Nina guardò il marito riflesso nello specchio del bagno davanti a sé. Indossava il completo blu che aveva comprato per l’occasione, la cena al Rotary Club in cui lo avrebbero presentato come nuovo membro. L’abito gli stava bene, ma Nina pensò che una toga nera si sarebbe adattata meglio allo sguardo da giudice che Giancarlo aveva in quel momento. Richiuse il rossetto e si girò verso di lui, in attesa della sentenza.
«La collana, toglila. Non mi piace.»
Nina sollevò un braccio e sfiorò la collana.
«Cos’ha che non va?»
«Troppo sottile. La pietra non si nota neanche. È una collana inutile, tanto vale non indossare nulla.»
Nina abbassò gli occhi a cercare il piccolo topazio.
«Me l’ha regalata mia madre…»
«Che le manchi il buongusto è già assodato. Perle, non hai delle perle?»
Nina scosse la testa.
«Cavolo, tutte le donne hanno una collana di perle», sbuffò il marito. «Sarà necessario comprarne una. Ma ci penseremo dopo». Batté una mano sullo stipite: «Su, andiamo. Alexa, spegni luci bagno».
Nina si mosse controvoglia.
«Potevi almeno aspettare che uscissi.»
«Dai, Nina, abbiamo fretta. E poi fallo un sorriso, sembra che ti stia portando in tribunale.»
«Non è forse là che andiamo?», mormorò lei.
Ma Giancarlo fece finta di non sentire, come sempre.
«Prendi il cappotto e aspettami davanti al portone. Io vado a prendere la macchina.»
Nina guardò la schiena del marito che si allontanava verso la porta d’ingresso. Da dietro, era lo stesso di sempre.
«E ricordati di spegnere le luci», sentì che le diceva ancora, prima di uscire.
Accostò davanti al condominio, ma non trovò Nina. Infilò la mano nella tasca della giacca per prendere il cellulare e chiamarla, quando la vide a qualche metro dal portone, intenta a chiacchierare con uno sconosciuto dai tratti asiatici. A occhio e croce, l’uomo mostrava una settantina d’anni. Il cappotto grigio che indossava aveva un taglio sartoriale. “Un turista che si era perso in quel quartiere residenziale”, pensò subito Giancarlo. Eppure c’era qualcosa che gli fece credere che la moglie conoscesse già quell’individuo. La distanza. Erano troppo vicini. Si mise a osservarli. Nina stava raccontando qualcosa all’uomo che la ascoltava serio, le braccia distese lungo i fianchi. Poi Nina tacque e le labbra dello sconosciuto si mossero. Giancarlo vide la moglie sorridere e scuotere la testa, come se l’altro le avesse detto qualcosa che non era possibile, ma che le sarebbe piaciuto. Gli sembrò che una mano dell’uomo si stesse alzando per andare incontro a Nina e premette a fondo sul clacson. Lei si girò e vide la macchina. Fece un cenno di saluto all’uomo e, veloce, si diresse verso Giancarlo. Il sorriso era scomparso.
«Chi era quello?» chiese, mettendo in moto.
Nina allacciò la cintura prima di rispondere.
«Il signor Hideyoshi.»
«E chi sarebbe?»
«Uno dei nostri vicini. Abita sotto di noi.»
«E quando vi siete conosciuti? O sei andata a bussare a tutte le porte per presentarti?»
«Non ho bussato a nessuna porta.»
«Con te non si sa mai.»
Nina restò zitta.
«Quindi?» insistette il marito.
«Quindi cosa?»
«In che circostanze vi siete conosciuti?»
«In circostanze normali.»
«Nina, smettila! Ti ho fatto una domanda, rispondi.»
«Vostro Onore, vorrei il permesso di rivolgere una domanda all’imputata.»
«Finiscila.»
«Vorrei sapere in che circostanze l’imputata e il signor Hideyoshi si sono conosciuti. Giancarlo, non sei a lavoro.»
Vide il marito lanciare un’occhiata dalla sua parte. Con una sterzata brusca si accostò al marciapiede e fermò l’auto. Ruotò il busto verso di lei e Nina sentì una stretta sull’avambraccio. La faccia del marito era a pochi centimetri dalla sua.
