La palpebra si separa dall’iride consentendo alla pupilla di cercare la luce oltre il buio della camera. La retina forma un’immagine, il nervo ottico la trasmette al cervello e l’esito è un composto liquido simile a una pozzanghera. Prova a divincolarsi dagli stringimenti che lo tengono sul pavimento ma si arrende alla polvere che gli prende il naso e la bocca.
A volte dei passi, un ticchettio leggero, gli forano lo stomaco. Ha provato a ricordare ma torna sempre più indietro: casa, lavoro, macchina. Niente di preciso riguardo a come sia finito in una stanza nera: brividi, un crampo, ottundimento. Le corde che gli bloccano le gambe sono a loro volta fissate a qualcosa: non riesce a strisciare. L’unica mossa è il ribaltamento da prono anche se supino, per la pressione sugli scafoidi, resiste pochi minuti. Inarca la schiena, toglie peso ma crolla a respirare l’odore stantio del tappeto.
Tempo? Ha riaperto gli occhi da quanto: un’ora, due, tre? Niente! Non ha fame, un po’ di sete, gli scappa da pisciare: un leggero senso di nausea gli intrappola le viscere. Perché? Cosa mai ho fatto, si chiede, per essere stato preso così? Ripensa a tutte le vigliaccate ordite, vere o presunte: zero. Chi? Si ripete in testa senza poterlo gridare: la bocca è prigioniera d’un bozzolo di stoffa che del nastro costringe tra la lingua e il palato. Quando si agita, l’adesivo gli tira i capelli.
D’improvviso torna il rumore dei passi, cerca di capire dove sia la porta ma è troppo buio e di fianco c’è qualcosa, forse un divano, che non gli consente d’esaminare l’intero perimetro. Il ticchettio è sempre più prossimo. Tende le gambe, le piega per strappare e si gira a pancia insù; flette la schiena, tira forte e la corda graffia le caviglie.
Una luce tenue, rosata, penetra nella stanza. La vede riflessa sul soffitto mentre i passi girano attorno a quel che ostruisce il suo orizzonte. Ora lo scorge: è un grande letto a cassone. Chi sei, che vuoi, che faccio qua? Vorrebbe dire ma gli escono solo mugugni. Si dimena, ricade col culo sul tappeto da cui sfarfalla la polvere rancida. Il fascio di luce non coglie il viso della persona. Intravede la sagoma. È un fantasma nero, affusolato, dal respiro flebile. Il ticchettio e il profilo gli fanno pensare a una donna ma lui è un pesce sulla sabbia predato dall’ossigeno e dovrebbe supplicare per un atto di bontà invece di bofonchiare furioso.
I passi gli girano attorno, l’aria soffia un profumo dolce, sente il picchiettio dei tacchi di fianco all’orecchio e vorrebbe azzannarli. D’istinto si mette su un fianco e gira la testa andando a sbattere sulla scarpa. C’è una fibbia, un cinturino, prova ad allargare la bocca per liberarsi e mordere dove il viso sente la calza ma riesce soltanto a colpirla con il mento suscitando nella carceriera, sì ora che la sente è una donna, un risolino trattenuto. Il baleno dei ricordi gli illumina un bar, il parcheggio, un’auto. Poi la scarpa sguscia da sotto il suo viso e gli pressa il collo, preme, lo appiattisce al tappeto.
Prova a divincolarsi, s’incurva, ma il peso sul collo aumenta, la suola lo schiaccia al pavimento. Deve rinunciare, si calma e la pressione diminuisce fino a svanire: i passi s’allontanano. La luce rosata si dissolve, la maniglia della porta accompagna il ferro della serratura, i cardini cigolano lasciandolo inerme, prono, angosciato ad annusare la polvere.
