Teresa non era nata neanche da un quarto d’ora quando zia Agata, sporgendosi verso il suo visino ammaccato, sentenziò: «Questa bambina ha gli occhi di suo padre».
Ripeteva quelle parole ogni volta che incontrava la nipote, e ogni volta la madre di Teresa si affrettava a zittirla. C’era qualcosa, in quell’analogia, che la infastidiva; qualcosa che non si sarebbe dovuta leggere nella giocosa operazione di decostruzione e sussunzione degli attributi a questa o quell’altra ascendenza familiare cui gli adulti si dedicano in presenza di un neonato – gli occhi del papà, il naso della nonna, il mento del nonno. Zittendo zia Agata, la madre di Teresa non sembrava semplicemente voler sottrarre la figlioletta a quell’esercizio retorico, ma quasi rispondere a un istinto animalesco di protezione. 
Il padre di Teresa, dal canto suo, era addirittura intimidito da quella somiglianza. Appena zia Agata sciorinava la sua catchphrase, l’uomo storceva le labbra e si allontanava con le dita nelle orecchie. Quando la sorella gli chiedeva perché se la prendeva così tanto, lui le rispondeva, asciutto: «Temo che veda ciò che ho visto io». 

Non bisognerebbe mai esprimere i propri timori ad alta voce, perché il destino ha un udito finissimo. E così, in quarta elementare, durante le prove per la recita di Natale, Teresa vide un uomo grosso come un bue, coi riccioli scuri e il volto olivastro, che marciava verso di lei sbuffando rabbia calda dalle narici. Istintivamente, si parò il volto con le mani ed eruppe in un grido d’aiuto.
«Cosa c’è, Teresa?», le domandò la maestra. «Ti senti male?»
«No, c’è un uomo che mi vuole prendere! È proprio lì!», rispose lei, indicando il vuoto dinanzi a sé.
La maestra telefonò a sua madre per raccontarle l’accaduto. Le spiegò che ai bambini può capitare di avere delle piccole visioni, dovute magari alla stanchezza o alla fantasia che a quell’età è ancora troppo pastosa, e che se si fosse verificato ancora, sarebbe stato meglio rivolgersi a qualcuno. 
Né la mamma né il papà di Teresa parlarono alla figlia. Già era stato un notevole sforzo acrobatico dover rispondere alle continue domande della piccola sul perché non riusciva a fotografare la luna col cellulare o non avesse i nonni paterni. Più di tutti, era suo padre ad avvertire con maggiore categoricità l’esigenza di derubricare quell’episodio a un parossismo dell’immaginazione, e non ne faceva mistero alla moglie. Perciò, al pari di molti altri genitori prima e dopo di loro, decisero che quella di cui fu vittima la figlia era solo un attimo di follia, e la follia non doveva trovare spazio nei discorsi di una famiglia normale.
Teresa intuì presto che nessuno le avrebbe parlato dell’Uomo Infuriato, e le sembrò più saggio appiattirsi sull’omertà genitoriale, anziché insistere e ottenere spiegazioni per sfinimento. Per un po’, le sabbie del silenzio riuscirono a seppellire ciò che era successo e le domande che si trascinava appresso. 
Poi, quando Teresa compì dodici anni, l’Uomo Infuriato apparve di nuovo. 

