Pablo

La prima casa fu quella di Pablo. Potevo stare tranquillo, mi aveva detto, il suo coinquilino era andato a Malaga per seguire una conferenza sul metabolismo dei gatti birmani e non sarebbe tornato prima di sabato. Ero già stato a casa sua diversi anni prima. Non sembrava cambiata molto. Livello medioalto di sporcizia, incentivato dalla coabitazione di due uomini, mischiato a un senso generale di trasandatezza e abbandono. Lo stesso Pablo emanava un lieve odore di sudore che ebbi occasione di registrare quando mi abbracciò per salutarmi al mio arrivo.
La cena, mi informava, non c’era, però potevamo ordinare qualcosa, se volevo. Nell’attesa di decidere potevo liberamente servirmi del frigo, che era pieno di birre.
Faceva caldissimo, l’intero appartamento sembrava sigillato dall’interno per ragioni che non mi erano chiare. Chiesi di poter aprire la finestra e Pablo mi rispose che se avevo caldo era meglio accendere il ventilatore. Quella sera avrei capito perché. Dal canto suo Pablo sembrava trovarsi perfettamente a suo agio con quella temperatura. Era già alla seconda birra e il suo aspetto era fresco e pimpante, mentre io dopo una Peroni sudavo copiosamente da ogni poro.
Ordinammo due pizze. Mi presi una margherita, mentre lui un calzone fritto ripieno di salamino piccante, cotto, wurstel, olive, peperoni e tabasco. Un morso di quella roba mi avrebbe garantito un soggiorno prolungato al reparto di gastroenterologia, ma per lo stomaco di Pablo quella era ordinaria amministrazione.
«Ho fatto l’Erasmus in Calabria, al piccante ci sono abituato», mi disse sorridendo.
Trascorremmo la serata a bere un numero non quantificabile di birre e a parlare dei nostri guai, sopratutto quelli con le donne. I suoi rapporti con le donne, mi disse, seguivano tutti la stessa traiettoria, anche se ogni storia era diversa dalle altre.
«Mi innamoro troppo facilmente, è questo il mio problema. Per esempio, un mese fa ho conosciuto Ana, un’amica del mio coinquilino. È  colombiana, e a me le colombiane eccitano da impazzire. Non so perché, hanno qualcosa in più, e poi, com’è noto, a letto sono le migliori».
Gli risposi che non avevo mai conosciuto una colombiana e lui si mostrò meravigliato, dicendomi che le dovevo assolutamente provare. Usò proprio queste parole, come se si trattasse di un piatto gourmet da mangiare al ristorante. Quando finimmo di parlare era già tardissimo. Filai nella stanza di Miguel sperando di dormire almeno qualche ora.
Non era esattamente una camera arredata, ma una sorta di discarica con un materasso buttato in mezzo a un mare di cianfrusaglie. La finestra affacciava su una delle strade più trafficate della città. Sull’altro lato della via l’unico bar aperto sprigionava una terribile musica caraibica. Ad assaporare l’atmosfera, seduti su sporchi sgabelli di plastica, giovani figuri dall’aspetto sudamericano, la cui principale occupazione era osservare con un bicchiere in mano quello che accadeva intorno a loro. Non che succedesse granché, ma i pusher sono un po’ come i pescatori: si mettono comodi nel loro angolo preferito e aspettano l’occasione, fiduciosi che quella pazienza prima o poi sarà ripagata.
A un tratto venni individuato da uno di loro. Chiusi immediatamente la finestra pregando che i vetri fossero abbastanza resistenti da reggere l’urto dei sassolini che quello stronzo aveva iniziato a lanciare contro le imposte. Avrei voluto chiedere aiuto a Pablo, ma le possibilità che il mio amico spagnolo si facesse trascinare in una rissa erano troppo alte. Non potevo rischiare. Nessuno, a parte lui, sapeva dove dormissi quella notte. Mantenere un sobrio anonimato era il mio obiettivo, perciò mi sdraiai sul letto, ignorando le urla di quel pazzo.
Continuavo a sudare, nella stanza dovevano esserci più di 30 gradi. Mi spogliai restando in mutande, ma anche così la sensazione non sembrava migliorare. Anche quando il pusher là fuori smise di giocare al bersaglio con la finestra continuai a sentire le sue urla insieme al frastuono del traffico. Guardai l’orologio. Le tre e venti. Chissà dove andava tutta questa gente. Forse mi stavano già cercando. Oppure cercavano dalla notte qualcos’altro che non potevano trovare di giorno. Le auto continuavano a sfrecciare giù in strada, il tempo scorreva indifferente, a nessuno lì fuori importava di me, ormai neanche al pusher colombiano. Fu grazie a questo pensiero che finalmente riuscii ad addormentarmi quando ormai la luce dell’alba già filtrava nella stanza. 