La cucina è un guazzabuglio di olio, rosmarino, coriandolo, aglio, pane grattugiato, cipolla, burro, coltelli, ciotole, taglieri, acqua che bolle, soffritti, tritatutto, zucchine sminuzzate, carote a listella, suprema di pollo, mandorle, peperoncino, latte nel bicchiere graduato, menta. Quando prepara, Nadia sguazza nella confusione. Si è divertita a fare la spesa nel piccolo supermercato del paese, non ci tornava da capodanno. Uno dei commessi l’ha riconosciuta, come sempre le ha fatto i complimenti, era stupito nel vederla fuori stagione. Ho fatto un salto a sistemare la casa per l’estate, non mi fermerò molto, ha spiegato. Adora i piccoli supermercati, si fa la spesa con calma, scegliendo, parlando con la cassiera. Poi non è vero che costa di più, dipende da cosa compri. Ad esempio i salumi al banco hanno un buon prezzo; tutto il fresco, tranne la carne, è più conveniente.
Nadia però è preoccupata, Giada le aveva detto che sarebbe stato complicato andare fino in fondo. Apre il frigorifero, prende tre arance, un limone, le spreme, riempie il bicchiere. Il prigioniero dovrà pisciare. Controlla l’orologio, sì, e dovrà mangiare qualcosa. Prenderlo è stato facile: seduzione e perfidia. Bisogna essere convinte e agire con decisione. Il piano era pronto da qualche settimana, conosceva le abitudini della vittima, è andato tutto liscio. Ora è difficile perché deve mettere in pratica la seconda parte e non ne ha voglia. Sedurlo è stato divertente, il resto lo immagina spiacevole.
Apre la porta della stanza e cammina fino alla finestra, sgancia le imposte lasciandole socchiuse. Lo sente mugugnare. Scioglie la corda dal calorifero, lo forza ad alzarsi, lo spinge fuori dalla stanza, verso il bagno. Lui è costretto a saltellare. Ogni tanto accenna una protesta. Lei gli mostra il taser, lo accende: lui si quieta. Il bagno è un locale cieco. Nadia pigia l’interruttore e con la luce s’accende la ventola. Controlla che sia legato bene: caviglia e cosce, cresta iliaca e lombi, gomiti e polso, clavicole e ascelle. Prima di liberargli il braccio sinistro, muove di nuovo il taser, poi spinge il prigioniero dentro.
«Fai quel che devi» ripete due volte «dieci minuti». Chiude la porta e si siede su una panca del corridoio.
Lui, dentro, a fatica si slaccia i pantaloni e piscia mirando le piastrelle, appoggia l’ovale della tavoletta e si siede. Prova a liberare la bocca ma attorno al nastro c’è una fascetta da elettricista e non riesce a strapparla. Rimugina senza trovare un motivo per cui la sconosciuta lo abbia imprigionato. Con le due ex è rimasto in buoni rapporti. Ora è single e non gli sembra d’aver mancato di rispetto a nessuna con cui ha scopato. Chiude gli occhi per ricordare come lo abbia preso: dopo la bevuta con i colleghi, si è trattenuto una ventina di minuti a parlare con il titolare. È andato via che sarà stata l’una e nel piazzale c’era una donna con il cofano aperto, la testa dentro il motore e due siluri di gambe custodite da una gonna svolazzante. Stringe le palpebre per evocarne il viso: capelli lisci corti, a caschetto, un collo fine, gli zigomi aguzzi. È lei. Mi ha narcotizzato ed eccomi qua.

«Dieci minuti» grida da fuori Nadia «ora aprirò la porta, tu cammina all’indietro, non muovere il braccio, non fare gesti improvvisi. Il taser è acceso».
Lui mugugna, tira un calcio a un cesto di vimini facendo saltar via il coperchio, con la mano libera si sistema i pantaloni armeggiando con la cintura e la cerniera.
Lei gira la chiave, apre: «Ti ho detto di spalle» agita il taser come una racchetta da padel.
Si guardano. Lui si lamenta, ha il viso viola, vorrebbe spiegarsi ma non può. Rotea la testa per disarcionarsi la bocca.«Girati e cammina indietro verso di me» ripete lei «non mi costringere a usarlo».
Carica a testa bassa, saltellando sulle gambe, tipo toro nell’arena, ma a Nadia basta scansarsi e lui, non trovandola, inciampa finendo con lo stomaco sulla panca del corridoio.
