Mentre pettinavo i capelli di Alice, un ciuffo enorme mi si attaccò alla spazzola. Sulla testa apparve un enorme buco. «Alopecia da stress», mi disse il dottore. Corsi in farmacia a comprare shampoo e lozione, ma il pediatra era stato chiaro: «Sono solo palliativi. Devi capire la causa dello stress».
Capire la causa. Capire la causa. Capire la causa. Cosa può tormentare una bambina di quattro anni al punto tale da farle perdere i capelli? 
Era diventato un pensiero fisso: aiutare la mia figlia stressata. Sotto la lente dei sensi di colpa finimmo io, mio marito, i nonni e i legàmi che ci tenevano insieme. Poi, una mattina, mi alzai e iscrissi mia figlia a un’altra scuola dell’infanzia, insieme alla sorella. Fui illuminata di notte: poteva essere solo la scuola la causa del suo disagio.
Avevo agito guidata solo dall’istinto. Ma fu una soluzione vincente. Dopo due mesi, iniziarono a crescerle di nuovo i capelli.
Trascorsi sei anni, e affrontate diverse psicoterapeute, seppi da Alice che la maestra la maltrattava e che le compagne di classe la prendevano in giro. Le chiesi: «Cosa ti dicevano?».
Lei rispose: «La maestra diceva che non capivo niente. Diceva: Sei proprio stupida. Stupida. Stupida».
«E le compagne?», l’incalzai io.
«Le compagne ripetevano sempre la stessa cosa: Tu sei una formichina, tu sei una formichina, tu sei una formichina», rispose Alice intonando la cantilena. 

Era uno strano giorno di primavera. Nubi di polline giallo aleggiavano a mezz’aria. Gli occhi gonfi mi lacrimavano. Anna, la maestra di mia figlia Aurora, aveva chiesto di parlarmi. Era un’amica, almeno così credevo.
Vediamoci fuori, nel giardino della scuola, così mi aveva detto quando mi aveva contattata.
Lei fumava. Io respiravo a fatica e tossivo.
Poi parlò, con la sua voce graffiata e stanca: «Tua figlia è chiusa. Non si apre con nessuno. Ti ho chiamato per dirti che non so dove sistemarla».
«In che senso? Mica è un pacco che va sistemato? Magari potresti aiutarla ad aprirsi. A volte, le maestre hanno più presa dei genitori. Sono come delle seconde mamme».
Lei non si aspettava un mio attacco. Voleva solo sputare veleno su una bambina di cinque anni, niente di più.
Dopo un paio di boccate di fumo, riprese a parlare: «Non so, francamente. Ti ho chiamata per dirti che Aurora vive un disagio. Mi sembrava doveroso fartelo sapere».
«Va bene. Risolviamola insieme… Magari potresti affiancarla a una compagna simile a lei. E… io cercherò di spronarla a parlare di più. Proverò a organizzare incontri pomeridiani con le mamme…», dissi io. Avevo il fiato spezzato per l’allergia, o forse per l’ansia.
«Non c’è nessuna uguale a tua figlia. Mi dispiace», concluse lei, asciutta.
Anna voleva solo sfogarsi e dirmi che Aurora era difettata. Voleva che l’aggiustassi per lei; perché un’alunna come mia figlia, diversa dagli altri, non sapeva gestirla. Poi, mi raccontò dei suoi malori primaverili e della voglia di andare in pensione. 
Aurora frequentava la prima elementare. La mia amica lasciò mia figlia sola per cinque anni. E io fui troppo educata, o forse troppo stupida, per portare la mia bambina altrove.

«Vorrei sapere perché la escludono», chiesi a Eleonora, la mamma di Irene. Lei mi rispose: «Tua figlia è chiusa».
Ma io non ti ho chiesto un parere su mia figlia. Ti ho chiesto perché la escludono. Se stiamo giocando a questo gioco, io potrei dire che tua figlia è brutta e stronza… e anche po’ puttana, in verità.
Dovevo capire. Al terzo anno di Liceo, Alice aveva cominciato di nuovo con i suoi silenzi. I suoi piccoli masochismi. Non voleva nemmeno tornare a fare terapia. E io non sapevo aiutarla.
Così, risposi: «Lo so che mia figlia è chiusa. Purtroppo fa parte del suo carattere. Ma, proprio perché è chiusa, escluderla dalle uscite rende le cose ancora più faticose per lei».
Eleonora indugiò in silenzio, cercando il modo di uscirne pulita. Il mio ragionamento l’aveva un po’ spiazzata. Ma durò un attimo e subito infierì, nuovamente, sulla parte più dolente: «Ok. Parlerò con Irene e le dirò di aiutare Alice ad aprirsi».
E allora sei stronza come tua figlia. Irene e le altre compagne, con cattiveria, tagliano fuori Alice. E tu continui a parlare della sua timidezza?
«Magari! Sarebbe fantastico. Grazie! So che giovedì l’intero gruppetto andrà a ballare al Mambo. Dirò ad Alice di fare la prima mossa e, appoggiata da Irene, sono sicura che le cose si sistemeranno».
Alice non andò a ballare al Mambo. All’esclusione si aggiunsero gli scherzi, le chat aggressive, le violenze verbali e fisiche…
Alice ha frequentato il quarto anno in un’altra scuola.

