Il secondo weekend di giugno, ovvero il primo weekend di libertà, Luisa sarebbe partita con i suoi genitori, come ogni anno da che avesse memoria, per una settimana a casa dei nonni paterni. Il nonno e la nonna vivevano ancora nel paese natale di suo padre, nella vecchia casa di famiglia, dalla quale traspariva, anno dopo anno, con sempre maggior chiarezza, una certa inclinazione genealogica a procrastinare le faccende pratiche. Certo, dopo tredici anni, quella non era più la vacanza che Luisa avrebbe sognato ma, quanto meno, il fatto di trovarsi in una casa con un grande giardino le avrebbe dato l’occasione di sgattaiolare fuori ogni volta che avesse voluto (bastava portarsi un libro in mano), per riuscire a stare per conto proprio, senza suscitare sguardi troppo invadenti su di sé. Intanto, il papà avrebbe, come sempre, cercato di aiutare il nonno a riparare qualcosa ma, già si sapeva, senza successo: alla fine, come ogni volta, entrambi sarebbero riemersi dall’officina sporchi di grasso fino ai gomiti, dicendo che bisognava chiamare qualcuno, perché il loro progetto di riparazione si era rivelato più esigente del previsto. La mamma, dal canto suo, avrebbe trovato qualsiasi occupazione che potesse aiutarla a riconfermare la sua buona immagine agli occhi della nonna; era questa la sua unica preoccupazione.
Così, il venerdì mattina, come programmato, Luisa, seduta sul pavimento della sua stanza, aveva cominciato a raccogliere: due libri, un quaderno, una matita e una penna, ovvero gli oggetti essenziali delle occupazioni solitarie che quella breve vacanza le prometteva. Poi, per le occupazioni non solitarie, ovvero gite con i genitori, o coi nonni, o con i genitori e i nonni: un cappello di stoffa, il costume da bagno e la scatola che avrebbe finalmente aperto, certa che, dopo mesi, fosse arrivato il momento giusto per indossare la sua collana.
La collana era stata un regalo di Ottavia. Era una collana fatta di fili di stoffa e perline di vetro e più grosse gocce di madreperla. Luisa non l’aveva ancora mai indossata, se non qualche volta, certo, quando si era trovata da sola in casa e, girovagando per le stanze e il salotto, si era messa a fantasticare di camminare sorridendo per strada e di essere riconoscibile a tutti anche da lontano; una ragazza con la sua collana. Eppure, riempiendo il suo borsone, Luisa non era nemmeno sicura che questa sarebbe poi stata la volta buona per indossarla. Di certo, non sarebbe successo sotto allo sguardo di sua madre che ultimamente non faceva che tenerla d’occhio e, specialmente poi, in presenza della nonna.
A conti fatti, dopo ciò che aveva visto accadere intorno a sé durante i suoi tredici anni, come sarebbe trascorsa la settimana a venire era presto detto.

Ottavia, invece, la sua migliore amica, tornava ogni anno dalle vacanze piena di storie e di nomi nuovi che, però, scomparivano dai suoi racconti nel giro di qualche settimana. Anche Ottavia partiva per le vacanze con i suoi genitori, ma le sue vacanze erano diverse: Luisa fantasticava che si svolgessero persino su un altro pianeta, dove tutto era lecito e dove genitori e figli mai facevano questioni. Poi, a settembre, Ottavia tornava sempre a scuola piena di ninnoli e di ciondoli colorati che le pendevano da tutte le parti: dalle orecchie, dai polsi e, soprattutto, dal collo. I ciondoli le pendevano leggermente sul petto, lo adornavano, lo colorivano. Ne rendevano il respiro leggero e spensierato.
Luisa la guardava di sottecchi, rubava la visione di quei ciondoli sul petto solo quando Ottavia non poteva notare: quando si voltava altrove, quando inclinava la testa per cercare qualcosa nella sua borsetta, quando sollevava il mento per bere gioiosamente l’ultimo sorso. Quando, alla fine, gli occhi di Ottavia tornavano alla conversazione e si fissavano di nuovo negli occhi di Luisa, lei fingeva di non aver notato nulla, riprendeva a parlare con aria distratta.
