Il programma della giornata l’aveva stilato come sempre la sera prima e attaccato allo sportello del frigo col magnete. I punti erano evidenziati da pallini di colore diverso: giallo, lavori domestici; rosso, pratiche; blu, spesa; nero, mamma. Nero, vorrà pur dire qualcosa, rifletté. Sua madre non aveva mai vestito di nero, neanche quando era rimasta vedova. Un’usanza antiquata, aveva ribattuto allo zio che cercava di convincerla, non l’ho fatto per nostra madre e non lo farò per mio marito. Trentanove anni, aveva, quasi la sua età adesso. Intinse il biscotto nella tazza di latte ma lo lasciò un secondo di troppo e rimase col moncherino in mano, mentre il resto andava a sbriciolarsi sul fondo. Evelyn avrebbe suonato tra poco, doveva sbrigarsi ad arieggiare la stanza prima che arrivasse, non voleva che sentisse l’odore emesso dal suo corpo durante la notte: sapeva di stantio, di sudore, di urina, di letto disfatto, se ne vergognava come di una cosa intima e lurida, da nascondere.

Spinse indietro la sedia e mise la tazza sporca nel lavello; fu investito dall’effluvio di tonno e cipolla che ancora emanava la padella unta della sera prima; era venuta bene la pasta, anche senza prezzemolo, ne avevano mangiato un bel piatto, cento grammi lui, cinquanta la mamma, e si erano leccati i baffi. Golosa, la mamma, golosissima, riusciva ancora a distinguere un prosciutto buono da uno scarso, era come se il senso del gusto le si fosse affinato nel contempo che il cervello si andava spegnendo. Sostò sulla soglia della camera e la osservò respirare tranquilla, la copertina che si alzava e abbassava con cadenza regolare, un piccolo fagotto di qualche decina di chili prosciugato dalla malattia, poi andò a farsi la barba. Lo specchio del bagno aveva una lampadina fulminata, comprarne una nuova e sostituirla era il punto tre del programma della giornata, pallino giallo. Poi, mentre si guardava un pelo che sfuggiva all’ordinata linea del sopracciglio, si ricordò: l’aveva sognato ancora.
Poteva essere Versailles, o la reggia di Caserta. Una galleria d’oro e stucchi col pavimento a intarsi di marmo e finestroni altissimi affacciati su un giardino alla francese, con aiuole simmetriche bordate da siepi squadrate. La luce era abbagliante, estiva, moltiplicata da enormi specchi che riflettevano l’andirivieni di una moltitudine di persone. Lui andava controcorrente, sgomitando, il respiro tagliato dall’ansia di non farcela, di giungere troppo tardi. Dove, non lo sapeva. Riusciva a farsi largo per imboccare lo scalone di marmo e raggiungere l’uscita. Aveva fretta, fretta, scendeva i gradini a due a due scansando chi si trovava davanti. Poi, lo vedeva, nel pianerottolo tra le rampe, dietro una parete di vetro: il cadavere di Pablo Picasso, completamente nudo, giaceva su un drappo come un Cristo deposto, offrendosi agli sguardi. Il corpo era integro – tranne che per uno squarcio nell’addome – bianco e polveroso di calce come una vittima di bombardamento; lo squarcio esponeva visceri anch’essi bianchi e polverosi, non intaccati dai germi della putrefazione. Il cadavere si stagliava sul fondale scuro del quale si indovinava a malapena la profondità, come un palcoscenico di teatro. Si fermava di colpo e rimaneva ansimante a guardarlo, isolato da tutto il resto. C’erano solo lui e Picasso, col vetro che li separava. Faceva quel sogno ormai da mesi.