Una compagna di classe, M., aveva portato delle sigarette. «Conosco un vicoletto vicino al porto», disse, «dove possiamo fumare senza essere sgamate». 
Così, dopo la scuola, Teresa, M. e un’altra amica si ritrovarono per celebrare quel doveroso atto di ribellione preadolescenziale. Si erano messe in cerchio, per farsi scudo l’una con l’altra, e M. – con notevole dimestichezza, per una dodicenne – aveva acceso una sigaretta. Teresa stava aspettando il suo turno, quando vide alle spalle del loro piccolo acrocoro l’Uomo Infuriato che marciava minaccioso verso di lei. I riccioli grumosi, neri come la sfortuna, gli si erano in parte sbiaditi, e attorno agli occhi si irradiavano rametti di rughe, ma era indiscutibilmente lui. Riconosceva la locomotiva a vapore del suo respiro, la rabbia cieca nel suo sguardo. Teresa vide la mano dell’uomo aprirsi come un ventaglio e prepararsi a vibrarle uno schiaffo, e si sfilò lo zainetto per parare il colpo.
«Tere’, tutto bene?», le domandò M.
«C’è un uomo che mi vuole picchiare!», urlò la ragazzina.
«Addò? Io nun veco niente», rispose l’altra amica, raccogliendo la sigaretta dalle mani di M.
L’uomo era sparito. Dalle risatine gracchianti delle sue amiche, Teresa capì che non c’era mai stato. 
Quando tornò a casa, la ragazza si decise a parlarne con i genitori.
«Forse sei solo stressata. Hai il compito di matematica dopodomani o sbaglio?», la liquidò suo padre.
Ma a Teresa quella risposta sembrò un insulto. Portò sua madre in cameretta e la affrontò a muso duro.
«Chi è quell’uomo?»
«Non lo so».
«Perché lo vedo?»
«Non lo so».
«Mamma, ti prego…»
«Come ti dice sempre zia Agata? Hai gli occhi di tuo padre».
«E che c’entra?»
La madre sembrò voler iniziare a spiegare, ma si fermò. Le labbra le si serrarono come se volessero trattenere a ogni costo la risposta. Con una scusa banale, si scrollò di dosso il peso di quella conversazione e andò in un’altra stanza. 

La terza apparizione dell’Uomo Infuriato arrivò appena l’anno dopo, e fu forse la più terribile. M. – sempre lei – aveva trascinato Teresa alla festa di compleanno del ragazzo che le piaceva. C., un compagno di classe del festeggiato, aveva bevuto un po’ troppa birra ed era in quella fase di esaltazione labile in cui saltellava da un gruppetto di persone all’altro cercando un abbraccio nella maniera più molesta e patetica. 
M. afferrò Teresa e la scaraventò letteralmente addosso a C. Lui l’afferrò con le mani sudate, cresciute troppo in fretta rispetto al resto del corpo, e la baciò. Il suo alito era infiammato dalla birra e le sue labbra secche, stropicciate. Tuttavia, non fu quello a far rabbrividire Teresa. 
Da dietro la tavola imbandita di snack del discount spuntò l’Uomo Infuriato. La giovane s’irrigidì e affondò le unghie negli avambracci di C., che scambiò il gesto come un complimento alle sue doti di amatore e incalzò con la lingua. L’Uomo Infuriato avanzava verso di lei con la solita rabbia impacciata. Si sfilò la cinghia e la impugnò come un frustino. Teresa lesse distintamente il suo labiale: vieni qua, pezzo di merda, ti ammazzo.
Si staccò dall’abbraccio di C. e corse via per le scale, urlando.
In macchina, al ritorno, Teresa non disse nulla, né suo padre si azzardò a chiederle alcunché. Più di una volta, la ragazzina sentì le parole pruderle sulle labbra, ma non riuscì mai a incanalarle una dietro l’altra in una frase che somigliasse a una domanda, a una confessione o a una richiesta d’aiuto. 

