Seduta su uno scoglio sotto il sole pallido, Kiki guardava i figli giocare. Con le maniche della divisa arrotolate sopra i gomiti, impastavano sabbia e mare. 
Facciamo una casa per i granchi!  le aveva urlato Mai dalla battigia.
Haru guidava con pazienza la sorella, l’aiutava nei passaggi difficili e Mai lo ascoltava seria, piena di ammirazione.
A quattro mani tirarono su le pareti esterne, poi le due interne, che disposero a croce, e infine costruirono il tetto, a cui riuscirono a dare una graziosa inclinazione. 
Indietreggiarono di qualche passo per osservare l’effetto e si scambiarono un sorriso, soddisfatti. 
Haru cominciò poi a disegnare le finestre, aiutandosi con un bastoncino di legno. In ginocchio, girava lentamente intorno alla casetta, lavorando in silenzio, con movimenti leggeri e precisi. Mai lo seguiva passo a passo e con un altro bastoncino praticava un’apertura nei rettangoli tracciati dal fratello. 
Così i granchi vedono il mare da tutte le stanze, gridò a Kiki. 
Mentre apriva una delle ultime finestre, Mai fece troppa pressione e una porzione di muro crollò. Si lasciò cadere sulla sabbia con un lamento. Le labbra le tremavano per lo sforzo di non piangere. Kiki si alzò e stava per andare a consolarla, quando Haru, in ginocchio accanto alla sorella, scoppiò a ridere; Mai fece una faccia buffa e rise anche lei.
Kiki tornò a sedersi. Guardò il mare che luccicava in lontananza, pieno di promesse. Avrebbe voluto salire su una barca e remare fino a lì, per brillare anche lei, ma non era permesso. 
Prese un respiro profondo. L’aria fredda e salmastra bruciò nel petto. 
Mancava solo una settimana all’Esame di Haru. Oh Dei! 
Dopo, niente sarebbe più stato come prima. Il Partito si aspettava il meglio dai propri figli e sopra tutto che proteggessero la Patria dal male che dilagava al di là dei confini.
Quando suonò la sirena e giunse l’ordine di sgombrare la spiaggia, la casetta per i granchi era finita. Kiki si avvicinò per guardarla meglio, ma subito dalla cima della scogliera arrivò un fischio lungo, seguito da altri due brevi. Si immobilizzò e lentamente tornò sui suoi passi. Risalì assieme alle altre mamme e al loro fianco attese oltre la recinzione, in silenzio. Gli uomini del Partito erano venuti a osservare i bambini.

Il giorno del funerale di Tani splendeva il sole e a Kiki sembrò ingiusto. 
Tutto il villaggio si era radunato al Tempio per l’ultimo saluto. Tanta era la gente che le massicce porte rosse erano state lasciate aperte, affinché anche dal giardino si potesse ascoltare il messaggio inviato dal Presidente. 
Spettò al marito di Kiki leggerlo, perché era il più alto in grado tra i presenti. La sua voce velata di tristezza le era suonata formale. 
Dopo, le Autorità avevano reso omaggio a Tani e alla sua famiglia. 
Al termine della cerimonia, il primo sacerdote aveva suonato la campana: quell’unico rintocco aveva valicato i confini del villaggio, si era acquattato nei cuori e lo si era udito anche molto tempo dopo che la campana aveva taciuto. 
Infine, si era formata la coda ordinata dei cittadini: a uno a uno si erano avvicinati all’urna, e inchinandosi avevano augurato a Tani un sereno viaggio verso la casa degli Dei. 
Kiki si era messa in fila con gli altri, sopraffatta dal bianco che la circondava: i crisantemi sull’altare, gli abiti delle Autorità, il viso della madre del ragazzo, arido e immobile. 
Tutti avevano pianto la scomparsa di Tani e avevano porto le condoglianze ai genitori a capo chino, ma non erano riusciti a nascondere il biasimo negli occhi. 
Neppure uno aveva avuto il coraggio di domandarsi Perché?
I genitori di Tani avevano sparso le ceneri del figlio dalla cima della scogliera, davanti alla casa di Kiki, come lui aveva chiesto nella lettera di addio. 
Il vento dell’est se l’era prese e aveva portato Tani lontano, via di lì. Ora poteva essere tutto ciò che desiderava, nessuno l’avrebbe più costretto a essere una cosa sola.
Dopo il funerale, il vento era girato. Aveva cominciato a spirare da ovest, carico di umidità. Era montato gradualmente durante il pomeriggio e quando era scesa la notte, spazzava ormai la costa con rabbia. Il frastuono delle onde era tanto forte da confondere la mente e imbrogliare i pensieri. Kiki lo ricordava a sé stessa, lo ripeteva come una preghiera, immobile nel letto, quasi senza respirare. È il mare, è il mare…
Con gli occhi spalancati nel buio, frugava il silenzio che avvolgeva la casa. 
Sentiva il respiro leggero dei bambini nella camera accanto e quello più profondo di suo marito, che dormiva all’altro capo del corridoio. Sopra tutto, il tic tac della sveglia, che scandiva la notte. 
Si impose di chiudere gli occhi. Pian piano i muscoli cominciarono a rilassarsi e scivolò di nuovo nel sonno.
Eccolo ancora. Allora non l’aveva sognato. 
Si tirò su.
Un rumore sottile, sgradevole, come il gesso che graffia la lavagna, superava quello del vento e del mare. 
Decise di alzarsi e andare a vedere.
Avanzò con cautela nel buio, a piedi nudi sulle assi di legno tiepido che gemevano al suo passaggio. Seguì il rumore, fino alla porta finestra che dava accesso al giardino. 
Sul patio, seduta sulle zampe posteriori, le nove code adagiate davanti a sé, c’era Kitsune. Graffiava i vetri con gli artigli, scrutando l’interno della casa. Smise non appena si accorse della presenza di Kiki. 
I loro occhi si incrociarono. Quelli dorati di Kitsune dicevano Ce ne hai messo di tempo!
Kiki, con la mano che le tremava, aprì la porta finestra. Fece scorrere piano l’anta per non spaventare la volpe e uscì fuori. Il vento le schiaffeggiò il viso e le posò del sale sulle labbra. 
Accennò un passo verso Kitsune e subito la volpe si voltò e si avviò trotterellando in direzione del cancello, avvolta da una luce calda che bucava la notte. Girò la testa per accertarsi che Kiki la seguisse, ma lei era ancora lì, sul patio, le braccia strette intorno al corpo.
Kitsune, allora, si fermò e si sedette. 

