È un’avventura insolita trasportare la propria madre nel bagagliaio. Potrebbero arrestarti con l’accusa di sequestro o tentato matricidio, ma Pietro escludeva che qualcuno sporgesse denuncia, essendo sua madre morta già da alcuni anni. L’unica sua preoccupazione era su come sua madre, nel retro della Panda, trascorresse quel lungo viaggio verso l’Adriatico.
Al mare non ci erano più tornati da quando era bambino, quindici anni prima. Allora era lei che guidava, calma, attenta alla musica e distratta dalle storie che raccontava più a se stessa che a Pietro. Due ore di viaggio, che con le soste e le parentesi della donna, meravigliata di continuo dai dettagli delle strade provinciali, diventavano infinite. Il mare, in confronto, sembrava vuoto d’interesse.
Mentre guidava, Pietro giurava a se stesso che prima o poi quel viaggio nel bagagliaio l’avrebbe fatto anche lui. L’avrebbe imbottito e dotato di ogni confort, chiudendosi dentro senza protestare. Avrebbe trovato un accompagnatore adatto. Ma voleva un viaggio molto più lungo, non gli bastava restare in Emilia. Voleva penetrare innumerevoli dogane, come se il mondo non fosse altro che una frontiera concentrica. Il sole gli era sempre sembrato poco più di un semaforo: la vita, a lui, la davano le strade. E il cielo un casello, anche se nessuna cartina ne riporta l’entrata.
Pietro si ispezionava i denti allo specchietto retrovisore. Le labbra erano quasi spaccate dall’afa, ma il finestrino non c’era verso di farglielo chiudere: doveva sbracciarsi e cantare, forte, opponendosi per chilometri alla notte e arrivando a confondere le stonature nel rumore. Mentre cercava un ritornello adeguato e simulava sul cambio qualche accordo, dall’interno del motore venne un colpo secco. Provò a riavviare più volte, ma alle sue implorazioni il motore miagolò solo un nooo stiracchiato e lamentoso, terminando con un colpetto di tosse grassa. Trapasso del veicolo. Scese e aprì il cofano.
Le mani lì dentro non sapevano improvvisare nulla di sensato: spostare, togliere, pulire o avvitare. Provò anche a bussare sul motore. Non vi fu risposta. Eppure, a Pietro, la sua macchina era sembrata sempre viva, forse perché era la prima carretta che guidava. Le loro fisionomie si assomigliavano, come accade tra gli animali domestici e i loro padroni. Non era neppure un giocattolo. Sicura sotto il sedere e leggera sopra la testa.
Non passava nessuno. Solo il tempo, quello sì che passava. Provò a distrarsi. Cantare non serviva. Iniziò a immaginare una storia, poi a scriverla, ma al buio e senza penna, scrisse sulla macchina, tra la polvere e il vento. Prese appunti sul cofano. Poi riuscì a far ripartire la macchina.

Una strada buia, ma piena di cartelli dai colori entusiasmanti.
Sul bordo due donne anziane; una spinge l’altra e quella sorregge la prima.
Vanno lente, storte.
Non indietreggiano anche se il vento le accartoccia.
Quella con lo scialle in testa sembra modellata nella creta, ha i tratti grossi e indistinti.
La seconda è spigolosa, forse per l’arte di appoggiarsi sulla punta di se stessa.
Si chiamano Carmen e Vittoria. Una è demente da anni, ma con allegria: crede che la sorella sia morta, ne parla sempre al passato e in terza persona remota. Vittoria sopporta, sa che la sorella è malata, malata di memoria e di ricordi. Viaggiano così, insieme, tenendosi ben strette. Una macchina rossa arriva furiosa dal buio, quasi ingolfandosi a ogni scalare di marcia. Passa accanto alle donne.
Pietro distingue le due vecchie, non si ferma e continua. Sua madre respira rumorosa nel baule, affannata dalle buche e dalle svolte. È una donna curiosa, sua madre, con un profilo etrusco che quasi vede anche nel buio, là dietro. Di certo, si sarà messa a scrivere. Prende nota di tutto, nella vita non è mai stata una passeggera annoiata. La donna smette di scrivere e ascolta. Il rumore del mare non si sente ancora.