Alex

Il viaggio era ripreso. Una lunga pedalata verso la mia nuova sistemazione ai confini della città. Un altro indirizzo scritto in una conversazione WhatsApp da scorrere all’indietro. Un paesaggio neo antropizzato si estendeva davanti ai miei occhi. La grande metropoli continuava il suo sogno di cemento a colpi di cantieri e palazzi che si ergevano nel mezzo del nulla, come un tumore che si espandeva lentamente sul pianeta. Faceva troppo caldo per continuare a pedalare. Legai la bici a un palo della luce e saltai sull’autobus. Dal finestrino, tra le erbacce gialle e rosse bruciate dal sole, alcuni ragazzini giocavano a pallone correndo verso porte senza rete; un cane randagio si aggirava solitario cercando qualcosa tra i cespugli. L’autista parlava con qualcuno al telefono di affari immobiliari, ignorando la vecchia a bordo che chiedeva indicazioni.
Mi sentivo attanagliato dall’ansia e non vedevo l’ora di scendere. Forse era la paura che questo viaggio dentro la città potesse durare per sempre. La paura che non riuscissero a prendermi davvero, che questa latitanza potesse durare in eterno. Ero ancora libero ma mi sentivo come un moscone intrappolato in un appartamento, incapace di ritrovare l’uscita. Sbattevo sui vetri della città, ne raggiungevo il confine ma non osavo attraversarlo. Qualcosa mi diceva che se volevo salvarmi non dovevo andare troppo lontano.
Era questo il mio destino? Rimanere incastrato dentro questa città con l’ansia che andava e veniva, saltando da un appartamento all’altro?
La casa di Alex era un posto accogliente. Cantautore, Alex mi aveva ritagliato uno spazio nel suo studio, stendendo una brandina tra le sue chitarre.
La sera, seduti intorno al tavolo nel giardino, la sua compagna monopolizzò la conversazione. Per vivere faceva la sindacalista ma, lo si vedeva dalla rabbia con cui parlava, la sua non sembrava una bella vita. La ascoltavo in silenzio, osservando i suoi occhi scuri illuminarsi dal furore provocato dalle ingiustizie di cui era testimone. Indossava una canottiera nera aderente che metteva in risalto il suo fisico asciutto e tonico. Doveva andare in palestra, pensai, ma quel fisico sembrava modellato più dal suo sistema nervoso che dagli allenamenti. E naturalmente dalle sigarette. Per tutto il tempo della conversazione aveva fumato in continuazione, spegnendole quando non era ancora arrivata neanche a metà e accendendone subito un’altra.
Alex invece sembrava un uomo in pace con sé stesso. La mattina successiva, dopo una chiacchierata a colazione, si era ritirato a meditare per mezz’ora, come faceva tutti i giorni, poi era andato a correre mentre io ero rimasto tutto il tempo seduto sulla sdraio del giardino a leggere e osservare le nuvole mentre cambiavano forma e colore nel cielo di Firenze.
«Quello che conta – mi disse dopo la doccia – è crearsi un’agenda e rispettarla come se fosse questione di vita o di morte. Lo sai, io non sono abituato a organizzare la mia vita e non è stato facile auto-impormi degli orari da seguire, ma poi ho notato che riuscirci mi provocava una certa soddisfazione e la sensazione di aver usato il mio tempo in modo utile. Lavare i piatti o il pavimento è un’attività che può essere rilassante, se fatta nel modo giusto può essere una forma di meditazione. Invece quando mi accorgo di aver passato un’ora a guardare il telefono senza aver concluso niente, sento come una sensazione di disgusto. Che cosa sto facendo della mia vita? Perché passo il mio tempo libero a guardare cosa fanno persone che magari nemmeno conosco? Mi sembra assurdo, eppure è così che stiamo vivendo. Come se il nostro più grande desiderio non fosse essere felici ma essere distratti. Lo trovo inquietante».
Pochi minuti più tardi, in un momento di silenzio, estrassi il mio telefono dalla tasca e Alex fece lo stesso. Dopo una breve occhiata ai rispettivi schermi i nostri sguardi si incrociarono e scoppiammo a ridere. Un messaggio di Célia mi informava che quella sera, se volevo, sarei potuto restare a dormire da lei. La vita mi aveva appena offerto un altro materasso e un altro tetto sotto cui dormire.