«Ti avevo detto all’indietro» fa Nadia. Gli appoggia il taser su un fianco: «Era difficile?», preme il tasto.
Il prigioniero contrae i muscoli, picchia il costato sul bordo della panca finendo di rantolare sul pavimento. Nadia si china su di lui e gli afferra il braccio libero, lo porta sulla schiena e gli lega il polso all’altro. Si inginocchia e lo gira supino. Lui è stordito, soffia dal naso e muove su e giù le palpebre. Per farlo respirare, Nadia prende le cesoie e taglia la fascetta, strappa il nastro e gli estrae la calza dalla bocca. Lui tossisce, sputa rimasugli di stoffa, digrigna i denti. Con il viso corrugato, consapevole di non potersi liberare, ancheggia una danza ribelle: sbatte il culo sul parquet, si solleva, cade ancora.
Nadia ride: «Hai finito?». Si siede sulla panca: «Mi dai fastidio se ti muovi».
«Chi cazzo sei?», grida lui con la voce roca, strozzata: «Che vuoi?»
«Se fai così mi dai fastidio» gli appoggia le scarpe sui fianchi e lo scuote «tanto non ti sente nessuno».
«Vaffanculo!»
Nadia alza le gambe, scende forte e con i talloni lo colpisce sullo sterno e in pancia: «Vittorio, Vittorio, fai il bravo».
Lui tossisce: «Chi diavolo sei?», increspa la fronte per pensare, per capire chi sia questa donna, «io non ti conosco».
«Non mi conosci» fa Nadia «lo so, ma io sì: Vittorio Calloni, il grande creativo».
Lui annuisce stupito: «Ho fatto qualcosa contro di te?», si calma, «di male? Spiegati!»
«Ogni cosa a suo tempo» dice Nadia «intanto comportati bene e per te sarà meglio, facile no?»
Lui sbuffa e con lo guardo torbido annuisce.
«Ora alzati» dice Nadia.
«E come?»
«Ci riesci, dai!»
Vittorio Calloni striscia con la schiena verso la parete, spinge con la mani sul pavimento, punta le scarpe sulla panca. Lei lo guarda con le braccia conserte, afferra il taser e glielo mostra accendendolo per fargli sentire il ronzio dell’elettricità e fargli vedere il lampo bluastro che taglia l’aria. Trascinando a fatica la testa sulla parete, Vittorio trova l’equilibrio delle gambe e si mette in piedi.
«Bravo, seguimi» fa lei «continua così e andiamo d’accordo».
Nadia spinge Vittorio nella stanza e accende la lampada. C’è il letto a cassone, in un angolo una poltrona, la TV è sulla cassettiera di fianco alla finestra. Dal soffitto, tenuta da un gancio, scende una corda.
«Lì» fa segno Nadia accendendo il taser «vicino alla corda».
Vittorio, seccato, si gira un attimo verso di lei ma ubbidisce; Nadia afferra la corda e la fa passare tra gli intrecci che legano le braccia e le gambe del prigioniero. Annoda forte strattonandolo verso l’alto. Vittorio annaspa. Nadia si china e gli sfila le scarpe e le calze.
«Stronza» urla lui: «Ho fatto quello che volevi, che…»
Il colpo del taser sui piedi nudi interrompe in un grido afono le parole di Vittorio che inizia a oscillare.
«Ti ho detto che se gridi mi dai fastidio» si sposta a chiudere le imposte «dimmi puttana, troia, baldracca, ma sottovoce».«Cosa ti ho fatto?», balbetta stentato, «cosa ho fatto?»
Nadia chiude la porta, abbassa la potenza della lampada: «Ora te lo mostro» dice accendendo TV e Dvd «sei pronto?»
«Quel cazzo di taser», dice sfiatando, «un secondo».
Nadia prende un bicchiere dal comodino, versa dell’acqua e si avvicina a Vittorio: «Tieni», dice alzando il braccio.
Lui beve avidamente: «Ancora» dice «un altro».
Nadia lo accontenta: «Poi non ti porto a pisciare».
Quando lei s’avvicina alzando il bicchiere alla bocca, Vittorio le annusa il profumo dolce della pelle: «Non puoi slegarmi un po’, sono un arrosto, mi fa male tutto».
