Questa notte ha sognato una volpe. Correva guardinga sul prato tra semicerchi di sedie in penombra, tutte occupate, bianche. Molte donne avevano lunghi vestiti, gli uomini sedevano rigidi; in quell’arena incantata, bisbigliante dell’attesa di un qualcosa che non sapeva spiegarsi, è andata da lei e le ha morso una mano. Ha affondato i denti piano, lasciando solchi acuti nella carne. Niente sangue. Se non c’è sangue, non può fare così male – pensava – non mi ha attaccato la rabbia. Ha scalciato i calzini in fondo al letto, mormorando un lamento. Al risveglio ha tenuto stretta la mano al seno, poi ci ha accarezzato. Teme sempre per noi, non di meno stamattina, per via dell’incubo. 
Da oggi potremmo odiare le volpi. Lei ci crede fragili, crede che le odieremo per repulsione, non per vendetta. Ha studiato la trasmissione genetica delle paure, per questo cerca di non averne mai. Ma i sogni sfuggono e le sembra di sentire ancora una fitta, l’impronta della dentatura, lo spettro di una malattia che si diffonde da dentro. Cerca di distrarsi, si alza. Ci vuole forti, ci vuole guerriere. Come lei. 
Nuotiamo nel mormorio melenso dei nomignoli, avvolte nella placenta. La sfioriamo con dita di gelatina, immerse nel brodo primordiale a cui vorremo tornare chissà quante volte. Ci mancherà questa tenebra ovattata di rosso: il nostro cielo è un emisfero di vasi sanguigni e costellazioni. Nove mesi sono solo spazio che si rattrappisce, il tempo è fluido. 
La mattina scorre sotto la cadenza dei suoi passi e il respiro le si accorcia, salendo una rampa di scale. Asciuga una lacrima, sopra di noi lo scorrere delle galassie rallenta. Deve averle fatto davvero male, quel morso. Decidiamo di mandarle un segnale, calciandola dalle profondità di sé stessa: puntiamo in alto, carichiamo ma le nostre gambe restano troppo deboli. Sobbalziamo con lei e la testa ci esplode, riverbera le conseguenze dell’assalto. Le viene il singhiozzo. Il nostro piccolo cranio a fagiolo regge. È progettato per contenere ogni senso e il senso del mondo intorno, per quando usciremo. Resterà un poco aperto, per permetterci di riempirlo con i primi ricordi, quelli che resteranno irraggiungibili, sepolti sotto alle sinfonie che ci addormenteranno, che quando saremo prossime alle fine torneranno e non sapremo spiegarci come, o perché. 

© Luca Brunetti

Il petto dove poseremo la guancia è scosso, non è singhiozzo, ci siamo ingannate: piange, tanto forte che la sua sofferenza ci appesantisce il cuore, enorme nelle nostre piccole gabbie d’osso. Non ci ha sentito scalciare, non possiamo gridare, la nostra bocca è sigillata e la lingua immobile e vuota, non ci sente. Voci maschili ci arrivano fluttuanti in forma di percentuali, tutte alla stessa frequenza; si aggiungono anche i crepitii di una donna, la sentiamo posare una mano consumata sulla sua spalla. Lei tace, si curva in avanti, allarga le cosce come se volesse già spingerci fuori, darci al mondo in questo stato immaturo, così, incomplete. 
Dobbiamo averle fatto qualcosa di terribile. Dietro alle lacrime non vede più nulla, è sommersa come lo siamo noi. Noi, che in quest’acqua ci siamo da sempre, siamo vegliate dal pompare sordo del suo cuore gigante: quel che è là fuori, quelle voci d’uomo e quella della vecchia, tutte le altre che abbiamo sentito da sotto la superficie, non la proteggono. Quando ha scoperto di noi, ha provato sollievo. Stesa, smarrita e minuscola sopra a un lenzuolo, imbrattata di gel freddo e coi jeans slacciati: la fine della sua solitudine è esplosa per sempre nel raddoppio amplificato dei nostri minuscoli battiti. Allora abbiamo deciso che ci saremmo state noi, per proteggerla.  
Eppure, siamo colpevoli. 
Ci siamo guardate a lungo al di là delle nostre palpebre trasparenti, raggomitolate ciascuna su di sé, identiche. Dovevamo scegliere. Non ci affidiamo alla sorte, non lanciamo monete in quest’acqua, il precipitare delle sue facce sarebbe troppo lento, prevedibile: anche loro, come noi, non possono essere che due. Lo sappiamo sin dal primo movimento del nostro esistere. Siamo due e di due abbiamo il sangue, gli occhi e la memoria. Siamo due, il battito e il levare. 
Due, in un corpo che si fa spazio in questa calotta di carne materna, mettiamo i denti e le unghie prima ancora di aprire la bocca, perché siamo potenza prima di essere parola. Ci siamo nutrite una dell’altra, ci siamo strappate la pelle e succhiate il midollo. È stato un atto sacrificale, cannibalismo di noi per continuare a essere noi. Potrebbero definirci blasfeme, fratricide, ma cosa ne sanno loro del nostro buio, che è caldo e intatto. Noi resistiamo, anche se loro vedono uno, una singola forma dormiente e appagata dal pasto di un altro essere. Lei lo sa. Lei, che per un momento ha pensato di versarci sul pavimento dell’ambulatorio e liberarsi dal dolore, nel crampo al basso ventre ha riconosciuto il morso della volpe e il nostro resistere. Una volta uscite, dimenticheremo il gusto delle nostre ossa e saremo incoscienti del male, di quel che le abbiamo fatto e di quel che le faremo. Ci chiamerà usando un solo nome ma, chiudendo gli occhi, ci ritroveremo riflesse e distinte. In ogni attimo di presente, come nel mare indiviso di quest’attesa, non ci lasceremo mai sole.


Nicole Trevisan vive e lavora in Veneto. Si occupa di case e trasformazioni urbane, scrive abbozzolata nella nebbia e cerca di schiarirsi la voce raccontando incubi.