«Nina, devi finirla, hai capito?»
Parlava a bassa voce.
«Non ho detto niente…»
Il marito le strinse l’avambraccio con più forza.
«Lasciami!»
Provò a liberarsi, ma non ci riuscì.
«E non urlare. Vuoi che ci sentano?»
Giancarlo fece un cenno a indicare alcuni passanti.
«Tu lasciami…»
«Ti lascio se mi prometti che smetti di fare la stupida. Capito?» Nina chiuse gli occhi. «Capito, sì o no?»
Li riaprì e fece un cenno di assenso. Il marito le lasciò il braccio.
«E asciugati quelle due lacrime che ti rovini il trucco.»
Rimise in moto e ripartì.
«Io davvero non so cosa ti passa in quella testa», il marito parlava guardando la strada. «Perché non riesci a essere felice per me? Vinco una causa contro uno degli avvocati più in vista…»
Nina si mise a osservare i lampioni scorrere di fianco a loro.
«… mi offrono un posto nello studio più importante della città…»
Uno.
«… guadagno il triplo di prima…»
Due.
«… ho la possibilità di fare carriera…»
Tre.
«… magari diventare socio dello studio, un giorno…»
Quattro.
«… tutto sembra girare per il verso giusto…»
Cinque.
«Ti porto anche a vivere in un condominio nuovo di zecca…
Sei.
«… e tu, cosa fai?»
Nina vide svolazzare qualcosa di nero attorno al settimo lampione. Si girò per riuscire a vederlo meglio.
«Cosa fai, Nina? Mi ascolti?»
Dopo aver volteggiato attorno alla luce, la sagoma scura si era diretta veloce verso il lampione successivo e Nina la osservò ancora.
«Nina!»
Il richiamo del marito la riportò dentro l’abitacolo.
«Che cazzo guardavi?»
«Un pipistrello.»
Con la coda dell’occhio, Nina cercò di nuovo l’animale, ma non ne vide più traccia e tornò a guardare davanti a sé, stavolta la linea bianca che correva senza interruzioni al centro della carreggiata.
«Assurdo…»
Colse un’oscillazione della testa del marito, ripetuta.
«Assurdo… io ti parlo di noi e tu ti metti a guardare un cazzo di topo con le ali?»
La macchina procedeva sull’asfalto, all’interno delle due linee bianche e continue.
«Non ti capisco. Cosa c’è che non va? Dovresti essere contenta e invece sai soltanto lamentarti. Lavoro troppo, la casa non ti piace, i mobili che ho scelto neanche… com’è che hai detto? Ti sembra tutto senza anima. Anche il quartiere, troppo scomodo…»
La linea centrale appariva un po’ sbiadita in alcuni punti.
«Te l’ho già ripetuto: cercati un altro lavoro se non vuoi fare due ore di macchina al giorno. Oppure lascialo. Puoi fare altro.»
Un’auto verde sfilò sulla carreggiata opposta.
«Magari posso informarmi con quelli del Rotary. Certo, non subito, prima serve che faccia qualcosa io, ma tra qualche mese potrei chiedere anche per te, potrebbero aiutarti a cercare un altro lavoro o segnalarti a qualcuno… tanto è così che funziona: io faccio un favore a loro e loro ne fanno uno a me.»
Giancarlo si interruppe. La linea era diventata tratteggiata e lui ne approfittò per superare una macchina.
«E di dov’è quel Yoshi?» chiese dopo qualche minuto.
Nina smise di guardare la strada e si girò verso il profilo del marito.
«Hideyoshi.»
«Hideyoshi, d’accordo. Di dov’è?»
«Giapponese.»
«Ah», Nina notò un interesse diverso nel tono del marito. «E cosa fa qua?»
«Ci vive.»
«Cavolo, Nina… Questo l’ho capito. Ti sto chiedendo che lavoro fa.»
«Ha un negozio.»
I fari rossi dell’auto che li precedeva si illuminarono e Giancarlo frenò. Si trovarono fermi davanti a un semaforo.
