Nell’aria c’era un pulviscolo turchese e il ronzio di un cantiere. Zia Silvia non era in vena di sorprendersi. All’inizio, certo, c’era stata della confusione, poi un po’ di scetticismo e persino un breve tentativo di rappresaglia che lo spazio profondo aveva ignorato con la solita cortesia. Zia Silvia aveva dovuto deporre l’indignazione in favore della tolleranza. Se la galassia poco più in là desiderava annunciare la propria morte imminente sibilando e grugnendo tale e quale allo scavo di una metropolitana, non stava a lei sindacare. Si abituò in fretta. Ci si abitua a tutto, avrebbe detto qualcuno che non aveva mai trascorso trentanove ore con uno spuntone di roccia contro la schiena. Zia Silvia si grattò il fianco, poi starnutì per via del pulviscolo, stopposo e secco come tabacco da rollare.
«Salute», le augurò una voce gentile. Proveniva dall’altra parte della luna alla quale zia Silvia restava aggrappata per mancanza di alternative.
Che fosse una luna l’aveva stabilito al suo arrivo, e impropriamente, data l’assenza di un corpo celeste più grosso cui il suo pezzo di roccia potesse fare da satellite. Come una leonessa snasa il cucciolo appena nato e pensa, mio, però, così zia Silvia, scrutando quella superficie grigiastra, polverosa e butterata, s’era sentita di nuovo sulla faccia umida della terra e dunque aveva pensato, luna. Un insolito slancio di sentimentalismo.
In ogni caso, luna o non luna, non si sarebbe aspettata tanta educazione. Per di più, pensava di essere sola.
«Pensavi di essere sola?» domandò con un certo divertimento la luna.
«Speravo», corresse zia Silvia, che non aveva e non avrebbe mai afferrato l’utilità di mentire. La voce ebbe da ridere, non da ridire. Lo spuntone tanto scomodo vibrò contro i reni di zia Silvia, assestandosi contro una zona ancora più tenera di muscoli e tessuto adiposo.
«Com’è che sei arrivata qua, volevo sapere», disse la luna. Zia Silvia sospirò. Il numero di volte in cui aveva dovuto rispondere a quella domanda cominciava ad approssimarsi all’infinito. Pensò a cosa dire. Era solo questione di tempo prima che lo spazio decidesse di darle tregua.
Aveva cominciato a capitare non appena era nata, giusto il tempo di fare il primo piantino e darle una ripulita, e zia Silvia era passata dalle braccia dell’infermiera a quelle di sua madre, nella stanza accanto, senza che nessuno oltre a lei si fosse mosso.
Fu chiaro da subito che la sua sarebbe stata una vita complicata.
Scollata dallo spazio, estranea alle limitazioni del piano cartesiano, zia Silvia viaggiava da tutta la vita in un infinitesimo di secondo. Per la precisione, i suoi spostamenti richiedevano il tempo esatto che impiega un bambino a decidere che vuole un gelato non appena si ritrova senza tonsille. Non aveva controllo sulla destinazione, non più di quanta ne abbia il genitore del tonsillectomato sulla scelta dei gusti a venire. Per i primi due o tre minuti immediatamente successivi allo spostamento, sentiva il corpo diventare una cialda ammollata dall’umidità, senz’ossa e senza una destinazione d’uso che non fosse la pattumiera.
Con il tempo aveva imparato ad averci a che fare. Dopo i sedici anni, per esempio, si contavano sulle dita delle mani le occasioni in cui s’era ritrovata a sparire da sotto la doccia, per ritrovarsi insaponata e infreddolita chissà dove. Zia Silvia ne andava molto fiera. Se mai avesse incontrato qualcuno con il suo stesso sventurato talento, se ne sarebbe sicuramente vantata.
Nelle sue permanenze di durata variabile aveva conosciuto tutto il mondo. Patito la fame, nuotato tra i coralli, danzato per la pioggia, analizzato il mercato azionario, lavato macchine di lusso, lavato piedi e piantato alberi e realizzato che in fondo è lo stesso, pianto Fidel cantato fino a perdere la voce, lasciato librarsi in volo lanterne cinesi, marciato contro e marciato a favore, attraversato a piedi il deserto e distribuito tè caldo ai senzatetto la notte, imparato a sparare e poi, da un’altra parte, ma solo dopo, a ricucire gli spari. Mai creatura fu più libera di lei, indifferente ai confini, ubriacata dalla curiosità di ogni cosa e senza alcun desiderio di fermarsi. Non cercò mai qualcosa che la tenesse ancorata a un unico luogo. Non pensava nemmeno che una simile forza potesse esistere.
Si sbagliava. Naturalmente.
Non che ci fosse una lezione da apprendere, o anche solo qualcuno che avesse una morale da impartire; ma un giorno, quando aveva neanche trent’anni e la carrozzeria ammaccata già da troppe migliaia di chilometri, comparsa nell’aria pesanticcia e afosa di un lungofiume, zia Silvia s’era imbattuta in un ragazzo a pesca. Le era parso evidente, nel parlare con lui, che fino a quel punto ogni cosa era stata avvolta da una nebbia miope; la gentilezza della sua postura mentre le parlava dei suoi segni di punteggiatura preferiti fu l’unica cosa che zia Silvia avesse messo a fuoco in tutta la vita.
Neanche il tempo di chiedergli il numero di telefono, che s’era ritrovata dall’altra parte del mondo. E allora, mano nella mano con quell’amore annegato ancor prima di nascere, ecco spuntare il dubbio che forse il suo movimento incessante fosse uno sbaglio a cui rimediare, la sua esistenza non più quella di una pallina che rimbalza nel flipper mentre tutte le altre aspettano il proprio turno, ma quella della scimmia impazzita del branco, l’esemplare da rinchiudere e imbottire di sedativi, di una qualche utilità solo per l’industria cosmetica.
Da quel giorno sul fiume, zia Silvia aveva viaggiato sempre più lontano, fino a ritrovarsi nello spazio profondo, scomoda come non le era mai capitato prima.
Zia Silvia dubitava che la luna potesse capire il suo ragionamento. Che ne può sapere un corpo celeste dei cortocircuiti di un’esistenza tutta umana e tutta storta?
«La donna è mobile», intonò per spiegarsi, un riflesso incondizionato da martelletto al ginocchio che le lasciò un retrogusto amaro d’imprecisione.
«Non c’è un singolo atomo immobile in un universo in movimento», osservò la luna, che aveva capito qualcosa di cui zia Silvia stava solo cominciando a ragionare.
Claudia De Angelis è nata e cresciuta nella provincia di Caserta. Diplomata al Centro sperimentale di Cinematografia di Roma, vive in un seminterrato con giardino dividendosi tra la sceneggiatura (tra gli altri: La Belva, 2020, su Netflix), il lavoro di traduttrice freelance e la necessità di urlare contro il televisore guardando partite di basket spagnolo.