La decisione fu controversa, ma non del tutto inaspettata. Dal momento che gli Stati avevano deciso per un’ingente cessione di sovranità all’Unione Europea (troppe crisi impossibili da gestire autonomamente: cambiamento climatico, pandemie, concorrenza cinese…) il Parlamento dell’Unione fu finalmente investito di un autentico potere legislativo. Le elezioni europee, perciò, non erano più un avvenimento pressoché formale, ma qualcosa di altrettanto importante, anzi, di ben più importante di quelle nazionali. Però il regolamento elettorale, stilato in comune accordo, prevedeva uno strumento ideato dai think tank di teoria politica, definito eufemisticamente come docimastico.
La docimasia era l’esame che i cittadini dell’antica democrazia ateniese, raggiunta l’età di diciotto anni, dovevano sostenere per essere ammessi ai diritti politici attivi e passivi: per poter, cioè, eleggere ed essere eletti come rappresentanti. L’Unione Europea, per nascere come autentico stato sovranazionale, chiedeva ai suoi cittadini di sottoporsi a un test, a un esame, che stabiliva se fossero in grado di comprendere e decidere sulle questioni iper-complesse che l’Ue andava ad affrontare.
Quando ciò divenne ufficiale, Giovanni Sgura, miglior studente del liceo scientifico di Ostuni si sentì scoraggiato. Non perché temesse d’essere bocciato al test (standardizzato, da svolgersi davanti a un computer di una sede certificata nel settembre dopo la maturità), quanto perché il suo gemello Gianni (i genitori non avevano grande fantasia coi nomi) era molto più indietro. Frequentava un istituto tecnico ed era ad alto rischio di non superarlo.
Al di là del diritto di potersi definire un vero e proprio cittadino europeo, era implicito che una bocciatura precludesse tutta una serie di occasioni lavorative e sociali per il resto dell’esistenza. Quel che era peggio, Gianni, una di quelle persone che non stanno troppo a preoccuparsi per il futuro, non dava alcun peso alla faccenda. Giovanni si era ripromesso di passare l’estate sui libri, con lui. Un sacrificio necessario per il benessere del fratello e della famiglia.
«Sarà come prendere la patente…» aveva detto Gianni, carezzandosi i capelli a spazzola, sedendosi svogliatamente al tavolo della calda cucina. «Perché ti preoccupi tanto?»
«C’è parecchia legislazione. I meccanismi dell’Unione Europea sono complessi. Non è sufficiente capire la regola dell’orologio agli incroci…» spiegò Giovanni pazientemente, sentendosi molto paternalista. Non vedeva però molte alternative di comportamento.
Gianni sfogliò uno dei manuali… storse il muso. Non si sentiva fatto per studiare.
«Pausa caffè?» chiese, sorridendo.
«No. Dobbiamo andavate avanti almeno un paio d’ore.»
«Tu non ti rilassi mai.»
«Mi rilasserò dopo che avremo superato l’esame.»
«Tu sai già tutto. Perché ti preoccupi tanto?»
«Non so molte cose.»
«Non hai il test di Medicina, poi?»
«Ho deciso per Scienze politiche.»
«Da medicina a Scienze politiche?»
«Sì.»
«Non ti facevo così.»
«Che intendi?»
«Insomma, so che ti piace studiare.»
«Mi piace studiare. Studierò Scienze politiche.»
In cuor suo, Giovanni aveva (correttamente) stabilito che poteva avere un futuro solido soltanto se si fosse inserito nei meccanismi di un’euroburocrazia in costante espansione. Perciò una scelta in apparenza inaspettata era, in definitiva, quella più intelligente. Del resto, da quando era stato reintrodotto il numero chiuso in tutti i corsi universitari, ogni laurea aveva guadagnato molto valore, compresa una svalutata come quella in Scienze politiche.
«Cosa farai, dopo la laurea?» chiese Gianni, affilando oziosamente una matita.
«Qualcosa in Europa…»
«Qualcosa in Europa. Anch’io farò lo stesso.»
«Se non passi il test, dubito che potrai mai trovare lavoro a livello europeo.»
«Certo che sì. Starò con lo zio». Era un piccolo imprenditore locale. Aveva un’agenzia turistica.
«Lo zio sta a Ostuni.»
«E Ostuni non è in Europa?» rispose Gianni, strizzando un occhio.
Giovanni sospirò. Le prospettive che il fratello vedeva davanti a sé lo deprimevano. Un lavoretto stagionale come guida turistica o autista di pulmini. Percepire la disoccupazione nei mesi invernali. Non mettere mai il naso fuori dal paese. Non capire il mondo.