«Si può sapere che negozio o è un segreto?» chiese girandosi verso la moglie.
«Un negozio di antiquariato.»
Sul viso del marito comparve un’espressione di sorpresa.
«Ed è venuto dal Giappone per mettersi a vendere roba vecchia in Italia?»
Poi Nina vide le sopracciglia di Giancarlo avvicinarsi.
«Non ti mettere in testa di portarmi a casa del vecchiume, capito? Lo sai che non mi piace quella roba.»
«Lo so». Funzionalismo ed essenzialità, ecco cosa piaceva a Giancarlo. Nina lo sapeva. Ci viveva dentro.
Il semaforo diventò verde.
«Siamo quasi arrivati. Nina, mi raccomando». E non aggiunse altro.
Alla cena, Nina si accorse che lui aveva ragione: tutte le donne presenti avevano una collana di perle.
Passò l’inverno, arrivò il ventisette marzo e Nina compì trentacinque anni.
«Dai, non fare quella faccia offesa, se ci tieni ti porto a cena sabato», le disse Giancarlo. Era rientrato tardi anche quella sera.
«No, non importa.»
«Potevi dirmelo che volevi festeggiare. L’anno scorso non ho festeggiato neanche i quaranta, lo sai che queste cose per me non sono importanti.»
Allentandosi la cravatta, si sedette sul divano accanto alla moglie e le sfilò il telecomando dalle mani. Premette un tasto e lo schermo diventò nero.
«Dove vuoi che ti porti sabato? Scegli tu. L’Osteria Gucci? Che ne pensi? Sai che volevo andarci, è l’occasione giusta, che ne dici?»
Nina scosse la testa.
«Non importa. Mi avrebbe fatto piacere cenare con te almeno stasera, ma non preoccuparti.»
Giancarlo si alzò.
«Sai cosa sei? Una bambina. Come se stasera o le altre sere andassi a divertirmi. Lavoro, Nina.»
«Non sapevo che anche gli aperitivi fossero lavoro.»
«Vedi che non capisci? Ci sono andato con i miei colleghi. E sai di cosa abbiamo parlato? Di lavoro. Vado a farmi una doccia, sono troppo stanco per discutere con te. E poi è inutile.»
Giancarlo prese ad attraversare il salotto, ma si fermò accanto alla libreria.
«E questo? Un regalo?» chiese indicando una scatola bianca su un ripiano con un nastro verde di fianco. Sollevò il coperchio: un vecchio orologio a pendolo.
«È orribile.»
«A me piace.»
Si girò sorpreso verso la moglie.
«Sei seria?»
«Quand’ero piccola, mia nonna ne aveva uno uguale. Mi piaceva aspettare che l’uccellino uscisse fuori dalla casetta.»
«E chi te l’ha regalato? Tua madre? È venuta qua, oggi?»
«No.»
«E chi?»
«Il signor Hideyoshi. L’ho visto nel suo negozio, sapeva che mi piaceva.»
«Mi sembrava di essere stato chiaro. Non voglio questa roba in casa. Domani andrò a riportarglielo.»
Nina riprese il telecomando e riaccese la TV.
«Fai come vuoi.»
Giancarlo posò la scatola bianca su un bancone di legno, appoggiò le mani di fianco e guardò il signor Hideyoshi. Vide le sopracciglia grigie dell’uomo unirsi. I capelli corti, a spazzola, avevano lo stesso colore.
«Sono venuto a restituirle questo.»
«Pensavo che a Nina piacesse.»
«Pensava male.»
Gli occhi scuri del giapponese si abbassarono sulla mano sinistra di Giancarlo poggiata sul bancone.
«Lei è il marito, giusto? Non ci siamo mai incrociati anche se viviamo nello stesso palazzo. Orari diversi, credo.»
«Io lavoro molto.»
«Già. E da quanto siete sposati?» Il giapponese indicò la fede che Giancarlo portava. «Mi sa che non l’ho mai chiesto a Nina… o forse sì, ma sa… comincio ad avere un’età», aggiunse, sorridendo.
«Sette… no, otto anni.»
Vide il giapponese annuire.
