Il locale in cui si erano dati appuntamento era nato tre anni prima, proprio come la loro relazione. Minuscola caffetteria letteraria in cui servivano ottime bevande calde e pessime birre. C’erano libri ovunque lì dentro, sugli scaffali, sui caloriferi, sulle mensole; il registro di cassa era appoggiato su tre tomi minacciosi e pieni di polvere e persino il ragazzo dietro al bancone sembrava uscito da un romanzetto noir, coi suoi baffetti da sparviero, la montatura degli occhiali tenuta in piedi con del nastro adesivo e un percettibile tic che gli faceva muovere all’unisono sopracciglio e occhio destro. Nonostante il caos apparente e un po’ di sporcizia, l’ambiente aveva il suo fascino e lungo le pareti, erano appese cornici minimali, che ritraevano, in bianco e nero, volti noti di molti scrittori. Quando lei varcò l’ingresso, lui era già seduto e, a giudicare dalla bottiglia di birra vuota, doveva essere arrivato con discreto anticipo. Dopo i convenevoli, passarono alle consumazioni. Lei optò per una tisana zenzero e limone, così l’uomo la fece accomodare e si diresse al bancone per ordinare la tisana e un’altra birra.
Non appena furono entrambi al tavolo, per smorzare un po’ di tensione, l’uomo la convinse a giocare a riconoscere l’identità di quei volti appesi alle pareti. Fra quei visi grinzosi e vissuti scovarono facilmente Poe, Hemingway, Virginia Woolf e Jack Kerouac. Fecero un po’ più fatica con Jane Austen e un giovane Pirandello. Ma c’era un ritratto che proprio non riuscivano a decifrare. Come quando si ha a che fare con un volto familiare ma non si riesce in alcun modo ad associarlo al nome giusto. Avendo seguito la discussione, e vedendoli in difficoltà, il ragazzo che lavorava nel locale passò di lì con una scusa e, fra un ammiccamento involontario e un altro, fu ben lieto di rivelare loro che il protagonista della foto fosse Victor Hugo.
Di nuovo soli, rimasero immobili per qualche tempo, l’uno di fronte all’altra, con il fumo caldo che si alzava dalla tisana a mascherare quella stasi che li avvolgeva. Lei cercava un modo per riprendere la discussione dopo che, circa sei mesi prima, si era interrotta. Lui, facendo spallucce persino alla sua coscienza, ingannava i tormenti pensando a Hugo e a come avesse fatto a non riconoscere il più grande romantico francese. Poi, quel lungo e interminabile silenzio mostrò il fianco: la donna abbozzò un maldestro brindisi afferrando la tazza con entrambe le mani e avvicinandola all’uomo. Lui l’assecondò e, quando le sue dita toccarono il vetro gelido della bottiglia, quella sensazione di freddo lo riportò coi ricordi indietro di qualche anno.

Se qualcuno si fosse trovato su quel pianerottolo mentre le porte dell’ascensore si spalancavano, la prima cosa che avrebbe visto uscire sarebbe stata una nuvola d’imbarazzo, schiumosa e svolazzante, e solo alcuni secondi dopo una coppia di giovani adulti. Non c’era nessuno nei paraggi. I corridoi del sesto piano di quell’hotel parigino erano pressoché deserti, e quando i due varcarono la porta dell’ascensore fu soltanto il rumore ammortizzato e trattenuto dei loro passi a contatto con la moquette verde del pavimento a tener loro compagnia. Era quasi mezzanotte e i due erano appena arrivati dall’Italia dopo un viaggio in aereo ricco di turbolenze e snack scadenti. Si conoscevano da poche settimane, merito di un amico in comune, e si erano piaciuti sin dalla prima uscita.
Il viaggio lampo a Parigi era soltanto il loro quinto appuntamento: ancora niente sesso, con lei molto abile a eludere alcuni tentativi di lui, andati a vuoto. In compenso tanti baci, talmente tanti, che il burro di cacao divenne uno spauracchio calorico. L’occasione francese saltò fuori perché lui, in tempi non sospetti, aveva già comprato un biglietto per il concerto degli LCD Soundsystem, gruppo indie rock statunitense di cui era un grande fan. Lei non li conosceva granché, ma come pretesto per una fuga parigina non gli parve male. Lui si offrì di pagare tutto, ma lei si rifiutò e trovò prima un biglietto per lo stesso volo (sborsando il triplo rispetto a lui) e successivamente acquistò il biglietto per il concerto.