Célia

Dal suo appartamento si poteva vedere tutta Firenze. A destra la collina di Fiesole, davanti il Duomo, e più in fondo il profilo inquietante del Palazzo di Giustizia. Sporgendosi sul davanzale alla sinistra si poteva distinguere anche la sinagoga. Una visuale parzialmente limitata dalle foglie di ippocastani che arrivavano fino al suo piano, il quinto.
«D’inverno la vista è più bella, non ci sono le foglie», mi disse. «Dai adesso spogliati. Sono due giorni che voglio farti un pompino».
Ubbidii e immediatamente mi staccai dalla finestra, mi sedetti sul letto accanto a lei e mi sfilai i pantaloni. La vita, pensai qualche istante dopo, mentre Célia schiudeva le labbra intorno al mio glande, è come una ruota, funziona solo se la metti in movimento. Tutto questo mi sembrava logico e al tempo stesso non lo era. Logico era il metodo attraverso cui spiegavo gli eventi, ma gli eventi che avvenivano nella vita di un essere umano di per sé non lo erano. Il passato, solo quello, diventa logico. Il presente non lo è mai.
Se pensavo adesso a quello che era successo ero quasi capace di trovare una giustificazione. Anch’io come Eleonora, la compagna di Alex, ero stanco dei soprusi, delle angherie, delle ingiustizie quotidiane. Ecco perché l’avevo fatto. Eppure anche questa spiegazione mi sembrava una forzatura, sicuramente non falsa, ma neanche completamente vera. Non avrei mai pensato di esserne capace, eppure era successo.

«Hai rovinato un materasso ortopedico da 440 euro, guarda là, è tutto macchiato. Mi fai schifo», erano state le esatte parole con cui la signora Manzini mi aveva apostrofato durante un sopralluogo nell’appartamento che mi aveva affittato. «Adesso sono costretta a trattenerti un mese di caparra per il materasso, e un altro per le pulizie dell’appartamento, questa casa sembra un bordello. Vergognati». Il volto della Manzini si era sostituito a quello di Célia, rallentando decisamente i tempi per la conclusione dei lavori a sud dell’ombelico.
Avevo ascoltato tutte le sue lamentele in silenzio, senza protestare. Poi la stronza era andata sul balcone e aveva gridato: «Mattia! Ma cosa hai fatto? La lavatrice! È piena di ruggine…»
Era vero, in tutti quei mesi non l’avevo mai coperta con il telo di plastica come mi aveva detto. Tutta la pioggia della grondaia rotta era caduta per giorni lì sopra e la ruggine si era espansa divorando come un tumore, come una città, come l’odio che covavo, tutto ciò che c’era ancora di sano e incontaminato.
«Adesso mi fai immediatamente un bonifico di 600 euro per la lavatrice. Questa me la ricompri!»
Célia nel frattempo aveva alzato la testa verso di me.
«Che hai? Ça va
«Oui ça va, continua, ti prego».
Cercai di concentrarmi sul suo reggiseno di pizzo nero e rosa, su quelle tettine che si muovevano seguendo il ritmo della sua testa, ma di nuovo la signora Manzini apparve davanti a me. Adesso era girata di spalle, appoggiata alla ringhiera del balcone, le mani nei capelli.
Gli psicologi lo chiamano raptus, un impulso improvviso e incontrollato che avviene in seguito a un grave stato di tensione: l’avevo afferrata per le caviglie, sollevate più alto che potevo e infine lasciate cadere nel vuoto. La stretta delle sue mani sulla ringhiera del balcone era durata solo pochi secondi. Poi era scivolata nel vuoto, muta, senza lanciare neanche un grido, coprendo i cinque piani che la separavano dal parcheggio riservato ai condomini in un attimo.
Célia nel frattempo aveva alzato il ritmo conducendomi alle porte dell’orgasmo. Smisi di pensare per dieci secondi e venni sulle lenzuola. Osservai le gocce del mio sperma espandersi fino a trasformarsi nel sangue nerastro della Manzini sul cemento.
Terminata la fellatio Célia si era sdraiata accanto a me, sul letto, in reggiseno e mutandine rosa. Adesso era il suo turno, e io volevo solo dormire.