«Studiamo» disse Giovanni. «Ti ricordi quando è nata l’Unione Europea? E per quale motivo? Ci saranno sicuramente domande nel genere, nel test.»
«Fu dopo la guerra mondiale, vero?»
«Quale guerra mondiale?»
«La prima, vero?»
Giovanni si mise una mano sulla fronte. Gianni scoppiò a ridere.
«Ti prendo in giro. Non sono tanto indietro. Mettiamoci a studiare, su. Scommetto che sarà come la patente. Non capisco perché ti preoccupi tanto».
* * *
A settembre, i due gemelli svolsero il test insieme. Le loro postazioni, però, erano distanti. Giovanni si era deciso a vincere il forte senso etico che credeva d’avere per aiutare il fratello, ma non ebbe modo. Poiché era un test al computer, i risultati furono comunicati poco dopo a una piccola folla di ostunesi svogliati, seduti nell’atrio della scuola. Furono affissi con un foglio di carta e secretati col numero di matricola, per la privacy.
Giovanni risultò primo, mentre Gianni fu bocciato per un punto. Non era prevista una ripetizione dell’esame docimastico prima di quattro anni, in vista delle elezioni successive.
Andarono al solito bar per rifocillarsi con un caffè e una brioche. Giovanni, si sentiva molto giù, nonostante fosse arrivato primo al test. Era dispiaciuto per Gianni, al quale però non sembrava importare.
«È solo un’elezione ogni cinque anni» spiego in modo accondiscendente al fratello gemello, quello bravo. «Cosa vuoi che cambi? Noi non decidiamo niente comunque.»
«Se non voti, non hai il diritto di partecipare al cambiamento.»
«Di quale cambiamento parli?»
«Tutto cambia. Il mondo sta cambiando.»
«A me sembra sempre lo stesso. Da quanti anni veniamo in questo bar? E poi, la sera, non andiamo sempre a mangiare il panzarotto da Tonio?»
«Tonio quest’anno chiude. Al suo posto metteranno un sushi bar. Tu veramente vuoi che la tua vita sia sempre così?»Gianni fece spallucce e intinse la brioche nel latte e caffè. «Comunque, non credere che non pensi al futuro. Ho parlato con lo zio. Comincerò a marzo.»
«Marzo è lontano. Che farai nel frattempo?»
«Seguirò dei corsi.»
«Dei corsi, certo…» disse Giovanni, ormai rassegnato.
Aveva trascorso inutilmente l’estate sui libri, ma gli sembrava d’aver svolto il suo dovere di fratello. Voleva permettere a Gianni un futuro migliore. A lui, però, quello piaceva. A lui Ostuni piaceva. Pensò, confusamente, che il modello di business dello zio era già antiquato. Non aveva un grande futuro. Cosa avrebbe fatto Gianni, dopo? Sotto-qualificato e privo di altre connessioni? Scacciò il pensiero. Non poteva pensare a tutto. Aveva il test per la facoltà di Scienze politiche la settimana successiva. Per fortuna, il programma era quasi identico.
* * *
Quattro anni dopo, Giovanni era fresco di laurea col massimo dei voti, lode e tesi di prossima pubblicazione per una prestigiosa rivista internazionale. Come prevedibile, Gianni aveva alternato lavoretti a sussidi governativi. Nonostante ciò (e nonostante il consiglio del fratello) aveva deciso di mettere su famiglia. Il battesimo del suo primo figlio coincise col ritorno di Giovanni a Ostuni, dopo due anni d’assenza.
«Era tanto che non mettevo piede in chiesa…» disse, guardando le sagome in cartapesta di qualche artista dell’Ottocento. Valutò l’arredo desueto e di cattivo gusto.
«Era tanto che non venivi da noi…» disse il fratello, strizzando un occhio, dandogli una pacca sulla spalla. Indossava una camicia bianca con un colletto molto aperto, una giacca blu elettrico e dei jeans. Ogni tanto andava nervosamente a cercare il pacchetto di sigarette nel taschino, ma in chiesa non poteva fumare. Lui e la moglie avevano chiamato il figlioletto Marlon. Il prete lo aveva battezzato per sbaglio Mario, e quello perciò restò il suo nome agli occhi del cielo. In effetti, anche Giovanni avrebbe preferito un nome del genere per il nipote.
Alla festa al ristorante sedettero di fianco.