Si guardarono a lungo, lasciando che il vento scompigliasse i capelli scuri e la pelliccia rossa, finché Kiki buttò indietro la testa e allargò le braccia. Respirò il mare nel vento. Una, due, tre volte. Poi rientrò. Cercò nel buio le scarpe di tela e il giaccone, li indossò sopra il pigiama e a passi veloci raggiunse Kitsune.
Quando arrivarono là dove finiva la scogliera, la volpe si fermò. Il vento calò improvvisamente e il mare che urlava sotto di loro si placò. I gabbiani ripresero a volare, fendendo il buio con i loro corpi bianchi.
Kitsune si sedette e con gli occhi d’oro invitò Kiki a fare lo stesso. Fianco a fianco, guardarono il cielo nero punteggiato di stelle e poi il sentiero di luce che la luna disegnava sulla superficie liscia del mare. 
Tutto intorno il silenzio della notte era rotto a tratti dai richiami dei gabbiani e dallo sfrigolare degli insetti che andavano a morire contro la rete elettrificata. Kiki, disgustata e affascinata, non poté impedirsi fissare le scintille nel buio e, più in alto, il filo spinato che brillava in cima alle recinzioni. Da bambina le avevano spiegato che era stato messo lì per proteggere i cittadini dal pericolo delle maree, che ingoiavano la spiaggia ogni dodici ore. I varchi venivano aperti dagli agenti di sicurezza a orari stabiliti: gli uomini e le donne in divisa si accertavano che chi passava dal varco per raggiungere la spiaggia, lo oltrepassasse di nuovo per rientrare al villaggio quando suonava la sirena. Era per il loro bene.
La notte non c’era nessuno a sorvegliare, perché l’unico tratto di costa libero era quello davanti a loro, una scogliera a picco sul mare. Scendere da lì equivaleva a un suicidio. Kitsune cercò i suoi occhi e nella testa di Kiki risuonò una parola: Puoi!