La prima volta che Ottavia si era presentata da lei indossando la collana, Luisa era rimasta esterrefatta. All’inizio si era sentita tradita: lei non possedeva nessuna collana e loro due, amiche da sempre, non avevano mai discusso del desiderio di acquistarne una. Guardando l’amica, Luisa aveva realizzato, per la prima volta, che qualcosa stava cambiando; che fra sé e Ottavia si metteva di mezzo qualcosa di nuovo e che la collana, davvero, aveva su di sé un potere. Non si trattava di un potere invisibile o magico, bensì di un potere concreto, materiale persino. La collana era una cosa che, a possederla, ti metteva qualche passo avanti, ti liberava da dilemmi infantili, dal rossore sulle guance di chi deve, forse invano, attendere un permesso.
Guardando l’amica, Luisa percepiva che Ottavia, con i suoi ciondoli di madreperla al collo, stava diventando. Ottavia camminava a testa alta verso il mondo, cioè verso la vita adulta; era fiduciosa, serena e sapeva, senza dubbio sapeva, che ogni giorno si sarebbe conquistata un pezzetto di quello che, del resto, naturalmente le spettava. Luisa, invece, stava indietro, e al solo pensiero sentiva il groppo in gola, gli spilli negli occhi e le mani che le diventavano molli di sudore. La frattura fra sé e Ottavia, cioè fra sé e quelli che facevano inconsapevolmente parte di ciò che chiamava gli altri, fra poco non sarebbe più stata sanabile. Da quel giorno in poi, dal giorno della collana, per lei sarebbe stato sempre così. Di certo i dolori piccoli erano sempre i più logoranti e le minuscole insofferenze o imposizioni erano quelle capaci di generare i rovelli più tenaci. Questo Luisa aveva capito quel giorno, e scritto anche nel suo diario.
Quel pomeriggio, immancabilmente, Ottavia le aveva chiesto: Allora, che te ne pare? Non era nemmeno propriamente vanità, Ottavia non era così, non poteva essere così. Per Ottavia non era una gara; per lei, le cose, tutte quante, avevano altro peso.
Anche quando Luisa le rispose, in un impeto di desiderio, che la collana era stupenda, Ottavia disse che non era nulla, un piccolo capriccio estivo. Lo ribadì persino con un’alzata di spalle. Ottavia sorrideva, in pace, e beveva il succo di frutta sporgendo gli incisivi bianchissimi sul bordo del bicchiere.
Fu il giorno dopo che Luisa ricevette la sua, di collana. Aprendo il pacchetto capì subito di cosa si trattasse e gli occhi, velati di incredulità, quasi le impedivano di guardare distintamente i ciondoli, i fili, i colori. Si pensò fortunata ad avere ottenuto una così grande prova di amicizia, insieme alla collana che, per un’intera notte, aveva creduto essere l’unica cosa desiderabile della terra.
La prima prova del potere effettivo della collana si ebbe quel pomeriggio stesso, quando Luisa e Ottavia, fuori dal cancello della scuola, incontrarono i maschi. I maschi non parlavano molto, ma soprattutto non parlavano mai con le femmine; si limitavano, al loro passaggio, a ridere di cose che solo loro sapevano. Ridevano di risate scomposte e con suoni di gola. Quando i maschi ridevano, e si davano pacche sulle spalle, pareva sempre che si stessero incitando, gli uni con gli altri, a fare e a dire di più, forse proprio a essere cattivi. Alla fine, invece, non facevano mai niente, non c’era niente da temere da loro, e così Luisa e Ottavia avevano imparato a lasciarli ridere. Quel pomeriggio, invece, le risate dei maschi erano state risparmiate e, al loro posto, voci mai sentite prima si erano levate dalle loro bocche per salutare le ragazze. Tenendosi a braccetto, Luisa e Ottavia avevano gentilmente ricambiato; poi, svoltato l’angolo, erano esplose in un’enorme risata. “È vero”, pensò Luisa, “avere una collana davvero cambia le cose”. Dopo, le amiche si erano salutate.
