse sul nain al centro del salone.

Dance me to the end of love, sei soddisfatto adesso, amore mio? Dance me to the end of love, mi sussurri appena tra le labbra di geranio. To the end of love, te l’avevo detto, povero amore. L’étagère di legno spegne lentamente le sue note, ma tu non mi rispondi più. Arazzi e cristalli impreziosiscono i tuoi boccoli sparsi, nappe rosse tra broccati, reggiseno sugli occhi, baffi sul nain. Ti guardo mentre sistemo le buste per andare. Mi giro sull’uscio della porta per assaggiarti ancora un attimo.

To the end of love, mandorla mia.


Miriam Carcione, nata in una notte di maggio del 1991, è una dottoranda di Italianistica alla Sapienza che si occupa di avanguardie e primo Novecento. Da piccola voleva fare la cantante, la musicista o l’artista ma, ahimè, non ha alcun talento, ed è per questo (forse) che ha iniziato a voler scrivere di chi ne ha. Appassionata di arte contemporanea, di antiquariato, di neuroestetica e di qualsivoglia tipo di sincretismo, è una disordinata cronica che alterna tutto il giorno penna a sigaretta. Nella vita si occupa di scrittori che dipingono, o di pittori che scrivono, ma tutto intorno a lei, anche il suo umore, cambia in continuazione colore.