L’albergo l’avevano scelto assieme, o meglio, lo aveva scelto lei col benestare di lui. Dalle foto sembrava un posto ok, glamour, caro ma non troppo, nel cuore del quartiere Latino, con un bel letto king size e persino un bagno con un’appariscente vasca vittoriana con zampe da leone. Lei si era già masturbata un paio di volte pensando di essere posseduta in quella vasca, lui almeno il triplo ma senza dare particolare importanza alla scenografia. Quando arrivarono davanti alla porta della camera, le loro menti cariche di desiderio ronzarono impazzite all’unisono, ma non immaginavano che le loro aspettative sarebbero state presto disattese. Il ragazzo appoggiò la tessera magnetica sopra la serratura elettronica e aspettò di sentire click. Poi, col braccio sinistro aprì la porta e lasciò fosse lei la prima a entrare.

«Ti ricordi il nostro primo viaggio? Parigi?»
Lei fu colta di sorpresa dalla domanda e rovistò nella sua memoria alla ricerca di ricordi pertinenti. Non era una smemorata, anzi, era in grado di immagazzinare nella sua testa un’infinità di dettagli ma in quel momento era come se una strana frequenza disturbasse i suoi pensieri.
«Vagamente, è passato un po’ di tempo.»
«Dai, la vasca con le zampe? Proprio in mezzo alla camera di quel motel travestito da albergo: quella non te la puoi esser dimenticata…»
Stava cercando di mettere a fuoco le immagini nella sua testa. Ma era tutto offuscato e poco chiaro, come quando provi a mettere i negativi in controluce per sbirciare in anteprima una foto. Optò per una mezza verità.
«Sì, mi ricordo. L’albergo non era proprio il massimo.»
«Ma che dici? Se ti sei lamentata per settimane.»
La donna non rispose e sperò in silenzio che il discorso virasse presto altrove. Ma non venne accontentata.
«E meno male che non l’avevo scelto io. Fu colpa di Booking e di quelle foto fuorvianti. Il bagno era preso da un’angolazione per cui pensavi fosse separato dal resto della camera. Invece no, era un’unica stanza…»
«Senza bagno?»
«Il bagnetto c’era, ma era un bugigattolo senza finestre. C’era una porticina e dietro un wc. Stop. Il lavandino era sempre nella stanza principale. Dovevamo fare i bisogni in una cabina e poi sgattaiolare fuori anche solo per lavarci le mani. Ma davvero non te lo ricordi?»
«Certo che me lo ricordo. Stavo solo facendo mente locale.»
«E ti ricordi come fu la prima notte?»
«Sì… cioè, voglio dire. Ovvio». Fu la seconda menzogna in pochi secondi.
Lo sguardo di lui, mentre sorseggiava la birra, sembrò cogliere in quelle esitazioni il fatto che lei stesse mentendo e che in realtà non ricordasse davvero quel primo giorno a Parigi. “Che strano”, pensò, in lui era tutto ancora così nitido.

Quello che almeno potenzialmente sembrava essere il set erotico perfetto, per la coppia si rivelò invece fonte estrema d’imbarazzo. La stanza non concedeva privacy, i loro corpi, in un modo o in un altro, si sarebbero dovuti dare in pasto a vicenda. Senza quell’attesa, quelle febbrili aspettative, quell’eccitante curiosità che spesso fa da sfondo alle prime volte. E così, il ragazzo accettò di andar fuori a fumarsi una sigaretta mentre lei si lavava in mezzo a quell’insolita stanza d’albergo.
Non aveva sigarette con sé, solitamente le scroccava, faceva parte dell’esercito dei tanti che fumano solo quelle degli altri. Dovette quindi riprendere l’ascensore, uscire dall’albergo e mendicare una fumata alla buia e fredda notte parigina. Passò qualche minuto senza che incontrasse anima viva, poi, camminando in direzione della Senna, con la guglia di Notre Dame illuminata da una tenue luna autunnale, vide un uomo nero con la testa calva come un ginocchio e con una faccia gommosa e infantile, che stava passeggiando da quelle parti col suo cane, un labrador dal pelo chiaro che, sotto le luci dei lampioni gli ricordò il colore del latte appena munto. Col suo francese livello Google translator riuscì a fermarlo e a chiedere gentilmente una sigaretta. Fu fortunato, l’uomo tirò fuori un pacchetto ancora nuovo, lo sbucciò, e gliene porse una. Il ragazzo, per fare un po’ di conversazione, gli chiese quale fosse il nome dell’animale, ma la sua comprensione orale fece cilecca e quando l’uomo gli rispose sì limitò ad annuire come se avesse capito. Così tornò verso l’hotel e rimase davanti all’ingresso a gustarsi la sigaretta. Era insolitamente gelido per essere settembre. Con il corpo scosso da tremiti, le mani ghiacciate e i denti che battevano, il ragazzo ebbe comunque la sensazione di stare meglio fuori che dentro quella stanza e la sua cortina d’imbarazzo. Pensò che fosse un peccato che un hotel così glam non avesse uno di quegli ingressi con le porte girevoli stile americano, di quelle che impediscono a intemperie, rumore e inquinamento di entrare abbattendo i costi di riscaldamento. Da qualche parte aveva letto che l’inventore di questo rivoluzionario sistema lo aveva fatto spinto dalla sua insofferenza nel tenere la porta aperta alle altre persone, soprattutto alle donne. Sorrise mentre ripensava a questo aneddoto. A lui piacevano le porte girevoli, ma per motivi diversi. Forse perché gli permettevano di avere una visuale di trecentosessanta gradi sul mondo che lo circondava ma, al tempo stesso, gli consentivano di tenerlo comunque a distanza, di non sporcarsi le mani.