In giardino, mentre piantava i bulbi di narciso, Kiki lasciava liberi i pensieri.
Durante la notte aveva sognato Kitsune. La volpe divina le aveva mostrato la Scala di roccia scavata nella scogliera.
Aveva dimenticato la storia che la nonna le raccontava quando era bambina, anche se le aveva promesso di non farlo.
Rammenta Kiki! si raccomandava, ma a un certo punto della sua vita, non c’era stato più spazio per quel racconto che parlava di un tunnel scavato nella roccia. Qualche coraggioso lo aveva percorso, superando il confine, ma per trovarne l’ingresso, bisognava scendere i trecento gradini della Scala di roccia, nascosti nelle pieghe della scogliera. C’era chi aveva cominciato una nuova vita, raccontava la nonna, e chi aveva trovato la morte, precipitando in mare. 
È solo una leggenda si disse Kiki, solo un sogno. Scacciò la sensazione ancora vivida degli occhi dorati di Kitsune nei suoi, dell’erba che frusciava a ogni passo, della pietra umida sotto le mani. 
Si mise a scavare con più energia, piccole buche ben distanziate tra loro; metteva a dimora i bulbi, ricoprendoli di terra leggera. In primavera, il giardino della sua casa si sarebbe vestito di giallo, come quelli delle case vicine. 
A quella zona del villaggio era stato assegnato il narciso e non era permesso piantare altri fiori. Era così che si preservava l’armonia.
Prima di interrarle, Kiki stringeva tra le mani quelle piccole cipolle, un po’ schiacciate ai lati: le sembrava di avvertire sui palmi la vita che dormiva all’interno, proprio come quando abbracciava i suoi figli. Sentiva sotto la loro pelle liscia un potenziale ancora tutto da esprimere, la vita che chiedeva di fiorire secondo la propria natura. Ma lì, nessuno poteva decidere per sé. Il Partito destinava i bambini agli studi più adatti alle attitudini di ciascuno. Per il loro bene, per il bene di tutti.
Vorrei piantare dei giacinti, pensò Kiki. Viola, i miei preferiti.
La sera, durante la cena, sorprese il marito a osservare Haru. Aveva quello sguardo contrariato con cui guardava lei quando la scopriva diversa
Kiki sospettava che avesse già letto il rapporto del Partito. 
Lui non le aveva mai nascosto i suoi progetti: voleva che Haru seguisse la sua stessa carriera e prendesse il suo posto al momento giusto. 
Chissà se anche il padre di Tani lo aveva guardato così dopo l’Esame.

Su una panchina nella piazza del villaggio, Kiki aspettava che Haru e Mai uscissero da scuola. Il profumo delle assi di cedro su cui era seduta la riportò nella casa della nonna, costruita con quel legno che amava tanto. In quei giorni pensava spesso a lei. 
Nella sua casa aveva trascorso momenti belli durante l’infanzia, pieni di sole e di colori. Allora, credeva di essere speciale. Hai tutta la vita davanti, Kiki. Puoi fare tutto, essere tutto, le diceva sempre la nonna. 
Ma l’Esame aveva segnato il confine tra la bambina di allora e la donna di adesso. Si era portato via i colori, lasciandole solo il grigio. 
Le avevano detto di seguire una strada, la migliore per lei, la più sicura, di procedere sulle orme dei suoi antenati. Non lasciarla mai, si erano raccomandati, ti terrà al sicuro dal pericolo e dal biasimo. Ora le era tutto chiaro. Troppo tardi.
Guardò infastidita l’aiuola che aveva davanti, con le sue file ordinate di ellebori porpora, rosa e bianchi, separate da strisce uguali di erba perfettamente rasata e poi l’acero al centro. Osservò a lungo i suoi rami nudi, che si offrivano al vento. Quando era bambina quell’albero le sembrava alto, nobile, ma ora si accorgeva che, pur essendo trascorsi molti anni, non era cresciuto affatto. 

Dopo aver riempito lo zaino, Kiki fece un rapido giro della casa. Si muoveva con sicurezza, indovinando nel buio gli oggetti. Richiamava alla mente i ricordi a cui ciascuno era legato e con un sospiro li lasciava andare. Si fermò qualche momento davanti alla mensola con le fotografie di famiglia. La luce della luna che entrava dalla finestra le illuminava di sbieco, illividendo i volti. C’erano i bambini, c’era lei con il marito il giorno delle nozze, c’erano i suoi genitori e la nonna. Sfiorò con la punta delle dita le cornici di legno, trattenendo le lacrime che le pungevano gli occhi. Prese quella con la foto della nonna e andò a infilarla in una tasca dello zaino, poi entrò nella camera dei bambini. Quando li svegliò, la guardarono con gli occhi velati di sonno e di sorpresa. Pronti per un’avventura? chiese. Annuirono un po’ imbambolati, ma subito l’eccitazione prese il sopravvento.
Li vestì e li avvolse per bene nei cappotti. Con lo zaino in spalla e una scatola tra le mani, Kiki uscì nella notte assieme ai suoi figli. Cercarono di non fare rumore, ma non aveva molta importanza, perché si era assicurata che il marito dormisse un sonno profondo. Prima di andare, si inginocchiò in giardino. Dalla scatola tirò fuori tre bulbi rossicci. Li strinse tra le mani, ringraziando Kitsune e poi li piantò uno accanto all’altro tra i bulbi di narciso. 
In primavera, in mezzo al giallo, si sarebbero distinti tre giacinti viola.  


Barbara G. Castaldo è una ragazza ribelle che vive nel corpo di una sobria signora. Siccome è un po’ perfida, usa questa copertura per giocare brutti tiri alle persone. Legge, scrive, scatta foto tra Parigi e la sua Toscana, cercando di combattere come può una grave dipendenza da vaniglia (al momento, con scarsi risultati). Quando ha tempo, si occupa del suo blog, Frammenti di Parigi.