Con la mamma si andava al mercato e al negozio di alimentari dietro l’angolo, poco prima della piazza, ogni giorno. «Scendiamo a fare la spesa?», mamma poneva la cosa come una domanda, come se avessi la possibilità di dare una risposta che non fosse…
«Arrivo.»
«Sbrigati, che se arriviamo tardi non troviamo più niente di buono.»
«Va bene.»
Ogni volta la storia era più o meno sempre la stessa, specialmente al negozio.
«Mamma, va bene questo?»
«Ha l’etichetta rossa o gialla?»
«No, è nera.»
«Posalo. Prendi quello accanto.»
«Ma lo abbiamo preso l’altra volta ed è buono.»
«Oggi proviamo questo qui.»
«Ma non mi piace.»
«Ti abituerai.»
«Ma mamma!»
«O questo o niente.»
Alla fine questo era meglio di niente, anche se non mi piaceva un granché. La cosa si ripeteva e ripeteva per gli altri prodotti.
«Stasera che ne dici di patate bollite?»
«Le abbiamo mangiate ieri, mamma!»
«In Germania, le mangiano tutti i giorni e sono alti e forti.»
«Ma noi stiamo qui, uffa…»
«O questo o niente.»
Così mangiavo ancora questo che era comunque sempre meglio di niente.
«Mamma, questo ha l’etichetta gialla e dei numeri con la X in mezzo.»
«Non mi piace lo stesso.»
«Ma lo hai mangiato dalla nonna…»
«Questo è diverso, posalo.»
Così imparai che le cose avevano, per mia madre, un gusto diverso se si mangiavano dalla nonna o se si mangiavano a casa nostra.
«Ho preso i carciofi.»
«I carciofi mi fanno schifo!»
«Te li mangi lo stesso perché fanno bene al fegato.»
«Li puoi buttare.»
«Perché non pensi ai bambini <posto sempre diverso che non ho mai trovato, nemmeno cercando bene, sul libro dei Quindici>?»
Così mangiavo perché quei bambini non avevano nulla, mentre mia madre aveva una cucchiaia di legno e sapeva come usarla.

Crescendo, capii che il gusto delle cose in casa mia dipendeva tantissimo da quello che diceva la televisione, in particolare il signore con nome da donna, Angela credo. Angela era sempre ben vestito, tutti i giorni, come per andare a un battesimo o a una prima comunione. Da lui dipendeva la nostra spesa e, di conseguenza, le mie conoscenze sui bimbi poveri del mondo, i piatti tipici degli altri paesi e, infine, il colore del mio fondoschiena.
Nei mesi, tanti altri signori, che mamma chiamava giornalisti, hanno deciso la spesa in casa nostra. Ricordo che una sera, un giornalista ci disse anche di non comprare nulla di fresco e di non bere latte perché da qualche parte, certamente una parte ricca, giacché non avevo mai sentito parlare di nessun bambino che stesse morendo di fame a Cerno-qualche-cosa, era scoppiata una nuvola.
«Mamma? Ma è la stessa centrale del latte dove andiamo con nonno?»
«Quale centrale del latte?»
«Quella del signore giornalista.»
«Ma non dire fesserie, e mangia.»
Così capii che nel mondo non tutte le centrali facevano il latte, ma alcune facevano le nuvole. Se, per sbaglio, però, le facevano male, queste nuvole si arrabbiavano e sporcavano tutta l’erba e tutti i prati che trovavano. Quella notte pregai che le nuvole volassero spedite sui campi di carciofi e di cardi. Fui titubante a proposito dei campi di patate e optai per una leggera spruzzata, ma soltanto per quelli in Germania. I tedeschi, così, avrebbero smesso di mangiarle tutti i giorni e avrebbero provato qualcosa di diverso: un ravanello, magari. Mi vedevo come il salvatore dei bambini tedeschi che odiavano le patate; che vita d’inferno che dovevano fare.
Un signore con un fiore, che mamma chiamava politico e papà con delle parolacce che solo a pensarle andrei all’inferno, disse in televisione che la nuvola era passata e potevamo rimangiare tutto, anche i carciofi e i cardi. Nessun’altra nuvola corse in mio aiuto negli anni seguenti.

Nel tempo, il negozio all’angolo chiuse e aprirono un supermercato, un negozio di alimentari che vendeva anche frutta e verdura fresca. Le offerte, che qui avevano un taglio sul cartellino, con un prezzo diverso, duravano solo un giorno o due. Da soli non riuscivamo a portare tutto in una volta e ci toccava andare e venire dal negozio, salire e scendere da casa più e più volte, e non sempre mamma trovava le dieci lire per l’ascensore.

In primavera, insieme alle zucchine e alle melanzane (che buone che sono, fritte, le melanzane), arrivò anche la vendetta di un contadino tedesco. Dovevo, con la mia preghiera, avergli distrutto l’orto. La nuvola doveva avergli fatto a pezzi tutte le patate. Il contadino tedesco si era così arrabbiato che ormai ne parlava anche il telegiornale.
La nostra spesa era diventata una lotta contro di lui. Tutte le sere, mamma guardava preoccupata per paura che ci rubasse tutte le offerte migliori. Da quella sera odio i tedeschi, ma non tutti. Solo i contadini tedeschi che si chiamano Marco. Solo quelli che non fanno altro che andare e tornare dal super. Solo quelli che non fanno altro che scendere e salire dopo avere preso le offerte migliori. Io non lo so se in Germania, in televisione, parlano di quando io e mamma scendiamo e saliamo, però, da allora, auguro ogni sera a tutti i Marchi tedeschi che fanno i contadini di rompersi una gamba giù per le scale.


Mauro Bennici è nato a Palermo nel 1979. Ha impiegato pochi anni a comprendere che il mondo segue regole diverse dal suo modo di pensare. Così ha iniziato a scrivere per mettere ordine nei suoi pensieri. Oggi, è il cto di una start up specializzata in intelligenza artificiale applicata all’analisi del linguaggio naturale. Partecipa ai gruppi di lavoro della Commissione Europea sui temi dell’etica e dello sviluppo sostenibile. I suoi racconti sono presenti in diverse antologie legate a concorsi letterari nazionali e internazionali.