«Vediamo come ti comporti» schiaccia play «ora guarda».
Lo schermo si colora e inizia un video, il sottofondo è un pianoforte che arpeggia una melodia triste, prenderebbe la gola anche senza le immagini di un bambino con il viso deforme che la voce descrive come sordo, mezzo cieco, incapace di parlare, di nutrirsi dalla bocca. Però lo presentano come spericolato mentre descrivono la sua famiglia: papà, mamma, fratello, un cane. Raccontano che ogni quarto d’ora il bimbo deve essere aspirato per evitare che la saliva gli riempia i polmoni.
Nadia mette in pausa: «È tuo questo tesoro?», sorride.
«Che cazzo! Tu sei matta davvero», si agita Vittorio, «che c’entra questo?»
«Ne ho altri, sempre tuoi: play…»
«Sono creazioni pro bono».

Parte il video. Nadia scrolla le spalle, trascina la poltrona vicino al prigioniero e si accomoda. Raggomitola le gambe, toglie le scarpe e le lascia cadere sul tappeto. Lo spot chiede un sms per vaccinare migliaia di bambini e salvarli da tantissime malattie. C’è una mamma, ha in braccio una bimba che piange e sullo sfondo c’è una fila di gente scalza, nella sabbia, i fuoristrada, le palme, i colori vivaci dei vestiti, i capelli intrecciati come bambù. La voce chiede di sostenerli, ripete il numero a cui mandare la donazione, è un numero facile da ricordare, è una filastrocca di Gianni Rodari. Nadia allunga i piedi sul corpo di Vittorio e lo spinge, si diverte a dondolarlo. Mette il Dvd in pausa, osserva il prigioniero sbalzare per la stanza mentre lui con la punta delle dita cerca il pavimento per ancorarsi. Slitta, sfiora il marmo, inciampa nel tappeto: la polvere si alza, lui sbraita parolacce sottovoce, lei ride.
«Sei buffo, lo sai?»
«Mi stai facendo questo per i video?»
«Ne ho un altro, lo vuoi vedere?»
«Fanculo!»
Nadia si alza e riprende il taser, lo accende: «Dicevi?»
«No, basta, fermati».
Si avvicina disegnandogli attorno al corpo una scia elettrica, senza toccarlo: «Fermati per?…», fa lei continuando a passargli vicino col taser, «fai la persona educata».
«Fermati per favore, ti prego…», biascica lui.
«Puoi fare di meglio» insiste lei.
«Per pietà, ti supplico, ti scongiuro».
«Ecco, così…», avvicina il taser al viso di Vittorio, ne tratteggia il contorno, «…continua».
«Ti imploro, basta» sente il ronzio della scossa vicino alle labbra, attorno agli occhi, sotto il naso «farò tutto quello che vuoi, starò zitto, perdonami, starò buono, anche i video, non ne farò più, mai più, basta però, fermati, ti prego spegnilo!»Spegne il taser, lo appoggia sulla cassettiera, controlla che le braccia di Vittorio siano legate per bene tra loro e alla corda che scende dal gancio del soffitto. Esce dalla stanza e torna con le cesoie.
«Che vuoi fare?», si agita lui: «Che ti salta in mente?»
«Stai fermo o finisce che taglio te».
«Sono fermo».
«Bravo, non ti faccio niente».
Nadia, fino alla vita, sforbicia le corde che stringono le gambe di Vittorio. Gli slaccia la cintura e gli abbassa i pantaloni, glieli sfila schiacciandoli sul pavimento con il piede.
«Ma che fai?», dice oscillando le cosce, «perché?», si spinge con le dita dei piedi verso l’alto. Tende le braccia, muove i polsi ma niente: è prigioniero.
«Play», sussurra Nadia.
Lui scuote la testa. Vorrebbe riempirla di troia, puttana, stronza. Si trattiene però. Fino a quando sarà annodato al soffitto meglio tacere. Nadia trascina la poltrona di fianco a Vittorio, si siede e inizia ad accarezzargli la gamba. Prima all’esterno, dal femore al malleolo, poi sale all’interno fino all’inguine. In TV c’è lui sdraiato su un letto.