«Quindi lei conosce sua moglie molto meglio di me. Allora certo, mi riprendo questo regalo. E le chiedo scusa per il disturbo che le ho procurato. Non era mia intenzione. Si è anche dovuto scomodare per riportarmelo.»
L’uomo giunse le mani davanti a sé e Giancarlo lo vide fare un inchino. Ne fu sorpreso, aveva creduto che l’altro avrebbe reagito in maniera diversa vedendolo comparire con il regalo da restituire. Poi, l’uomo risollevò la schiena, disgiunse le mani e le ruotò davanti alla faccia, come a mostrarle a Giancarlo.
«Vede? Io non indosso nessun anello, non mi sono mai sposato. Com’è quella formula che si usa? Finché morte non vi separi… eh, credo che sia quella frase ad avermi sempre spaventato. Mi sono detto: e se scelgo male e devo restare sposato con una persona che poi si rivela diversa da quella che credevo? A quel punto avrei dovuto aspettare la morte per separarmene.»
«Esiste il divorzio», disse Giancarlo. Quell’uomo gli stava facendo perdere tempo.
«Già, è vero. Ma sa, per divorziare ci vuole coraggio. E non sempre lo si trova.»
«Le assicuro che lo trovano in molti. I miei colleghi divorzisti potrebbero confermarglielo. E ora, se permette, devo andare.»
«Aspetti un attimo.»
Giancarlo sentì la mano dell’uomo posarsi sul suo avambraccio.
«Volevo mostrarle una cosa.»
«Senta, ho fretta», rispose cercando di liberarsi, ma percepì le dita dell’altro che si stringevano.
«Farò presto. Mi creda, vale la pena che lei veda». Sorridendo, il giapponese lasciò la presa. «Mi aspetti qua, torno subito».
Giancarlo lo vide scomparire dietro una porticina alle sue spalle. Si sarebbe potuto voltare e andare via e invece restò dov’era e si guardò attorno. Le pareti erano occupate da scaffali di legno scuro stracolmi di oggetti che appartenevano al passato. Non c’era nulla che attirasse la sua attenzione, tutto gli sembrava vecchio e inutile.
«Senta, signor Hideyoshi, devo andare, è tardi», disse ad alta voce.
«Un attimo, un attimo, forse è meglio che venga lei qua.»
«Mi dispiace, ma ho fretta. Mi farà vedere la prossima volta.»
Andò verso la porta d’ingresso, abbassò la maniglia, ma la porta restò chiusa. Riprovò.
«Come diavolo si apre questa porta?» urlò, ma non ricevendo risposta, tornò di nuovo verso il bancone.
«Come si apre quella porta?» urlò ancora.
Stavolta sentì la voce del giapponese.
«Quella d’ingresso? È un po’ difettosa, gliela apro io tra poco. Ma prima venga qua.»
«Senta, non ho tempo da perdere!», urlò ancora, girando attorno al bancone e aprendo la porticina. «Dov’è?», chiese, guardando dentro la nuova stanza. Si trovò davanti a colonne e muri di libri. «Venga ad aprirmi!»
«Sono qua dietro.»
La voce era vicina. Gli sembrò che provenisse da dietro ai libri affastellati al centro della stanza quasi a formare una parete, ma quando arrivò là non vide traccia del signor Hideyoshi.
«Non là, sono dietro la porta che ha di fronte. Venga, su.»
Giancarlo si accorse della nuova porta davanti a lui.
«Non mi piace questo giochino. Mi faccia uscire subito…», ma non rispose nessuno e così si diresse verso la nuova porta.
La stanza successiva era piena di orologi, appesi alle pareti o gettati alla rinfusa a coprire il pavimento, ma anche qua il signor Hideyoshi non c’era. A Giancarlo sembrò che tutti i ticchettii si unissero a crearne uno unico e insopportabile e si accorse che tutti gli orologi sui muri segnavano orari diversi. Davanti a lui, in fondo alla stanza, trovò un’altra porta, ma si girò verso quella che aveva alle spalle. Si era richiusa senza che lui se ne accorgesse. Provò ad aprirla.
