«Secondo loro io dovrei morire. Ho paura, Otto. Sembra che o mi ammazzeranno loro, o mi costringeranno a farlo. Uccidermi. Lo capisci? Ma perché tanta cattiveria?»
Otto la fissava, il volto sfregiato da una marcia disperazione di chi non ha più armi. E guardava quegli occhi arrossati, nei quali si era perso più di una volta, fiottare lacrime come idranti. Raccolse tutte le energie per cercare di emanare ad Anna tutta la forza possibile.
«Non posso più sopportare di vederti così. Domani vado dove lavora e gli faccio ingoiare almeno quattro denti.»
«No, non ci vai, non voglio che tu faccia di lui una vittima. Potrebbe dirti tranquillamente che non c’entra nulla, perché è così che fanno gli stalker, perché comunque non è da solo.»
Uno, due, tre.

Una settimana prima, mentre Anna rincasava da sola, aveva raggiunto l’apice della felicità gustandosi un caffè al bar di fronte, mentre Otto era a lavoro nel suo negozio di specchi d’arredo. Camminava in fretta per non incontrare gli sguardi dei passanti. Temeva gli sguardi. Ogni tanto alzava gli occhi per non dover sbattere contro qualcuno. Mentre camminava, iniziò a sentire un rumore strano a ogni suo passò, come di qualcosa che grattava lievemente l’asfalto. Nonostante fosse a due metri dal portone di casa, guardò in basso e vide che le si era appiccicato un foglio sotto la scarpa. Era uno di quei manifesti, una richiesta di aiuto per ritrovare un gattino scomparso. Lo staccò e poi d’istinto guardò di fronte a sé. Un uomo la fissava, accennò un sorriso. Lei fece altrettanto, ma poi abbassò la testa, si mise il foglio in tasca e sgattaiolò dentro casa, rapida come un treno. L’uomo disse qualcosa che lei non capì, ma avvertì una voce nasale, quasi tagliente.
Dopo quell’episodio il suo ciclo del sonno venne devastato con violenza. Ad ogni ora, del giorno e della notte, colpi di clacson di macchine o di motorini suonavano davanti alla sua finestra. Altre volte qualcuno cantava a squarciagola nel mezzo della via. Una situazione che la teneva sveglia, indeboliva la sua serenità e alimentava la sua ansia. Fino a quando non disse tutto a Otto. 
«Il suo volto era gentile, ma i suoi occhi no. In realtà io non ho fatto niente, ma non vorrei neanche averlo offeso». Otto la ascoltava. Cercò di essere più comprensivo possibile e non volle assolutamente far trasparire quel pizzico di gelosia.
Quattro, cinque, sei.

Otto era sempre al negozio. Si telefonavano, ma spesso non era possibile intraprendere conversazioni più lunghe di qualche minuto. Forse il disagio di Anna era anche dovuto a delle mancanze, dei bisogni che Otto non riusciva a soddisfare. La lunga relazione tra i due magari aveva imboccato una strada che aveva bisogno di essere riasfaltata, resa più viva, rinnovata. Dopotutto lei aveva amato solo lui. Magari due occhi addosso in più avrebbero potuto riaccendere anche un po’ della sua autostima svanita da tempo. Mentre Otto vagava per labirintiche strade in cerca di perché, squillò il telefono.
«Pronto.»
«Per favore vieni. Ti prego, chiudi e vieni.» 
Dall’altra parte, Anna urlava in un lamento stritolato dal pianto e distorto dal telefono.
«Ma che succede?»
«Vieni per favore. Ti dico quando vieni. Muoviti a chiudere. Ci sono delle priorità.»
Otto era già per strada e non riusciva a immaginarsi cosa si sarebbe trovato davanti, una volta arrivato a casa. Anna era immobile sul divano, aveva ritrovato una calma apparente che le rese possibile raccontare tutto a suo marito.
I colpi di clacson e le canzoni avevano lasciato spazio a tutto un altro genere di segnali.
«Ho sentito urlare troia e puttana e ancora una voce nasale che diceva vedrai, vedrai».
Credevamo di star leggendo Doppio Sogno di Schnitzler, ma in realtà avevamo agguantato la Dalia Nera di Ellroy. Capita di sbagliarsi. Otto cercò di tranquillizzarla, la abbracciò passandole la mano sulla schiena.
«Ma siamo sicuri che tutte queste cose siano rivolte a te? È abbastanza trafficata questa via e viviamo in una città, la gente ci va pesante col clacson. Anche le offese, magari era qualcuno che litigava al telefono, come quella volta ti ricordi?»
«Tu non mi credi? Stai mettendo in dubbio quello che dico? Credi che sia pazza forse? Io so quello che ho sentito.»
«Non sto mettendo in dubbio niente. Io ti credo. Dico solo che forse dovremmo essere sicuri di tutto.»
Dopodiché lei si tranquillizzò. Volle dormire in salotto, per poter sentire meglio tutto ciò che succedeva in strada. Le finestre totalmente sbarrate, perché aveva paura che qualcuno potesse spiarli attraverso i buchi delle tapparelle. Otto cadde in un sonno profondo.
Sette, otto, nove.

