Vorrei che esistessero luoghi stabili, immobili, intangibili,
mai toccati e quasi intoccabili, immutabili e radicati;
luoghi che sarebbero punti di riferimento e partenza, delle fonti.

George Perec, Specie di spazi

In una stanza larga e spoglia, in un palazzo abbandonato, una donna trascina una sedia fino ai resti di un lavabo rotto. In bilico tra i calcinacci appoggia uno specchio – un rettangolo grosso come un foglio di carta, senza bordi né rifiniture; insomma, soltanto un pezzo di vetro riflettente – poi si siede. È magra, vestita di nero; con braccia e gambe nude, piedi scalzi. Di fronte a lei una telecamera la riprende. Nell’uniforme opalescenza di quella che un tempo sembra essere stata una stanza da bagno, rivestita da comuni piastrelle di gres bianco, oggi nella maggior parte cadute, sbrecciate o innaturalmente spinte verso l’esterno come squame di un pesce morto, il puntino rosso della telecamera è l’unica forma di colore. Scheggia, stonatura fosforescente, macchia, semaforo intermittente nella notte.
Altro indizio che fa pensare che la donna sappia della presenza della telecamera accesa è la calcolata prosaicità del gesto che compie per estrarre dalla sottoveste una lunga forbice da parrucchiere: un arco ampio, equilibrato, che dopo essersi concluso non lascia traccia del suo passaggio. Non un’incurvatura nella spalla, non un movimento per ritrovare l’equilibrio perduto. Il braccio si è mosso come se non le appartenesse, come se fosse altro da sé: l’impressione che ne ha l’osservatore è di qualcosa di non avvenuto, un pensiero intuito, un istante prima del suo inabissarsi.
Poco dopo esserle ricaduta in grembo, la mano della donna si alza di nuovo armata di forbice. Si avvicina ai capelli – li ha lunghi e scuri, leggermente mossi, con diversi fili bianchi che guizzano qua e là producendo strani riflessi che ben si accoppiano all’umidità delle piastrelle – e inizia a tagliarli. Circumnaviga il cranio, spinge la lama sempre più vicino alla cute, rivela il rosa pallido delle tempie fino a quando della sua chioma non è più niente, soltanto brandelli di nero confusi alla polvere, ai calcinacci grigi del pavimento. Lascia andare la forbice (e anche questo è un gesto calcolato, perché quella cade lontano e non la sfiora) poi, con entrambe le mani, si benedice il capo. Preme i polpastrelli sulla pelle, solleva il viso. E si specchia.

Dal punto da cui lui la guarda – dal punto da cui lui guarda tutto – l’immagine appare leggermente deformata; lo schermo un trapezio che sfugge verso la finestra – adesso buia – ma che se fosse giorno non incornicerebbe altro che un muro grigio e un tratto di marciapiede stretto. Un cesso di via qualunque, a cui Dante non fa caso, ma che se ne sta lì a fissarlo sedici, diciassette ore al giorno e che ormai deve essersi fatta un’idea piuttosto precisa di lui. Facciate rosa salmone e ringhiere ossidate che lottano per resistere, chissà poi perché, a rachitici rampicanti e gerani sfioriti; intonaci pallidi e fibrosi attraverso i quali l’acqua risale come supposte. Per non parlare di ciò che è dentro: una manciata di mobili disposti male, troppo vicini alle pareti, che ingombrano inutili uno spazio già stretto (incredibile che un uomo solo saturi a tal punto la stanza; una spina nel fianco, se lo sguardo torna a lei, definita dalla luce sintetica del monitor Full HD, due milioni e settantatré mila seicento pixel ordinati a scacchiera, un minuscolo sacrificio elettrico perpetuato sulle sue braccia, sul suo collo bianco di San Sebastiano, sulla sua pelle – dio, la sua pelle – una scorza da tirare via, di cui cibarsi).
Sdraiato sul divano in una posizione scomoda – uno sforzo costante mantenersi così, roba da fachiri, a esserne capaci (bravo, Dante: se solo tutta questa disciplina ti servisse a qualcosa) – la sta guardando da un’ora. La prima volta come per tutti gli altri, uno sguardo veloce, già proiettato in avanti, pronto allo scarto; poi più lentamente, l’attenzione rivolta a ogni fotogramma, ancora e poi ancora, indietro per non perdere nessun dettaglio.
Adesso, la cosa migliore da fare sarebbe spostarsi, mettersi seduto, guadagnando così una visione frontale (e magari anche la birra, appoggiata incautamente sul pavimento, fuori dalla portata della mano – quella, sì, che non riesci a trattenere dal muovere) ma in questo modo la paura è che il giudizio perderebbe di precisione. Ha altri dieci filmati da visionare questa sera (ti sei dato un ordine); riesce ancora a stupirsi di quanti abbiano risposto all’annuncio, di quanto disperata sia la voglia di apparire, anche solo per un istante, in un progetto così indipendente da potersi dire invisibile (parliamoci chiaro: in quanti lo vedranno, davvero, una volta concluso? quattro, cinquemila? A dire tanto diecimila persone).