«Moglie e figlio» disse Giovanni. «Così giovane. Ti invidio». Non lo invidiava per nulla.
«Sei ancora giovane» disse Gianni. «Cosa farai ora?»
«Un concorso.»
«Un concorso, certo.»
«Anche tu dovresti fare qualcosa del genere. Controlli mai i link che ti invio?»
«Sì, certo.»
«Perché non fai quello per impiegato amministrativo? Hanno bandito parecchi posti.»
«Non ho i titoli…» rispose, sbadigliando, versandosi il secondo bicchiere di vino.
«È sufficiente il diploma.»
«Bisogna avere la docimologia.»
«Il docimastico. Sai benissimo come si chiama. Perché storpi il nome?»
Gianni strizzò un occhio e sorrise. Il fratello, nell’opinione di Giovanni, era più intelligente di quanto dava a intendere. Il suo atteggiamento di generale lassismo sui vari aspetti della vita lo irritava.
«Docimastico. Docimologia. Che cambia? Non lo passerò.»
«L’ultima volta non riuscisti per un punto.»
«Ero giovane. Avevo la testa per studiare.»
«Hai ventiquattro anni, come me. Ti basterebbe sgobbare per due o tre mesi per sistemarti in un posto come impiegato. E poi, potresti votare. Non vorresti essere un cittadino europeo a tutti gli effetti?»
«Visto quello che state combinando, non ci tengo.»
«Chi sta combinando cosa?»
«Voi.»
«Noi chi? Io sono un neolaureato. L’ultima ruota del carro.»
«Sai cosa intendo» disse Gianni, adombrandosi, versando altro vino.
«Parli come nostro padre.»
«Papà ti ha mantenuto finora. Ti mantiene ancora. Non parlare male di lui.»
«Hai ragione…» disse Giovanni, pentito. «Però devi sistemarti. Ora hai un figlio. Non vuoi garantirgli un futuro?»
Gianni guardò il piccoletto agitarsi nella culla. Sorrise.
«Marlon ha un presente. Tanto basta.»
«Non stai neppure lavorando.»
«Riprendo con la stagione.»
Negli anni precedenti, aveva preso una qualifica come barista nei cocktail bar. Giovanni non era certo che quell’ambiente fosse giusto per lui. Decise che era inutile, a ogni modo, rovinarsi il resto della giornata di festa. Era contento di avere un nipote, per quanto fosse preoccupato per il suo futuro. Ma riteneva d’aver fatto il possibile per mettere il fratello sull’attenti.
«Ancora vino?»
«No, grazie» rispose Giovanni, coprendo il bicchiere con la mano.
* * *
Un anno dopo, Gianni e la moglie (nuovamente incinta) presero il treno per andare a Milano per festeggiare Giovanni, che aveva superato al primo tentativo il concorso per lavorare nell’Unione Europea e dava una piccola festa nell’appartamento che condivideva con la sua fidanzata.
«Michela, piacere» disse, allungando elegantemente il braccio.
«Sono Gianni, il fratello scemo.»
«Ah-ah. Non dire così. Giovanni mi parla sempre di te. Mi ha detto che lo hai salvato in ogni genere di situazione, quando eravate piccoli.»
«Non ha mai saputo difendersi.»
Era un piccolo appartamento che la giovane coppia stava cercando di rendere elegante. L’hi-fi dava un concerto di Mozart. Sul tavolo al centro del salotto c’erano tartine, sandwich e vino bianco di buona qualità.
«So che sei una musicista» disse la moglie di Gianni. Aveva un’aria molto raggiante, ma, insomma, non era esattamente vestita per quel genere d’occasione sociale.
«Suono malamente il violoncello ma per ora non se ne sono accorti, perché mi dà da vivere» rispose vanitosamente Michela.
«Una violoncellista, wow…» continuò la moglie di Gianni, ignara degli sguardi diretti a lui e al marito, felice. In fondo al salotto, Giovanni discuteva di politica con dei suoi ex compagni universitari, godendo enormemente del fatto che loro, ancora, non erano riusciti in qualcosa di altrettanto notevole come superare un concorso per entrare nel governo europeo. Infine, si rassegnò ad andare a salutare il fratello e la nuora. Quando lo aveva invitato, era certo che non si sarebbe preso la briga d’intraprendere quel lungo viaggio da Ostuni.