«E quindi?», dice la donna nel video: «Se raggiungono il budget con le donazioni poi vi girano denaro nero?»
«E certo», conferma Vittorio nella TV, «nessuno fa niente per niente», s’accende una sigaretta, fa un tiro: «Fumi?»
«No» fa lei «ed è così per tutti questi video, come li chiami?»
«Pro bono», ride sguaiato «pro me».
Nadia ferma il Dvd: «Ti stai eccitando per la mia mano», dice mentre continua ad accarezzarlo, «o perché ricordi la scopata con Giada, è una mia cara amica, sai? Oppure per il denaro nero che ti ficchi in tasca?»
«È a fin di bene» farfuglia Vittorio «gli spot funzionano, si finanzia chi ha bisogno. Tutto però ha un costo, non è colpa mia, non faccio io le leggi di mercato, io…»
«Zitto, zitto, silenzio» fa Nadia «stai parlando troppo e delle tue parole non m’importa, è roba tua, cose soggettive. Io ragiono oggettivamente» si alza dalla poltrona «ad esempio questo» gli stringe il glande «è oggettivamente turgido. Io dico che sei qui, legato, umiliato, ti sto dimostrando come sei stronzo, come per te creare video di bambini con malattie genetiche tremende, infernali, o spot sui bambini africani con la pancia gonfia d’aria e le mosche sugli occhi è la stessa cosa che pubblicizzare agenzie di credito o merendine, formaggini, o videogiochi, e questo» scende con la mano sullo scroto «è pronto per l’atto sessuale. Giada me lo aveva detto che t’interessa solo scopare, poi viene fuori la storia dei tuoi video pro bono» stringe la mano a coppetta «e questo m’ha fatto incazzare di più, i tuoi spot sono come lo zucchero, fanno venire il diabete, cariano i denti, creano dipendenza».
Vittorio non capisce cosa lei abbia in mente. Quando prova a parlare gli fa segno di stare zitto, lo osserva soffrire e godere.
«Sono una droga, vero?», fa Nadia, «farciti di messaggi subliminali per impietosire, per costringere le mani ai portafogli, per commuovere, per scuotere i sensi di colpa».
«Cosa c’è di male?», riesce a esclamare Vittorio cercando di sfuggire ai movimenti lenti della mano di Nadia, ansimando di piacere: «Aiutiamo il mondo, cerchiamo di…»
«Zitto, ti ho detto zitto» Nadia si allontana, sposta la poltrona e la mette di fronte a lui, si siede e lo guarda «spiegami allora perché mi fai ribrezzo, sono davvero stramba io?»
Vittorio non risponde, vorrebbe impietosirla, pensa agli spot ma a lui non lo fanno piangere, messaggi subliminali certo, è lavoro, un po’ di nero ci vuole, in Italia le tasse sono alte, è importante anche stare bene. Poi ha paura, trema, sente il ronzio del taser anche se è spento. Lei lo guarda con quel vestitino di cotone da casalinga, le calze di nylon con i pupazzetti colorati. Lui prova a pensare a una tattica per cavarsela, a far sì che lei lo liberi, a convincerla che poi non le farà nulla, se ne andrà via, le chiederà perdono anche dopo e non solo ora ch’è suo prigioniero. Niente. Non gli viene nulla. Lui, il creativo top player dell’agenzia, il numero uno dei guadagni, è senza parole, nessuna idea. Solo un corpo penzolante, una specie di straccio, Vittorio che sa di sconfitta.
Nadia incrocia le mani sulla nuca. Si stiracchia, sfila le calze e con il piede gli sfiora le gambe.
«Non so cosa fare con te, adesso».
«Lasciami andare, finiamola qui».
«Vuoi dire che io ti libero e tu vai a casa senza torcermi un capello, senza vendicarti, magari non oggi, domani però. Io come faccio a stare tranquilla, no, non va bene».
«Ti prometto…»
«Zitto, ora mi prometteresti qualsiasi cosa».