Aprì a Evelyn e lasciò che accudisse la madre mentre lui finiva di farsi la barba. Che voleva Picasso da lui, cosa voleva dirgli? Perché continuava a tornargli in sogno, da morto però? Picasso era il genio, il genio assoluto, l’Arte con la A maiuscola. A lui personalmente piacevano di più i giardini di Monet, i papaveri e le giunchiglie che sognava di vedere un giorno a Giverny, ma Picasso aveva lasciato sulla tela qualcosa che fino a quel momento non esisteva, aveva rivelato all’umanità ciò che era invisibile eppure sostanziale. Si interrogava sul significato del sogno senza riuscire a venirne a capo, era forse un richiamo a realizzare il suo desiderio più profondo, ad assecondare la sua vocazione d’artista, finalmente? Gli sembrava troppo grande persino a pensarla, quella parola, artista, ma come chiamare quella parte di sé che trasformava in parole le emozioni, che faceva parlare i sassi e le foglie e i cieli stellati?
Lo distrasse la voce di Evelyn: «Traversine di signora finite».
Già inserito, punto numero uno del programma, pallino nero. Si affrettò a vestirsi, staccò il post-it dal frigo e lo ficcò in tasca, sfiorò con le labbra la fronte di sua madre e fu pronto a farsi inghiottire dalla città.
La prima volta che aveva sognato Picasso ne aveva trattenuto soprattutto la fisicità: le membra robuste, vigorose anche nella morte, il cranio lucido, il volto dai tratti netti, come scolpiti; il membro grinzoso, reclinato sul pube quasi glabro, emanava una sensualità potente come in quella foto a piedi nudi accanto a Jacqueline, intenti ad accennare un passo di danza. Ne era rimasto turbato, come gli avesse rivelato un aspetto di sé di cui provava vergogna. Ma questa era stata solo la prima interpretazione, e la più superficiale; in seguito si era reso conto che il messaggio era un altro, anzi che il sogno ne racchiudeva molteplici. La voglia di scappare, prima di tutto – la fuga lungo le scale – il senso di estraneità – il salone affollato da una moltitudine di volti anonimi. Sentiva, tuttavia, che il messaggio più importante era il dialogo muto con Picasso morto e attese che gli riapparisse ancora per poterlo decifrare.

Era cresciuto sapendo di non avere talenti. Non sapeva disegnare, a calcio era una schiappa, non era neanche portato per la musica, anzi era decisamente stonato. A scuola era mediocre e gli insegnanti si infastidivano per la sua svagataggine. Non aveva mai avuto un amico del cuore, neanche alle elementari, non sapeva accattivarsi nemmeno la simpatia dei parenti, che gli preferivano il cugino di due anni più grande, molto più estroverso. Quanto alle ragazze, rimanevano colpite dalla sua gentilezza e scambiavano la sua taciturnità per profondità di sentimenti, ma quando si rendevano conto che i suoi silenzi non nascondevano nulla, se non disagio, si allontanavano. Così, negli anni, si era coltivato in silenzio e solitudine come un fiore d’alta montagna e come quello era cresciuto resistente al gelo. Gelo aveva patito alla morte del padre, improvvisamente orfano anche di fratelli e sorelle mai nati e che oggi gli mancavano, gelo di infanzia finita per sempre, di madre impietrita e lontana. L’aveva tirato su senza fargli mancare niente, sua madre, e il prendersi cura di lei malata, oggi, saldava solo in parte il conto che la vita usuraia gli presentava.
Aveva scoperto all’età di vent’anni che sciogliere in versi i suoi nodi di sofferenza e ricomporre i propri rottami in poesia lo aiutava a dormire meglio. Lo aveva fatto da allora con dedizione, in segretezza, con un gusto sottile nel celare a tutti il suo animo romantico e mostrarsi razionale, metodico, preciso fino alla pignoleria. Era per questo che Laura lo aveva lasciato. Ne comprendeva le ragioni, ma avrebbe voluto che anche lei avesse compreso le sue. Programmare lo proteggeva dalla paura e dal dolore. Aveva escogitato strategie per tenere sotto controllo ogni cosa e, sopra tutto, le emozioni; lasciava scorrere la sua vita senza aspettative né delusioni, in un quieto adattarsi agli eventi. La malattia della madre lo aveva graziato del tempo necessario per abituarsi dapprima alla sua afasia, poi all’aggressività, infine alla sua assenza, alla solitudine, insomma. Perché non cerchi la felicità? gli aveva domandato una volta Laura. Perché non la meritava, la felicità, ecco tutto. Si accontentava di una vita tranquilla.
Aveva deciso di cimentarsi in un romanzo quando le visioni che affollavano la sua mente erano divenute troppo ingombranti. Lavorava al testo da quasi tre anni, patendo le oscillazioni della sua vena creativa, a volte tumultuosa come una cascata, altre inaridita come argilla al sole. Nel frattempo, non aveva smesso di scrivere curriculum, stilare elenchi di titoli, compilare moduli, presentare domande: aveva fatto tutto il possibile per guadagnarsi un posto fisso e uno stipendio sicuro, e si stupiva egli stesso di come la sua mente riuscisse a dissociarsi in due metà perfettamente distinte e compatibili. Ma non era successo niente, se non l’ennesima convocazione per un orale che non avrebbe superato. Forse gli avevano fatto il malocchio, ma chi? A parte il direttore dell’ufficio postale con cui aveva litigato, per il quale era solo uno dei tanti clienti esasperati che doveva probabilmente affrontare ogni giorno, non riusciva a trovare nessuno – non una fidanzata tradita, un collega invidioso, un parente litigioso – che potesse averlo talmente in odio da volere la sua sfortuna. E questo gli diede la misura di quanto poco contasse nella vita degli altri. Fu una riflessione che lo lasciò basito. Avrebbe voluto essere così importante per qualcuno da valerne almeno un desiderio, foss’anche di malasorte.