D’altro canto, il silenzio di suo padre la innervosiva. Sapeva che i maschi non erano in grado di comprendere le emozioni – tutte le femmine che conosceva, da sua mamma fino a M., non facevano altro che ripeterlo –, ma in fondo continuava a sperare che suo padre fosse diverso dagli altri, una specie di eccezione biologica all’ottusità della specie. E allora perché non riusciva a sentire quello che sentiva la sua bambina in quel momento? Perché non prendeva sul serio le apparizioni dell’Uomo Infuriato?
Teresa decise che era ormai tempo di bypassare i genitori. Se avesse voluto sfamare una volta per tutte la sua urgenza di risposte, avrebbe dovuto rivolgersi solo e soltanto a una persona. 
Quando Teresa le descrisse l’Uomo Infuriato, zia Agata tirò un sospiro rassegnato. Prese la nipote per mano e le mostrò un vecchio album di fotografie che teneva quasi nascosto nell’ultimo scaffale di una libreria. Dalle pagine protette da una croccante carta velina giallognola, si levarono lunghi respiri di polvere. 
«Eccolo qua, il tuo Uomo Infuriato», annunciò.
Teresa sussultò. Il suo incubo le sorrideva da una fotografia sbiadita, vecchia di almeno trent’anni. Riconobbe subito i riccioli grumosi, gli occhi vivaci, il ventre pingue che contribuiva a rendere la sua rabbia vaporosa. Ciò che la stupiva, però, erano i ragazzini che, nell’immagine, l’Uomo Infuriato teneva stretti tra le sue braccia: zia Agata e papà.
Teresa poggiò le dita pallide, con le unghiette mangiucchiate, sulla carta politenata, e le girò la testa. In un istante, si ritrovò catapultata in un altro luogo e in un altro tempo.
L’Uomo Infuriato era di nuovo vicino a lei, ma se ne stava acquattato in un angolo, con un occhio nero e un rivolo impertinente di sangue che colava dalla narice destra. Stavolta fu lei ad andare verso di lui, mossa da una furia che somigliava alla prima vampata di un incendio. Teresa vide le mani – non le sue, quelle di suo padre – afferrare il volto dell’Uomo Infuriato e premere i pollici sulle palpebre. Quando sentì un suono simile a quello di due pesanti sassolini che si inabissano in uno specchio d’acqua, Teresa sbucò fuori da quella visione e si ritrovò di nuovo nel soggiorno di zia Agata. Pianse per un’ora. 
Zia Agata le preparò una camomilla e la tenne appoggiata al grembo per un’ora buona. Con calma, le stillò goccia a goccia tutte le spiegazioni di cui aveva bisogno.
L’Uomo Infuriato si chiamava Bernardo, ed era suo nonno paterno. La moglie, cioè la nonna paterna, era morta dando alla luce il padre di Teresa. Quella tragedia aveva fatto impazzire il nonno, al punto di incolpare suo figlio pur di zittire il dolore che lo stava obnubilando. 
«Natale a casa era un inferno», le raccontò zia Agata. «Quando tuo padre divenne adolescente, il nonno lo seguiva ovunque, per punirlo di star divertendosi nonostante la madre fosse sottoterra. Per anni tuo padre ha dovuto sopportare le angherie di tuo nonno. Poi è esploso».
Non ci fu bisogno di aggiungere altro: Teresa aveva già visto tutto. Baciò zia Agata sulla guancia e tornò a casa in autobus senza fare il biglietto, come le aveva insegnato M. 
Suo padre stava guardando la tv in soggiorno. Sentendola rincasare, come rispondendo a un riflesso condizionato, le chiese se fosse tutto a posto.
Teresa non rispose. Corse al divano e lo abbracciò. Lui le baciò la fronte e le scombinò la frangetta con le dita. Teresa protestò, ma senza arrabbiarsi.
«Che c’è?», domandò al padre, che si era messo a fissarla con un’espressione beata. «Niente», disse lui. «È solo che hai proprio il sorriso che aveva tua madre, il giorno in cui ci siamo conosciuti».


Antonio Villani, classe 1989, è un avvocato e uno scrittore: ha quindi il (de)merito di aver riunito in una sola persona due delle categorie umane più permalose in assoluto. Ha pubblicato i romanzi La Venere Dobner (Eretica Edizioni, 2017), Collezione Privata (Scatole Parlanti, 2019), e diversi racconti per varie riviste tra cui Parte del Discorso, Piegàmi, Quaerere e Salmuria