«No, no…»
«O magari chiami la polizia?»
«Questa sarebbe l’ultima cosa, ti giuro, ho capito».
«Cosa?»
«Che siamo tutti stronzi egoisti, che non c’importa nulla dei bambini malati, dell’Africa, delle guerre».
«E che doniamo quattro soldi per lavarci la coscienza?»
«Credo di sì».
«È come pagare il pizzo?»
«Sì, se lo dici tu è così».
«Adesso non adularmi».
«Scusa».
«È che non posso fidarmi di te, lo capisci? Non posso proprio, tu ti fideresti al posto mio?»
«Cazzo io sì …come ti chiami?»
«Nadia».
«Nadia, non sono un assassino, non sono uno stalker, sono solo un creativo pubblicitario, non ho mai fatto male a una mosca, hai visto la tua amica Giada come m’ha fregato? Non mi sono neppure accorto che stava filmandoci…»
«Sì, è vero, però…»
«Cosa però?»
«Immagino che l’unico modo, a parte ammazzarti e proprio non ne ho voglia, dovrei poi far sparire il corpo e il peso dalla mia coscienza, no» arriccia le labbra «credo proprio che il solo modo, infallibile, per legarti…» ride «…a me per sempre sia…»
«Cosa? Dimmelo, ti prego, ti scongiuro, ti supplico».
«Certo, proprio così». Nadia toglie il piede dal corpo di Vittorio, si alza, prende una sedia e con la cesoia taglia la corda infilata nel gancio del soffitto. Vittorio piomba sul pavimento a peso morto. «Credo tu abbia compreso».
«Sì, sì», fa lui. Le bacia le caviglie, strisciando, implorando pietà, perdono. «Va bene» dice «ho capito, sono tuo».
Nadia si accomoda sulla poltrona e Vittorio genuflesso inizia a leccarle le dita dei piedi.
«Sindrome di Stoccolma» fa lei «paradossale ma sempre valida, la vittima del sequestro si affeziona alla guardiana a  dispetto del comportamento violento di lei» sospira «bravo, lecca bene, tutte le dieci dita, il calcagno, ecco anche la pianta, e poi il collo fino alla caviglia, bravo, gira con la lingua bene, muovila, piano, più forte, ancora, sei bravissimo, lo sei» è soddisfatta «mi perdonerai se per essere sicura di ottenere la tua futura totale dipendenza psicologica e fisica al mio dominio, andrò avanti qualche giorno ancora a trattarti male, seviziarti, sì, sì, sali più su, bravo» boccheggia con gli occhi socchiusi lasciandolo inginocchiato tra le sue gambe, tende gli adduttori «andrò avanti a torturarti, a domarti, a sculacciarti se necessario» gli stringe i fianchi lasciandosi esplorare dalla bocca, dal naso, dall’alito roco di Vittorio «a picchiarti» si alza e lo spinge via facendolo cadere indietro «a calpestarti» lo umilia col piede, spinge il tallone levandogli il respiro «bravo così, chiedi perdono, supplicami, non puoi dire altro, fare altro» abbassa la voce in un sussurro «noi qui dentro, loro stanno fuori».
Lo prende a calci, lui rotola per sfuggirle, se prova a rialzarsi lo ributta a terra; con le braccia legate per Vittorio è impossibile difendersi, così s’abbandona, soccombe. Lei lo colpisce sulle cosce, nello stomaco, sul viso.
«Durante i maltrattamenti subiti» recita Nadia «il prigioniero prova un sentimento positivo nei confronti del proprio aggressore. È così?»
«Sì, sì».
«Un impulso che può spingersi fino all’amore e alla totale sottomissione volontaria, senti questo?»
«Sì, lo sento».
«Vuoi fare l’amore con me, vuoi? Lo desideri?»
«Sì, Nadia, ti prego, lo voglio, lo desidero».
«Vedremo» fa lei «se ti comporterai da bravo schiavo, da suddito, servo, sottomesso, forse lo faremo».
«Sì, lo sono già, lo giuro. Dominato, subalterno, domestico, prigioniero, vinto, sconfitto, distrutto, piegato, sei la mia padrona, la mia regina, sovrana, regnante, imperatrice».