Il metallo è rosso scuro, rugoso, pieno di bozzoli e sverniciato in più punti. Dentro, una persona per volta, una ogni notte. Da quasi nove mesi Pietro trasporta donne o uomini nel baule, sobbalzando quanto loro lungo il tragitto.
Ogni passeggero, durante il viaggio, ha intorno una sua musica, o almeno un suono particolare. Tra le prime viaggiatrici, le due vecchie che aveva incrociato sulla strada; stavano andando nella direzione opposta a quella originaria, forse ritornavano alla meta o forse volevano soltanto ripetere quel viaggio. Le ricordava, chiassose, sulla macchina surriscaldata: era piena estate quando aveva cominciato. Fu l’unica volta che ne prese due; ci mise meno tempo lui a capire dove scaricarle che loro a incastrarsi una nell’altra là dietro, soffocando gli accidenti con le risa. Fu il tragitto più rumoroso e più allegro. In quei trasferimenti d’anime fatti con la sua Panda rossa, le stazioni d’arrivo erano sempre differenti, ma la durata era più o meno la stessa. Il contachilometri s’era inceppato già da molto tempo e non lo aveva mai fatto riparare.
Era cominciato tutto a letto, come succede per le storie d’amore e di morte. Mezzo addormentato, sentì un solletico alle labbra. Era abituato alle visite del gatto che chiedeva di uscire per i bisogni, con le zampe sul suo petto e le vibrisse in faccia. Strano: sentiva i baffi, ma non il peso dell’animale sul petto. Si alzò ad accendere la luce: sul letto non c’era traccia della bestia, né sul pavimento. Solo ora ricordava che il suo gatto era morto ormai da un mese. Guardando meglio il letto, lì, sul cuscino sudato, stava uno scarafaggio dalle zampe lunghe e dai baffi setolosi. Ecco la carezza che l’aveva scosso.
Prese il cuscino e buttò fuori l’animale. Il volo terminò in strada. Guardò giù, dov’era parcheggiata la sua macchina rossa. Una sagoma scura guardava il bacherozzo che gli era stato buttato quasi addosso. Il baule dietro era aperto. Pietro corse in strada. Non c’era più nessuno e Pietro chiuse il retro del suo ferrovecchio con un ceffone verticale. Ma il baule si riapriva, come se qualcosa non si bloccasse nel modo giusto.
Riprovò con più forza, rabbioso, poi tentò delicatamente. Non c’era nulla di rotto. Il baule si chiudeva, ma solo per un momento; poi, in qualche modo, veniva riaperto. A impedire la chiusura era un fagotto mal premuto nel fondo: la sagoma di una vecchia vestita di nero.
Pietro riconobbe il viso della nonna. Erano dodici anni che non la vedeva, dal giorno prima del suo funerale. Dicendo al ragazzo il nome di un paese poco lontano, la donna aggiunse un grazie prima di abbassare il gancio del bagagliaio. Si era chiuso, questa volta, e non era più possibile riaprirlo.
Da quella notte, molti che volevano partire si affacciavano alla sua camera. Pietro si alzava, ascoltava la richiesta e partiva. Non gli era mai venuto in mente di rifiutare, né di chiedere un compenso. Non aveva più cercato di aggiustare la serratura del bagagliaio.

Ormai i caselli sono tutti automatici. Puoi viaggiare in autostrada per ore senza incontrare nessuna mano da stringere: occorre proprio avere un’anima nel bagagliaio per non sentirsi soli.
Di solito uscivano dalla macchina senza preavviso, a un semaforo o a un passaggio a livello. Uno scatto, il lunotto oscurato un momento, e Pietro si era liberato dell’ennesimo ospite.
Anche quando scese sua madre andò più o meno così; non era riuscito a salutarla. Stava sbadigliando, fermo a un ponte. Iniziò a pensare ad alta voce: “Chissà dove vanno a finire, i morti. Meglio sparire in una nuvoletta luminosa. Invece continuano a passeggiare per le vie del centro. E non fanno come la gente normale, che prendono i treni o gli autobus, no, vengono da me. Perché non vagano in pena per la città o non se ne restano nelle case abbandonate, come conviene ai fantasmi che si rispettino?”
A Pietro sembrò di sentire, in risposta, la voce acuta e lenta della madre.
«Perché? E lo chiedi anche? Ci vogliono ore con gli autobus, e su quei sedili passano talmente tante vite, le sentiamo tutte… Se c’è il giornale, è sempre quello del giorno sbagliato. Qui almeno nessuno ci pesta i piedi. La gente crede che basti morire e restarsene lì, fermi. Come se non si potesse, almeno dopo, andare dove non siamo mai stati e volevamo andare. Per alcuni è un teatro, per altri un asilo o un night, una caserma, una biblioteca; c’è chi, come me e te, vuole rivedere il mare. Tutto qui: ancora una volta. Com’è morire? È come provarsi addosso un profumo che d’ora in avanti metteremo tutti i giorni, un profumo che ci avvolgerà tutti, tutto il nostro corpo, non solo i polsi. Tu non darci nomi – fantasmi, defunti, spiriti. Ogni cosa perde il nome. Cosa c’entra Dio? Lascialo tranquillo. Lo hai mai trovato, tu? Sai dov’è? Lì sotto il motore? Sbuca dal sedile posteriore? È la striscia pedonale o è la serratura scassinata del baule che si chiude male? Continua a guidare, ora. E non preoccuparti: quando verrà l’ora avrai anche tu il tuo passaggio, non sarai un eterno autostoppista.»

La macchina non ripartiva. Pietro si chiuse nel baule, come desiderava da tempo. Stava stretto, ma respirava bene.
Il motore si era riacceso e la macchina procedeva.
Lui non poteva uscire, ma non aveva paura. Poi tutto si fermò.
Il rumore delle navi, finalmente.
Dal fondo l’acqua iniziava a salire: eccolo, si disse, eccolo il mare. La macchina scivolava tra le onde. Lì vicino sentiva le due vecchie, Carmen e Vittoria, ridere e sguazzare.
Pietro pensava ancora alla madre. Bianca, sì, ma non pallida, e senza lacrime.
Da dentro, la serratura si apriva facilmente.
Pietro aspettò ad aprire.
Sentì bussare. Una voce là fuori lo chiamava.
E lui disse forte: «Sono tornato.»
E aspettò ancora un momento, prima di aprire.


Stefano Serri (1980), laureato al Dams di Bologna (Discipline teatrali), alcuni libri pubblicati; tra gli ultimi, il romanzo Adamo e Adamo e il saggio Idropatici. Storie di poeti e di liquori. E poi traduzioni: Jean Giraudoux, Jules Verne, ma anche contemporanei. E, tra riviste e antologie, racconti.