Sapeva che sarebbe stato uno degli ultimi giorni di sua mamma.
Il medico si era espresso in modo chiaro, e brusco, sfinito da ore in sala operatoria e dall’ingenuità di una ragazzina che sembrava non voler capire. Un collega era intervenuto, pizzicandogli il braccio, per interrompere lo sfogo avuto contro Sofia che, ogni sera, andava a cercarli, volendo notizie di eventuali miglioramenti.
«Guardi che salvare sua mamma sarebbe un miracolo, è più facile che si riprenda un malato terminale di cancro e…», pizzicotto, pietoso, dell’altro medico.
Lasciava la macchina al solito posto, nel parcheggio dell’ospedale, con il sollievo di gratitudine per un giorno in più, misto all’amarezza risentita per pochi giorni ancora. Verso l’africano che si presentava con braccialetti ed elefantini accanto alla macchina appena parcheggiata provava la stessa mescolanza di pietà e fastidio, empatia e rabbia: un giorno gli dava cinque euro per avere in cambio niente, un altro giorno lo guardava negli occhi sfidandolo, che non osasse aprire bocca e correrle dietro con il suo vassoio di cianfrusaglie.
Sua mamma era bellissima, aveva la pelle liscia, rilassata, e gli occhi azzurri così vivaci e presenti da risultare fuori luogo, quasi inquietanti.
Quella mattina trovò l’infermiera di turno in lacrime, accanto al suo letto; lei appena vide Sofia si scusò e corse via con il fazzoletto che asciugava guance, occhi e naso. Infastidita da quella mancanza di professionalità si rivolse a sua mamma, sentendosi dire: «Suo marito ha problemi di alcol, sai, mi ha chiesto un consiglio, aveva bisogno di sfogarsi. Le stavo dicendo che il fatto che lui beva non toglie nulla al bene che c’è fra loro».
Era ovvio come quell’ultima frase andasse trasposta al rapporto madre e figlia, ma Sofia non era pronta a rifletterci, lo sarebbe stata, ovviamente, quando ormai era troppo tardi, come si legge in ogni tragedia classica che si rispetti o nei foglietti dei baci Perugina.
Furono tanti, in quella giornata, gli attimi che non colse, le domande che non fece, i ti voglio bene che avrebbe dovuto dire, ne bastava uno, in realtà, ma non disse neppure quello, resa troppo nervosa dal ticchettio del tempo che le pulsava nelle orecchie. Chi si prepara a morire vive gli ultimi istanti come preziosi e solitari. A chi resta rimane l’agonia del dopo.
Invece che stringerle la mano e chiedere semplicemente l’unica cosa che importa, Sofia si aggirava stizzosa nella stanza, prendendosela con la presenza invisibile responsabile di tutte le morti ingiuste.
«Ma io come farò?»
La domanda non usciva, ma era chiara, rivolta più che altro al mondo, momentaneamente chiuso fra quattro pareti asettiche e di un bianco sporco. Nel pomeriggio cominciò a rigurgitare bile, sostanza verde e acida che non trovava più il suo senso nell’organismo e si presentava in bocca, a intervalli regolari. E, a intervalli regolari, sua mamma sorrideva e la ringraziava di esserle accanto, a passare un panno umido sulla lingua e sulle gengive bruciate.
Sofia avrebbe preferito sentirla urlare e imprecare.
Non c’era nulla da consolare lì, solo da prendere atto, con sbigottimento, che una donna ti sta insegnando come si muore.

© Margherita Koch Cavalleri


Chiese un foglio e una matita, Sofia li procurò con l’orrore di dover presenziare alla stesura di un testamento in tempo reale, con lo strazio delle ultime volontà lette a fil di voce.
La mamma, invece, annotò con grafia traballante, ma sicura, le indicazioni per la cura dei suoi bulbi di amaryllis.
Ciò che lasciava era un elenco puntato di accorgimenti:

  • Da ottobre fino a Capodanno i vasi vanno messi a riposo, al buio, reclinati su un lato;
  • nei primi giorni di ogni anno nuovo vanno portati in casa, dopo aver tagliato le foglie gialle e secche e messo i bulbi sotto un centimetro di terra buona;
  • posiziona i vasi alla luce, ma non al sole diretto, innaffia regolarmente, ma non troppo;
  • nel corso delle settimane vedrai spuntare, come per miracolo, una delicata lingua verde;
  • in neanche due mesi si aprirà il più spettacolare dei fiori: abbine cura, è lì per farsi guardare da te;
  • la fioritura dura solo pochi giorni;
  • taglia lo stelo alla base, una volta che il fiore è appassito, e tratta la pianta come una qualunque pianta da esterno, fino a ottobre;
  • ogni anno accanto al bulbo ne troverai uno più piccolo, travasalo separatamente, così la tua collezione aumenterà sempre più.
    P.S. Leggi il Candido di Voltaire

Passato, almeno un poco, il dolore, Sofia aveva messo in cornice il biglietto di sua mamma e adesso lo teneva nella serra.
Era stato, sì, un testamento, ma nella lingua simbolica di chi ha colto la poesia della vita e non si riferisce a nulla di materiale.
Ogni volta che lo rileggeva, anche se lo sapeva a memoria, si immaginava lo scambio di osservazioni che non avevano fatto in tempo ad avere, concludendo ogni volta che non lo avevano avuto perché, dopo tutto, bastavano gli amaryllis.
Il periodo invernale dei bulbi, così come quello del corpo, è un’inattività solo apparente: al buio, da sdraiati, la vita trova dimora e riposa; l’anno nuovo va celebrato, ci vuole una pulizia dalle foglie vecchie per iniziare da capo in un terreno fertile, ricco di nutrimento; la questione della luce e dell’acqua era il punto che Sofia amava di più: il sole diretto brucia, la troppa acqua uccide, sono l’esposizione giusta e la giusta misura a determinare uno sviluppo armonico; il miracolo del germoglio che esce dalla terra non può che lasciare stupefatti, un momento che non permette di venire accelerato né rallentato: rimane il privilegio di esserne spettatori.
La velocità con cui il tempo della vita scorre le era ben nota, ma non si aspettava, con l’età, di provare gratitudine per una lezione imparata molto presto, come se adesso gli istanti fossero per lei più intensi e dilatati, perché tutti pienamente colti all’interno di una routine solo in apparenza uguale.
Sofia aveva fatto fare apposta enormi vasi di vetro trasparente che contenessero in equilibrio gli amaryllis e potessero essere reclinati d’inverno.
Ogni anno, il bulbo più piccolo, cresciuto accanto a quello grande, le ricordava sua mamma in una muta esortazione a crescere, a proliferare: lo staccava con la delicatezza che si riserva alle cose preziose e lo travasava con il piacere di un’eredità che si tramanda, di un germoglio che si aspetterà con pazienza – si tratti di un’idea, di un progetto, di un amore – a conferma dell’esortazione alla cura dell’interiorità, in chiusura del Candido di Voltaire: Bisogna coltivare il proprio giardino.


Margherita Koch Cavalleri è una giornalista, non ha più spazio in casa per i libri e ha un serissimo hobby: disegnare a fumetti i dubbi esistenziali di Speck, che si trova su Instagram come @speckfriends. Ama i muri, perché danno la possibilità di fare breccia.