«Molto bravo», Nadia si siede sul viso di Vittorio, «monarca, despota, dominante, suprema, altissima e tu invece» ride muovendosi sopra di lui «comandato, gregario, ausiliario della sosta, mansueto, maggiordomo, autista, recluso, leccapiedi, annientato». Con la mano scivola sulla pancia: «Di questo posso fare ciò che voglio, giusto?»
Lui, sotto, borbotta un’interiezione incomprensibile.
«Ehi, stop» fa lei «troppa confidenza» si alza. Lo osserva laggiù sul pavimento, «sei davvero ridicolo, giuro».
Vittorio prova a mettersi seduto ma barcolla, Nadia con un calcio lo spinge di nuovo sul pavimento. Si sdraia sopra di lui e danza, lo riempie di schiaffi, morde, lo pizzica: pugni e graffi, gli stringe il collo, preme coi gomiti sul petto.
«Ci vorrà almeno una settimana, cosa dici?»
«No, ti prego, sono già tuo…»
«Zitto, per essere certi che la sindrome faccia effetto e abbia il suo corso facciamo centotrenta ore, come nella rapina».«Che rapina?».
«Sei emotivamente mio debitore perché non ti ho ucciso, vero?»
«Sì, lo sono… ma che rapina?»
«Non importa, certe cose le sai o non le sai».
Si alza lasciandolo stravolto come un naufrago che nuota verso terra senza mai approdare. Si siede sulla poltrona e guardandolo e obbligandolo a guardarla, placa il fatale desiderio che la insidia. Infine prende Vittorio e lo trascina in bagno, chiude a chiave e spegne la luce.
«Ci vediamo domani, buonanotte».
«Sogni d’oro mia padrona… regina… monarca, despota, dominante, suprema, altissima, sovrana, regnante, imperatrice, maestà, principessa, tiranna, dittatrice, potente, eccelsa, somma, estrema, eminentissima, regale, imperiale, prevalente, altezza, autorità, autorevole, dispotica, opprimente, selvaggia, cattiva, malvagia, crudele, autocrate, usurpatrice, spietata, disumana, insensibile, calda, bellissima, sensuale, erotica, dolce, profumata, carnale, eccitante, lussuria, supremazia, totalitaria, liberticida, soffocante, oppressiva, belva, pantera, leonessa, vipera, prepotente, perversa, perfida, conquistatrice, sopraffattrice, feroce, violenta, bagnata, brutale, atroce, attraente, affascinante, indifferente, aggressiva, regina, padrona, libidinosa… mia imperatrice».
«Ora fai silenzio però…», gli intima Nadia bussando.
«Sì, mio tesoro».
«Hai fame?»
«Sì, padrona».
«T’ho portato qualcosa», apre la porta, posa il vassoio, «ho sminuzzato già tutto io».
«Grazie, regina».
«Prego, mio ausiliare della pubblicità».
«Sai una cosa?», fa lui.
«Dimmi…», fa lei.
«Sono contento di averli creati quegli spot».
«Anch’io». Gli manda un bacio e chiude la porta.
È scesa la sera, Nadia osserva le montagne puntare il cielo senza capire chi sia a regnare e chi a sottomettersi. È il manto stellato a divorare le montagne o sono le cime aguzze a penetrare il cielo? L’orizzonte è un palcoscenico elusivo; Nadia e Vittorio, da oggi, sono un corpo solo.


Luigi Antioco Tuveri (Milano, 1964-?) ha pubblicato racconti in antologie, riviste, raccolte. Se lo cercate online lo trovate. Con Gli Elefanti Edizioni ha pubblicato una raccolta di racconti tutta sua (Come sempre la morte, 2019) e un romanzo (In equilibrio sull’acqua, 2021). Tre cose mirabolanti su di lui: Rust Cohle (True Detective 1) è il suo personaggio preferito di una serie; ha visto Interstellar più di 23 volte, e quando un’esagerata e immotivata felicità tende a trasformarlo in un mostro ascolta i Baustelle.