Soltanto un momento più tardi, quel pomeriggio, avviandosi verso casa, Luisa aveva analizzato il suo problema: avrebbe dovuto mostrare la collana a sua madre. E sua madre, si capiva, non le avrebbe mai fatto acquistare nulla di simile. Luisa le avrebbe detto solo Ho avuto un regalo, con la voce con cui si dice Ho fatto due passi, ho bevuto un’aranciata, ho salutato il portiere. Avrebbe fatto la voce delle cose normali; poi, avrebbe lasciato il pacchetto sulla credenza, in cucina, come a mostrare di non curarsene.
Per tutto il tempo che era stata chiusa in camera, in attesa che la cena fosse pronta, Luisa aveva desiderato avere il pacchetto fra le mani e toccare la collana e magari provarsela di nascosto in bagno, dato che, al contrario di Ottavia, lei non aveva uno specchio in camera.
A cena andò meglio di quanto si aspettasse. Sua madre, lapidaria, fu la prima a parlare della cosa: Ho visto il regalo. Per quale occasione sarebbe? Luisa deglutì, preparò nella gola la sua voce delle cose normali, rispose: Per nessuna occasione. È un regalo di amicizia. Guardava il minestrone caldo e ci si specchiava il mento.
No, volevo dire – stava cominciando la battaglia? Ma una battaglia per cosa? – volevo dire in che occasione intendi indossarla, la collana?
Sua madre la prendeva in giro. Per farsi forza, Luisa pensò al sorriso rassicurante di Ottavia, alla sua fronte liscia, non increspata, sulla quale, tornata a casa, si posavano le carezze di entrambi i suoi genitori. Ottavia indossava la collana tutti i giorni, senza aver bisogno di occasioni speciali. Per Ottavia era diverso. A questo pensiero, però, Luisa si vide tremare il mento, riflesso nel minestrone, e alzò le spalle. Dopo cena, filò dritta in camera sua, dove scrisse una pagina di diario felice e triste: così era stato il giorno della collana.

Quando a giugno Luisa si fece coraggio e infilò la collana nel suo borsone da viaggio, era dimentica di come fosse andata l’ultima volta. “È estate!”, pensava, tenendo stretta l’intuizione che l’estate fosse in fondo quel posto dove niente è più proibito – o, almeno, dove sono proibite meno cose. E continuava a persuadersi, con questa storia dell’estate; con un tremolio acquoso nelle iridi si avventurava persino a pensare: “Questa è l’estate di una ragazza e la ragazza sono io”. Quel pensiero, quel suo pensarsi ragazza – come tutte le volte in cui aveva passeggiato da sola in casa, con la collana indosso – seppur con una sorta di tremore, le infondeva coraggio e fiducia.
Pensava anche, però, e con franco dispiacere, che Ottavia aveva ormai indossato la sua collana tanti mesi prima, per la prima volta, e che adesso, di certo, se ne era stufata e doveva averla riposta nel cassetto, dimenticandosene e andando alla conquista di altro. Pensava anche, con gioia definitiva, che comunque, per lei, quella sera stessa, alla cena coi nonni, sarebbe stato il primo vero giorno della collana.

Il primo giorno della collana fu però anche l’ultimo. Accadde nello stesso giorno che Luisa si allacciasse la collana dietro al collo e che la collana le venisse strappata via, esplodendo nell’ingresso di casa in mille colori, come un sogno troppo bello per essere vero. Successe appena un momento prima che si uscisse di casa, anzi, il papà era già uscito, e sarebbe bastato che Luisa non si facesse vedere da sua madre fino all’arrivo a casa dei nonni. Se anche sua madre si fosse resa conto dopo, del fatto, di certo non avrebbe avuto il coraggio di cominciare un litigio davanti alla nonna, o anche solo di farle intuire che ci fossero dei contrasti fra madre e figlia.
Tesoro, non ti presenterai a tavola con quella, vero? Così vuoi farti vedere dai nonni? Tentava un tono tenero e assertivo, che – si sapeva già – avrebbe raggiunto tonalità ben più accese nel giro di una manciata di secondi. Chiamare in causa i nonni, poi? La nonna portava milioni di collane, madonnine e crocette di tutte le fogge e dimensioni, mentre il nonno difficilmente si sarebbe accorto di qualcosa.
Fingendo distrazione, come sbadata, Luisa tentò ancora la sua voce delle cose normali: È solo una collana! e, come a confermare ulteriormente l’inezia della cosa, aggiungeva, a ripetizione, a giustificazione, a protesta: È un regalo di Ottavia!