«Preside, non è possibile che non ci sia nulla da fare!», le dissi urlandole addosso.
La Dirigente era insofferente. Occupavo il suo ufficio da circa mezz’ora. Desiderava solo menarmi fuori. Ma non poteva. Prese tempo. Finse di dover andare un attimo in segreteria e poi ritornò da me.
Con voce falsamente dolce mi disse: «Signora, la prima media è difficile un po’ per tutti. Poi… devo dire che sua figlia è anche molto… chiusa».
Ancora! Ma che cazzo significa chiusa? È un termine orribile. Capirei timida, riservata, introversa… Chiuso può essere un mobile, una finestra, una porta, ma una ragazzina… non è un oggetto, che può essere chiuso o aperto.
Così, sbottai di nuovo: «Ma da quando la timidezza è diventata un handicap insormontabile? Sono stata timida tutta la vita e non per questo le persone mi sono venute contro. Qua stiamo parlando di ragazzini che si accaniscono su una piccolina di dieci anni, che hanno creato un gruppo Whatsapp col nome Abbasso la negra, riferendosi a mia figlia. E lei, invece di indagare, convocare genitori e professori, mi dice che mia figlia è chiusa!».
Mi accasciai sulla sedia. Le mani tra i capelli. Ero sfinita.
Aurora, dopo tre mesi di prima media, cambiò sezione. 

Nove marzo 2020. Il premier Giuseppe Conte annuncia che l’intera Italia diventa zona protetta. La parola chiusura, e tutto quello che ne consegue, si adatta alle mie figlie come un guanto su misura. Il silenzio diventa pervasivo. In casa. Fuori casa. Nel silenzio Alice e Aurora fioriscono. È come se tutta la vita avessero aspettato che il mondo si zittisse per potersi esprimere. Alice recita e disegna. Aurora scrive. Si aprono ai professori e ai loro compagni distanti. Completano l’anno con la media del nove e mezzo. Partecipano a concorsi. Inviano video con poesie scritte e recitate. 
Diciotto maggio 2020. Prima riapertura in Campania. Siamo tutti spaventati. Ma io tremo al pensiero di un nuovo ingresso di Alice e Aurora nel mondo reale. Come neonate che muovono i primi passi, vedo le mie figlie incerte. Impaurite. Tendono le mani avanti per cercare  un nuovo equilibrio.
La prima riapertura è un fallimento. Per il mondo intero. Per le mie figlie. Entrambe sono nuovamente attaccate dal virus della timidezza e dell’inadeguatezza.
Ventisei aprile 2021. Le scuole superiori, così come quasi tutte le attività in Campania,  riaprono, dopo un anno di chiusure e riaperture a intermittenza. Siamo in piena primavera. Il flusso costante della natura, il ciclico cambiare forme e colori, questa volta, sembra permeare ogni singolo respiro di Alice e Aurora. E io non voglio perdermi nemmeno un momento di questa fioritura. Nell’ombra, osservo la loro metamorfosi. Osservo il faticoso schiudersi delle loro crisalidi. Assecondo il tempo e il modo della trasformazione. Aspetto. Aspetto. In silenzio. So che, presto o tardi, assisterò al loro primo battito di ali.


Mariarosaria Conte è nata a Napoli, città in cui vive tuttora. Avvocato, ha abbandonato la carriera in ambito legale per dedicarsi all’insegnamento nella scuola primaria e ai suoi figli. Nel 2019 ha pubblicato i racconti Lucia (nell’antologia Il dolore del silenzio), Il Mondo che vorrei (vincitore del concorso Gli anni 80: il decennio che ha generato il ventennio)Storie di ordinario disagio (vincitore del contest letterario #Prendiamolipermano); mentre nel 2020, Io sono Alice (vincitore del concorso Raccontiamoci con cura).