«Ma cosa fa? Come se non sapesse che nella vita si può procedere soltanto in avanti. Venga di qua», disse la voce del giapponese.
«Chiamo la polizia!», latrò Giancarlo, infilando la mano nella tasca della giacca. Afferrò il cellulare, ma vide che non c’era campo. Però le chiamate di emergenza si potevano fare anche senza. Prese a premere i tasti, ma non comparve nulla sul display. Provò a pigiarli con più forza, ma non cambiò nulla.
«Eh, questi aggeggi elettronici. Si rompono sempre quando non dovrebbero. Le consiglio di attraversare la porta e non perdere altro tempo. Non mi diceva che aveva fretta?»
«Ma chi diavolo è lei?», strillò Giancarlo e per la rabbia lanciò il cellulare contro una parete. Colpì un orologio. Lo vide oscillare, staccarsi e cadere a terra, su un cumulo di orologi da polso. Volarono pezzetti di vetro e lancette.
«Eh, ma lei, così, il tempo me lo ammazza. Non le conviene, mi creda.»
Giancarlo guardò la nuova porta. Si sentiva stanchissimo, logorato. «Se la prendo…», gli uscì una voce rauca, stavolta. Prese a camminare, senza curarsi degli orologi che aveva sotto i piedi e che sentiva rompersi a ogni passo.
«Lei proprio non si cura del tempo.»
La voce gli arrivò vicinissima. Giancarlo abbassò la maniglia ed entrò nella terza stanza. A sinistra vide una montagna di pentole di dimensioni varie, da pentoloni enormi a piccoli bricchi. Sul lato opposto, notò un’altra montagna, ma di coperchi. Di fronte, invece, un’ennesima porta.
«Non ho mai avuto un buon rapporto con i coperchi», disse la voce del giapponese con un sospiro. «Le devo chiedere una cortesia. Sarebbe così gentile da trovare il coperchio giusto per ogni pentola? Però le consiglio di fare in fretta.»
«E se mi rifiuto?», Giancarlo si sorprese della sua voce debole.
«Resterà là dentro. L’ultima porta non si aprirà finché non avrà finito. Veda un po’ lei cosa preferisce.»
Giancarlo avrebbe voluto stendersi, riposarsi, ma cominciò a fare quanto gli era stato chiesto. Avvicinò pentole e coperchi, li osservò, li misurò, li provò. Ogni volta che trovava l’abbinamento giusto, emetteva un sospiro. Se gli avessero chiesto cos’era l’eternità, avrebbe risposto che corrispondeva a quella successione di sospiri. Dopo l’ultimo, guardò la porta e si mosse verso di essa. Si sentiva incerto sulle sue stesse gambe, quasi che queste si rifiutassero di sostenerlo. Con fatica, si trascinò verso la maniglia.
Davanti a lui, seduto sul bancone, vide il signor Hideyoshi.
«Certo che ce ne ha messo di tempo… Venga, si avvicini, le mostro finalmente quello che volevo farle vedere.»
Giancarlo fece un altro passo. Tra le mani di Hideyoshi comparve uno specchio da toeletta. Tenendolo per il manico, il giapponese lo girò verso di lui e Giancarlo vide l’immagine di un uomo vecchissimo. Alzò le mani per portarle al viso e toccarsi le guance e vide che anche il vecchio nello specchio toccava le sue e seguiva, come lui, i solchi delle rughe con i polpastrelli.
«Venga, l’accompagno a casa», disse il signor Hideyoshi. Con un salto scese dal bancone, si accostò al vecchio e lo prese sottobraccio. «Nelle condizioni in cui si trova impiegherebbe le sue due ultime settimane solo per raggiungerla.»
Graziana Patanè è siciliana, ma vive a Pisa. Laureata in Lettere moderne, crede che i libri siano i migliori amici delle donne (ma anche degli uomini). È miope, ma non è certa che sia questo il motivo per cui il mondo le appare spesso distorto e sfocato. Odia le forme sclerotizzate e i ragni. Ama Buzzati, la cioccolata, i sogni e i sognatori. Suoi racconti sono apparsi su Enne2, Malgrado le mosche e nella raccolta Typeebook 2022 (Belleville).