Non sapevo dire se si trattasse solo di sesso o se con lei potesse esserci qualcos’altro di più profondo, semplicemente perché da quando ci eravamo conosciuti non avevamo fatto altro che scopare. C’erano stati dei tentativi di dare un respiro più ampio alla nostra relazione. Un paio di volte avevamo preso un aperitivo salvo poi tornare di corsa a casa. Un’altra volta ci eravamo arrampicati sul monte Ceceri per un’escursione. Ma tutte le nostre sortite finivano sempre con una veloce ritirata nel suo appartamento.
«Sei come un adolescente», mi diceva lei ogni volta che cercavo di scoparla.
Lo ero. Tornare a essere un sedicenne era tutto quello che volevo. Come loro, desideravo restare fuori dalla vita.
Anche Célia, come Pablo e Alex, non sapeva niente. Tutto quello che avevo detto era che la proprietaria mi aveva sbattuto fuori di casa, da un giorno all’altro. Quando mi chiedevano dove fossero le mie valigie rispondevo che le avevo lasciate al deposito bagagli della stazione, per non ingombrare. Tutto quello che mi serviva era nello zaino.
Un’ora dopo il grande volo della Manzini mi ero licenziato inviando una mail alla direzione, mi scusavo per il mancato preavviso, scrivevo, ma mi era capitata un’importante occasione di lavoro all’estero e dovevo partire immediatamente.
Trascorsi la notte da Célia rigirandomi nel letto, in un bagno di sudore. Di notte il cemento della città liberava il suo fiato caldo, come una creatura che respirava affannosamente dopo una lunga corsa. I sensi di colpa vennero a farmi visita più volte quella notte. Mi sentivo un vile che non aveva avuto nemmeno il coraggio di prendersi la responsabilità delle sue azioni.
Quando la prima luce azzurrina cominciò a entrare dalla finestra Célia si svegliò, guardò la mia faccia e disse: «Non hai chiuso occhio, vero?»
«No».
«Lo sapevo».
Sorrise, poi mi dette un bacio. E poi un altro, e un altro ancora. Poi mi sfilò i pantaloncini e afferrò il mio cazzo. Non dormivo bene da giorni, venivo da una notte in cui ero stato preso in ostaggio dalla mia coscienza e la sera precedente avevo all’attivo ben tre orgasmi. Non avevo nessuna voglia di partecipare ai suoi giochetti alle sei di mattina. Eppure la lasciai fare. I suoi movimenti lenti, ma ben cadenzati e precisi, risvegliarono di nuovo qualcosa dentro le mie viscere. Stare con lei era come vivere nei pressi di un incendio latente: bastava che soffiasse un po’ di vento perché tutto riprendesse a bruciare. In un attimo fui sopra il suo corpo, mentre lei continuava il suo movimento aumentando a poco a poco il ritmo della sua mano. Premetti le mie labbra contro le sue, cercando la sua lingua, che invece ritraeva sempre. Per un attimo desiderai che la sua bocca fosse capace di inghiottirmi, avrei voluto scivolare lungo il suo esofago e rintanarmi da qualche parte in fondo al suo stomaco e restare lì per sempre, lontano da tutti, lei compresa. E invece le mie labbra si spostarono sul lobo del suo orecchio destro, mordendolo, e poi più giù, sul collo, fino a serrarsi introno al suo capezzolo. Lei iniziò a gemere delicatamente, e io con lei, mentre sentivo il piacere aumentare. La vista di una costellazione di nei sotto il suo seno fu l’ultima cosa che la mia mente riuscì a registrare prima che un fiotto tiepido si depositasse sulla sua pelle bianca dalle parti dell’ombelico.
Mi abbandonai sul mio lato del letto e dormii cinque minuti di sonno profondissimo, la sua mano che adesso mi accarezzava i capelli, mentre una brezza finalmente fresca entrava dalla finestra, prima che suonasse la sveglia. Célia doveva prendere l’aereo per Parigi e non potevo restare da lei, su questo era stata chiara sin dal giorno prima.
Uscii barcollando dal suo appartamento. Inforcai la bici e zigzagando sulla ciclabile attraversai le strade ancora deserte di Firenze, incrociando lo sguardo di un paio di americane in hangover, e quelle di una dozzina di efficienti quarantenni in tuta da corsa, che sfrecciavano sicuri e forti sull’asfalto dei lungarni. Mi sedetti su una panchina, aprii la rubrica del telefono e iniziai a scorrere i nomi, in cerca di un altro materasso su cui passare la notte. In qualche modo presto sarebbe tutto finito, mi ripetevo. Ma non era vero. Non era il genere di cose che potevano avere una fine.


Luca Limitone è nato nel 1985, inguaribilmente livornese, si è laureato in Relazioni internazionali prima e Storia contemporanea poi. Ha cambiato dieci lavori in dieci anni, tra cui il postino, il mediatore culturale, il sorvegliante museale. Adesso insegna Italiano e Storia in un istituto professionale. Con la mente viaggia sempre verso ovest, dove finiscono le cose, ma con il corpo appena può si sdraia sul divano. Tutto quello che chiede alla vita è un po’ di silenzio.