* * *
La carriera di Giovanni si bloccò ben presto, parliamo di tre anni dopo, quando ci fu un grande scandalo di corruzione nel suo dipartimento. Lui non era direttamente coinvolto, ma era uno di quelli che sapeva e che avrebbe potuto parlare, ma che non aveva parlato per timore di non avanzare. Fu invece la sorte di quelli che parlarono. Lui restò bloccato nella stessa funzione, fin quando non riuscì a diventare un professore universitario, consolandosi al pensiero che una vita di pura teoria era preferibile a sporcarsi le mani in politica, ma, come Machiavelli, cercando sempre in qualche modo di rientrare. In pochi leggevano le sue numerose pubblicazioni e con Michela non ebbe figli e si lasciò quando fu chiaro che la sua carriera, rispetto alle premesse, era stata un insuccesso. Rispetto al fratello, che era rimasto costantemente sottoccupato e che ogni tanto, con sommo gaudio, aiutava economicamente, era sempre stato una specie di pezzo grosso. Ogni tanto andava a fare le vacanze in paese, con la mezza intenzione (non era privo di sentimentalismo) di trovare una moglie meridionale, qualcosa come un’onesta insegnante delle superiori, magari qualche antica compagna di classe, anch’essa alla ricerca di qualcuno in seconda battuta.
«Da quanto tempo veniamo a questo bar?» chiese Gianni che, nonostante fosse ormai padre di tre figli, ancora si concedeva un prosecco verso le undici del mattino, prima di trascorre il pomeriggio in un ufficio dove faceva il passacarte.
«Qui tutto resta sempre uguale…». commentò Giovanni, sorseggiando il cappuccino alla soia, lisciando la camicia sullo stomaco piatto. Non aveva mai smesso di andare a correre. Aveva sempre amato tenersi.
«A voi altri noi serviamo così. Facciamo folklore. Ci scrivete nei vostri libri» disse Gianni, strizzando l’occhio.
«Non so chi sarebbero questi voi altri a cui ti riferisci. E io non scrivo romanzacci.»
«Tra un po’ si vota. Chi voterai?»
«Liberale. Sono sempre stato da quella parte, non ho mai cambiato.»
«Certo, sei un duro e puro.»
«Mi considero coerente.»
«Incorruttibile.»
Giovanni gli lanciò un’occhiataccia, ma decise di non sollevare l’argomento. Infine, rassegnato, disse: «Potresti votare anche tu. Dovresti solo superare quello stupido esame».
«A che servirebbe?»
«A vivere più dignitosamente. Più fieramente.»
«Voi fate sempre quello che vi pare di quelli come noi. Che importa votare o meno?»
Giovanni, ammettendo infine, e implicitamente, che faceva parte dei voi, ma di quelli (e anche Gianni se ne accorgeva) un po’ falliti, disse: «Da quando ho lavorato per l’Unione Europea, direttamente e, ora, indirettamente, mettendo al servizio il mio sapere, vi abbiamo assicurato quindici anni di indefessa crescita economica. Scuole migliori per i tuoi figli. Una rete sociale che ti ha protetto in più di un’occasione. Ora abbiamo anche il primo presidente donna e un promettente programma spaziale. Questo è progresso. Questa è civiltà. Mi spieghi cosa ci sarebbe di tanto male, in noi altri?»
Gianni sorrise. Terminò il prosecco. Strizzò l’occhio. Disse: «Ricordi ancora la coda rossa del pettirosso che vedesti sul pavimento grigio del parcheggio, dalla finestra delle nostre case popolari? A quel tempo giocavi con la macchina fotografica che avevi trovato nella stanza dello zio scapolo, quello che ti faceva divertire in moto e t’insegnava a comportarti da uomo. Sei poi sceso in cortile, su quel pavimento di cemento dove siamo cresciuti, a fotografare il pettirosso, con gli ultimi scatti rimasti da quando facevamo le foto sceme ai piedi del letto? Mi dicesti, contento, ma con la tua aria sempre un po’ falsa, che mi avresti mostrato la foto: ma, pochi giorni dopo, sostenesti che il fotografo l’aveva bruciata. Da allora sospetto di te. Da allora ti credo poco, quando parli».
Domenico Santoro è nato nel 1986 a Ostuni, dove risiede. Laureato in Scienze politiche e Filosofia, scrive narrativa e poesia. Ha pubblicato poesie e racconti su la Repubblica (ed. Bari), A4, Grado Zero, Risme, Il paradiso degli orchi, Spore, L’ircocervo, Quaerere, Bomarscé, Voce del Verbo, Dimensione Cosmica. Nel 2021 ha pubblicato un romanzo, Il posto delle cose, con Placebook Publishing.