«Ti spiace se ordiniamo dell’acqua? Questa tisana è ancora troppo bollente e io ho una sete…»
«Certo.»
L’uomo si alzò mentre lei lo seguì con gli occhi per un po’. Poi si guardò attorno, ma in quel posto erano gli unici avventori oltre al ragazzo dietro al bancone. Lontana da occhi indiscreti, fece così la sua mossa: tirò fuori da sotto la camicetta il ciondolo a forma di mezzaluna che teneva al collo, lo aprì e versò il suo contenuto. Osservò nervosamente la polvere disciogliersi a contatto con il liquido. In quei pochi secondi, le sembrò che il tempo scorresse a rallentatore e che tutto, all’interno del locale, fosse cristallizzato e immobile. Mentre il ciondolo s’inabissava in mezzo ai suoi generosi seni, controllò dove fosse l’uomo e lo trovò ancora davanti al bancone in attesa che il barista gli porgesse la bottiglietta d’acqua: non si erano accorti di nulla. Provò a rilassarsi pensando ad altro, rammentando come fosse arrivata sino a quel punto.
L’idea di rivedersi, dopo molto tempo, era venuta proprio da lui. L’uomo le aveva scritto un messaggio dieci giorni prima. Lei ci aveva messo tre giorni a rispondere e una settimana intera a preparare tutto nei minimi particolari. Aveva scelto il locale sapendo che era molto poco frequentato, sull’orlo del fallimento (proprio come lei) e, cosa più importante, che al suo interno non si effettuava servizio al tavolo. Lavorando part-time in una farmacia aveva avuto inoltre il tempo di documentarsi a sufficienza e, con facile accesso a un’infinità di sostanze, era riuscita ad assemblare un prodotto letale di ottima qualità, coprendo ogni traccia e coordinando ogni aspetto alla perfezione.
«Ecco qua», l’uomo, ignaro di tutto, tornò con una mezza minerale che aprì con galanteria e porse alla donna.
«Grazie», disse lei.
«Hai uno sguardo strano? A cosa pensi?», fece lui.
«Niente di particolare», rispose mostrando un sorriso finto e tradendo così un filo di tensione. L’uomo, stavolta senza fare troppe cerimonie, prese la birra e ne bevve un sorso direttamente dalla bottiglia. Lei abbassò lo sguardo e, senza dire nulla, fece lo stesso con la sua tisana, deglutendo (colpevolmente) in silenzio.
«Come stai?»
La donna si prese un po’ di tempo prima di rispondere. Nonostante si aspettasse che, prima o poi, questa domanda piovesse dal cielo. Fece molta fatica anche solo a muovere le labbra. Poi con un filo di voce disse: «Abbastanza bene».
In realtà avrebbe voluto essere più precisa, avrebbe voluto dirgli che, per colpa sua, non si ricordava più cosa volesse dire star bene, che non si era ancora ripresa e che trovava davvero assurdo il fatto che lui fosse riuscito a sopravvivere sei mesi senza la loro vecchia routine. Senza di lei. Gli avrebbe tanto voluto raccontare quanto la sua vita si fosse liquefatta: una mattina qualunque di gennaio si era alzata all’alba, per la prima volta in tre anni da sola, e si era messa a spolverare per tutta la casa, e aspirare via la polvere dalla loro stanza, succhiandola via dalla scrivania, aspirando col bocchettone il laniccio dalle costole dei libri che avevano comprato e letto assieme e dai vinili che lui collezionava e che non aveva ancora rivendicato. Alla fine le sembrò quasi di levare la polvere anche da sé stessa, per ricominciare da capo, come non avrebbe mai voluto, e nemmeno osato, immaginare.
«Sono contento di saperlo», disse l’uomo e poi si mise a giocherellare con la bottiglia di birra. Era mezza piena ma anche mezza vuota. “Mi assomiglia” pensò la ragazza.