Le cose che piacciono a Ottavia vanno bene per Ottavia. Toglila e non farmi ripetere. Luisa odiava far ripetere sua madre, quel suo potere la faceva tremare, così ogni volta lei batteva in ritirata, ma stavolta non poteva. Stavolta c’era il suo potere contro quello della collana che le imponeva di non battere ciglio, di restare là dov’era senza muoversi, stracciando la tentazione di dirigersi veloce in camera a riporre la collana, e di archiviare l’accaduto come uno stupido capriccio.
Così, senza che lei avesse neppure il tempo di rendersene conto, ecco che la collana era saltata, tirata via, esplosa, scomparsa. Durata pochissimo, finita. Adesso la collana era ovunque, tranne che al suo posto. Pur con le lacrime negli occhi, Luisa non si rivoltò e imboccò la porta di casa senza dire una parola, né incrociare gli occhi della madre.
Per tutto il tragitto verso le casa dei nonni, Luisa, seduta al centro sul sedile posteriore dell’auto, si conficcava le unghie nel palmo, stringendo pugni fortissimi dentro alle tasche del vestito; però, aveva unghie troppo corte, e così, invece che il palmo, non faceva che ferirsi a sangue i polpastrelli.
A cena Luisa sedette di fronte ai nonni, posizionata fra la mamma e il papà. La tavola era stata apparecchiata nel giardino dei nonni, sul tavolo di pietra che aveva le gambe incollate sull’acciottolato ruvido. La mamma sembrava aver già dimenticato il litigio di poco prima, mandato giù come una pastiglia – come si poteva? – e apriva larghi sorrisi davanti alle domande della nonna. A tutte le domande, anche a quelle sugli studi di Luisa, rispondeva sempre lei. Così, mentre la conversazione proseguiva, la nonna aveva ormai cessato di rivolgere qualunque domanda alla ragazzina, elargendole solo, di tanto in tanto, qualche sorriso d’approvazione.
Luisa pensava alle perline, ai colori, ai fili, alla gioia di tutto ciò, e al fatto che ancora, com’era sempre stata, lei continuava a essere una ragazza senza la sua collana. Cos’era una ragazza senza la sua collana? Con questo pensiero, un’agitazione sempre maggiore bruciava Luisa da dentro, le chiudeva lo stomaco al punto di non permetterle più di deglutire. Aveva smesso di mangiare, ma nessuno se n’era accorto. Pensava che si trattasse del potere della collana, che continuava ad agire senza che gli altri potessero più impedirlo, o contrastarlo in alcun modo. Esaltata dal pensiero, accecata dalla luce di un punto lontano e pieno di colori, Luisa fu presa da una voglia di sbattere i piedi e muovere convulsamente le gambe. Forse da una voglia di correre lontano; ma, intanto, non si poteva. Eppure, lei immaginava di farlo, aiutando il pensiero col movimento incessante delle ginocchia e sfregando velocissima le punte delle scarpe sull’acciottolato. Erano le scarpe che sua madre le aveva comprato per l’occasione: poche cuciture eleganti, a tenere insieme la pelle tenera, che a poco a poco iniziava a lacerarsi e a cedere. Uno strato sottilissimo di materiale che poteva appartenere al suo stesso corpo era tutto ciò che la separava dalla sua vendetta.
Alla fine della cena, quando tutti e cinque gli ospiti si ritrovarono in piedi sotto al lampione, prima di augurarsi la buonanotte e di organizzarsi per l’indomani, le scarpe distrutte di Luisa e i suoi piedi feriti furono sotto agli occhi di tutti. Guardandola, sua madre, di colpo impallidita, serrò le labbra, mentre la nonna, con tanto d’occhi, guardò sconcertata la scena. Luisa, buttando indietro la testa, rise.


Giulia Scialpi ha ventitré anni ed è laureanda in Italianistica alla Normale di Pisa. Nel frattempo sta mettendo insieme una raccolta di racconti. Ha già pubblicato su diverse riviste (Narrandom, Pastrengo, Cedro mag., In fuga dalla bocciofila) e un suo testo apparirà ad aprile nel prossimo numero di Modern Poetry in Translation, nella traduzione di Rachele Salvini.