Era una notte qualsiasi, in mezzo alla settimana. Notte fonda. Anna corse alla porta e la aprì. Non lo aveva mai fatto. Non lo permetteva neanche a Otto. Lasciò il paletto inserito e la porta si aprì di soli pochi centimetri. Iniziò a inveire e insultare. Stava facendo valere la sua persona, era finalmente intenzionata a far sentire la sua voce. Otto si svegliò di soprassalto, saltò giù dal letto e corse verso la porta. La chiuse per togliere il paletto e poi la spalancò. Nessuno.
«No ma cosa fai?», ruggì Anna. 
«Cosa era? Dove sono andati?»
«Erano un gruppetto a piedi. Non ho visto dove andavano.»
«Cosa hanno detto stavolta?»
«Che se non faccio quello che vogliono, mi faranno del male. Sono minacce velate. Ricordi l’altro giorno quando ti parlavo del gaslighting? Ecco.» 
I giorni erano diventati tutti uguali. Quando non sentiva le ingiurie, stava al cellulare scrollando pagine senza leggerle, oppure fissava il soffitto. Nella completa solitudine del suo silenzio. Una sera, Otto la convinse a uscire, la portò a mangiare sushi, il suo cibo preferito. Sembrava tranquilla. Ma dopo una mezz’ora il suo volto cambiò. Il tavolo accanto sembrava esserle ostile: parlavano tra loro, ridevano, scherzavano.
«Vedi, mi stanno rovinando la reputazione. Vogliono mettermi in cattiva luce. Vogliono distruggermi prima come persona. E poi, lo faranno anche fisicamente». Non riuscì a godersi neanche il sushi. Una volta a casa si gettò a terra in preda al terrore.
«Mi vogliono controllare la mente. Sono un’organizzazione che per puro sadismo vuole solo distruggere le persone. Vogliono che mi prostituisca, io devo diventare un loro giocattolo perché altrimenti faranno del male a me, a te e alla mia famiglia.»
«Anna, non voglio mettere in dubbio ciò che senti. Ma mi sento in dovere di farti ragionare su alcune cose. Ti pare possibile quello che stai dicendo? Stai descrivendo la cosa come se fosse un horror fantascientifico partorito dalla mente di uno scrittore malsano.»
«Io ho paura.»
«Ti prego. Ti chiedo di ragionare. Secondo te è più probabile che tutto questo sia frutto della tua immaginazione, o che sia un complotto di un’organizzazione criminale, ordito attraverso  tecnologie ancora da scoprire, volto a danneggiarti? Non sei né un politico né una persona influente. Ragiona. Se senti rumore di zoccoli, non pensi alle zebre, ma pensi ai cavalli. Credo tu sia paranoica. Penso che tu sia in preda a una psicosi. È la tua mente che ti sta ingannando, non so per quale motivo, ma è lei che lo sta facendo.»
«Non so che fare.» 
Non si vedeva più il colore dei suoi occhi da quanto erano gonfi. Sembravano fori di proiettile in mezzo alla faccia, fumanti e circondati da una bruciatura incandescente. Umida. Essenza di paura.
«Chiederemo aiuto a un medico specializzato. Credimi, la tua mente ti inganna perché raccoglie le tue paure e ti prende per il culo, percuotendoti a suon di reflussi intrisi di paranoie, insicurezze e traumi. Li annoda insieme e ti ci frusta in maniera subdola. Finché non sei in ginocchio. Finché non hai terrore del tuo stesso sguardo, del tuo stesso respiro, del tuo stesso battito.»
Noi siamo il nostro nemico più grande.


Marco Barucci, 26 agosto 1982, è appassionato di letteratura, fumetti, cinema, musica. Ha collaborato con diverse realtà, tra cui La scimmia pensa. Da quest’anno è entrato a far parte della redazione di StreetBook Magazine, pubblicando un racconto e alcuni altri contenuti. Ha pubblicato anche un racconto su Spore. Mentre cerca di fare lo scrittore, nel tempo libero gestisce una fumetteria a Firenze.