© Livia Del Gaudio

Eppure, neanche questo è importate.
Ora, l’unica cosa che conta è lei; è capire se tra il minuto 2:32 e il 2:41 è verosimile che sia stato effettuato un taglio (qualcuno l’avrà aiutata nel montaggio, Dante, o avrà fatto tutto da sé? Soltanto l’idea che un altro abbia potuto vedere quelle immagini prima di te, o peggio ancora, attraverso di te, per prevedere la tua reazione, ti procura una nausea immediata, violentissima; prima di riuscire ad accorgertene lo stomaco ti si è riversato in bocca, lo senti il gusto acido della bile che corrode le parti molli del palato?). Certo, è anche possibile che abbia sempre indossato una parrucca. Ma se di una parrucca si tratta, come giustificare i riflessi, l’attaccatura naturale che definisce la nuca?
Impossibile pensare che siano davvero i suoi capelli.
Ma è al pensiero di quei capelli – cresciuti non più di quindici centimetri l’anno, millimetro dopo millimetro, una radice buia che si fa spazio dentro la terra – che Dante si alza e si avvicina allo schermo. Una reazione imprevedibile anche per lui, che per poco non inciampa nel tappeto; che si maledice per la birra versata, ma che poi non fa niente, la lascia lì, odore che si aggiunge a odore. Possibile che lo abbia fatto davvero, per lui?
Più guarda più l’idea si fa spazio, insieme a un’onda fredda, uno spasmo che conosce bene (che ti striscia tra le ossa, Dante; che ti scoperchia il cranio e scende giù attraverso la perfezione delle arterie, nella precisione pneumatica della macchina anatomica che è il tuo corpo, che è il suo corpo): tutto quello che vuole è smascherarla.
Via il cappello bucato e il mantello di raso da quattro soldi; via il biancore umido delle piastrelle; via il braccio e anche la forbice. E via pure i mille euro che Marta ti chiede da aprile: è tua sorella ma non può continuare a pagare per te; via la mano di Alice, le sue dita piccole e rotonde sulla tua spalla; via quello che le hai raccontato per prendere tempo, l’ultima volta che Anna ti ha visto – che ti ha visto lei, perché oggi tu l’hai guardata a lungo, senza mai avvicinarti, sicuro nella tua ombra, mentre camminava piano, schiacciata dai sacchetti di plastica del supermercato all’angolo; un tutt’uno con quei cazzo di sacchetti di plastica che lasciavano vedere tutto, anche la cena a base di merluzzo e piselli (perché i bambini hanno bisogno di fosforo per crescere) e la birra scura da quattro soldi che le fa comprare il marito, e che lei non beve; che non ha mai bevuto, neanche quando a porgergliela eri tu; tu con il tuo elogio della distanza; le parole scelte con cura, che scivolano via subito dopo il sesso.

Tu che dici: «Il cinema lo ha capito benissimo, per sua natura è destinato a mettere in scena fantasmi su fantasmi».
E lei che senza farlo apposta si volta, si allunga sul comodino a cercare la borsa, perché quei fantasmi li sente davvero, sono lì che strisciano ovunque, come fai a non accorgertene, Dante? La tua è una casa infestata. Invece continui, perso dentro il suono della tua voce.
«Il cinema lo sa», dici, «di avere a che fare non con corpi ma con figure, e sa che delle figure si può fare tutto».
E mentre parli gustandoti ogni lettera – gnam gnam la lingua che batte sui denti, asciutta e ruvida, senza saliva perché ti sei bevuto anche quella – Anna ti guarda e basterebbe soltanto stare zitto un attimo e guardarla anche tu: occhi bellissimi e scuri sul punto di crollare; sarebbe così semplice sprofondarci dentro ed essere lì, cosa vista e cosa che vede insieme, finalmente uniti e non più soli, senza più altro da dimostrare, senza potere.


Livia Del Gaudio ha studiato e lavorato come architetto, ora insegna storia dell’arte nelle scuole superiori. Ha collaborato con importanti editori e festival letterari in veste di lettrice e consulente editoriale e ora è entrata a far parte della rivista Malgrado le mosche. Ha scritto racconti, alcuni dei quali pubblicati (Subway Letteratura, Diaforia, Cadillac, Bomarscé). Vive a Lecco ma viene da Genova.