Quando rientrò, Evelyn si affaccendava tra starnuti e soffiate di naso, sprimacciando piumoni e montando zanzariere. La primavera aveva portato mosche e allergie. Gli faceva perdere concentrazione, la primavera, troppa luce, troppi profumi. Aprì il file del manoscritto, l’ultima versione risaliva a sei mesi prima. Rilesse le ultime righe e iniziò a digitare velocemente sulla tastiera, forse l’ispirazione era tornata, nonostante i pollini del tiglio fiorito sotto la finestra.
Successe ancora la settimana seguente, ormai il sogno si ripresentava a intervalli sempre più brevi. Il salone degli specchi, lo scalone d’onore, il respiro tagliato dall’ansia, il cadavere dietro il vetro. Aveva qualcosa di sacro e di osceno: questo è il mio corpo, pareva dicesse, prendete e mangiatene tutti. Rompere il vetro e cibarsi del genio, sì, elaborare il prezioso nutrimento per farne trama, parola, racconto; era chiaro ormai, il suo romanzo non poteva più aspettare, aveva urgenza di venire al mondo, di andare in mezzo al mondo. Lasciò il post-it attaccato al frigo e uscì senza meta, camminò per ore, le mani in tasca, la mente altrove, aveva bisogno di schiarirsi le idee per imboccare la strada giusta, e che fosse definitiva, aveva trentacinque anni, ormai, ultimare il romanzo e cercare un’agenzia seria che lo presentasse alle case editrici, solo su quello si sarebbe concentrato e al diavolo i concorsi.
Si sentì pieno di energia come non gli capitava da tempo, respirava a pieni polmoni nonostante l’allergia, si sedette al tavolino di un bar e ordinò una birra, gli era venuta sete. Guardò una coppia che camminava abbracciata, lei aveva un piccolo granchio tatuato sulla caviglia, si sentì felice.
Tornò a casa che era quasi l’ora di cena. Evelyn gli aveva lasciato una raccomandata sul tavolo, la vide mentre disponeva con precisione i piatti e le posate. Aprì la busta e lesse:
Con riferimento alla Sua domanda di partecipazione al concorso indicato in oggetto, si comunica che la S.V., avendo conseguito il punteggio di 36,5/45, si è utilmente collocata fra i primi 10 idonei nella graduatoria di merito. Pertanto, ai sensi dell’art. 3 comma 5 del predetto bando, la S.V. è invitata a prendere servizio…
Appoggiò il foglio accanto alla padella, chiuse gli occhi, tirò un respiro profondo. Poi iniziò ad affettare la cipolla, fece sgocciolare il tonno e gettò la lattina sopra le altre accumulate in una montagnola nella pattumiera. Uno schizzo colpì la raccomandata e si allargò in una chiazza d’unto. Mentre il sugo cuoceva, tritò il prezzemolo e terminò di apparecchiare, quindi spinse la sedia a rotelle in cucina e la sistemò davanti al tavolo. I titoli di coda del telequiz scorrevano sullo schermo in silenzio. Scolò gli spaghetti e gli occhiali gli si appannarono al fiotto di vapore. Il profumo del sugo aveva invaso la cucina. Quando le mise il piatto fumante davanti, la madre lo guardò con occhi acquosi e grati.
«Molte grazie, signore» disse compitamente. «Ci conosciamo?».


Valeria Micale è nata e vive a Messina, dove lavora presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche. Dopo aver pubblicato decine di lavori scientifici su riviste internazionali, ha scoperto che le piace raccontare storie, vere e inventate, e ha cominciato a scriverle. Suoi racconti sono apparsi nel volume collettaneo Caro maschio che mi uccidi, antologia di poesia e lettere romanzate sul tema del femminicidio (Fusibilia Libri, 2019) e sulla rivista Malgrado le mosche.