In questa storia ci sono due personaggi; entrambi ugualmente importanti ai fini del racconto, e purtroppo entrambi sufficientemente famosi da non permettere di rivelarne il nome.
Lei è una ragazza giovane, anche se a vederla le daresti più dei trent’anni che ha: in parte perché conosci i suoi precoci ma numerosi passi nel mondo della regia documentaristica indipendente; in parte per la spruzzata fitta di efelidi che le scurisce la pelle chiara e che inesorabilmente la fa apparire più vecchia. Eppure si veste come una ragazzina.
Lui è un regista affermato, di un’età indefinita, ma già ben vicino a quella di una ipotetica pensione, che nel suo campo non si raggiunge mai veramente. Però è già in quella fase della vita in cui anche coloro che hanno trascorso la giovinezza e la maturità in maniera piacevolmente spensierata iniziano a soffermarsi sempre più spesso sull’imbarazzante inconveniente che è la propria dipartita. Se tu lo incrociassi, in uno Starbucks di Manhattan o sul set del suo ultimo dramma manierista e introspettivo, penseresti invece che sembra più giovane di quello che è.
La ragazza con le efelidi entra nella vita del regista affermato in punta di piedi, come sua consuetudine; il regista affermato finisce nella vita della ragazza con le efelidi con noncuranza e con quel tocco di arroganza che lui pensa lo faccia sembrare affascinante.
A vederla con il senno del poi, non c’è da meravigliarsi che le cose siano andate come sono andate.

La ragazza con le efelidi sta aspettando che si faccia un orario adeguato per poter lasciare la villa senza dare a tutti l’impressione di essere una noiosa guastafeste, anche se nessuno l’ha veramente notata, nonostante lei sappia di essere piuttosto graziosa. Ma in quel contesto modaiolo e competitivo è difficile superare la soglia necessaria a distinguersi dalla tappezzeria. È la seconda volta che partecipa a un party di quelle dimensioni, e ancora non ha visto girare vassioi colmi di cocaina, o escort illuse dalla possibilità di comparire in qualche pellicola. Tutto ricorda un insopportabile scambio di favori travestiti da moine, in un costoso buffet di lavoro.
La ragazza con le efelidi è stata invitata perché ha appena girato un documentario sulla vita di un attore semisconosciuto, in concorso al Sundance. La sua rappresentazione commovente di un’anima tormentata in cerca della sua identità ha proiettato il giovanissimo attore verso una parte clamorosa nel prossimo film del più affermato regista newyorkese. E qui arriviamo al secondo personaggio del nostro racconto.
Nel momento in cui la storia prende il via, la ragazza con le efelidi sta cercando di sgattaiolare con disinvoltura verso l’ingresso secondario della grande casa di Whitley Heights, mentre l’affermato regista newyorkese (in realtà nato Hartford, CT) si è appena scrollato di dosso un seccatore, imbucatosi alla festa tramite una vecchia amicizia che gli doveva un favore, e sta cercando il bar per farsi servire il quarto Moscow Mule della serata. Caso vuole che proprio un Moscow Mule abbia in mano la ragazza con le efelidi mentre il regista le piomba addosso, rovesciandole sui vestiti una quantità di vodka sufficiente a farle subire un controllo con l’etilometro da qualsiasi pattuglia in servizio su Cahuenga Boulevard. Lei si lascia sfuggire un’imprecazione che farebbe pensare a un disturbo di Tourette.
«Dovresti guardare dove vai», mormora mentre si spazzola il petto sottile, curva in avanti.
Il regista la scruta cercando di capire se si tratti di un’attrice. Pur essendo sufficientemente gradevole ed espressiva, le mancano l’abbigliamento giusto e la cura per i dettagli che le donne abituate a lavorare con l’estetica non trascurano in nessuna occasione. Poi, la ragazza con le efelidi realizza che il tir che le è arrivato contro è uno dei registi che hanno fatto germogliare in lei il desiderio di dedicarsi al cinema, nove anni prima.
Istintivamente balbetta: «Tu sei…»
«Sì, sono io», risponde lui, fintamente annoiato, rendendo il loro incontro se possibile ancora più adeso agli stereotipi romantici. Ma questa non è ancora una storia romantica e anzi non lo sarà mai.
Il regista le offre un fazzoletto, nell’estrarre il fazzoletto dal taschino perde un pacchetto di sigarette, la ragazza coglie l’occasione al volo mendicandone una, e i due finiscono a parlare di Grande Cinema nel patio con vista sulle fresche colline di Santa Monica.
Due ore dopo, poco prima di lasciarsi a malincuore, invece del numero di telefono il regista le lascia un aggancio.
«Sto terminando il mio ultimo film.»
La ragazza ha evitato fino a quel momento l’argomento, ben sapendo che il regista sta concludendo il suo dodicesimo lavoro nel più assurdo segreto, e non vuole sentirsi zittita da un no comment. Muore viceversa dalla curiosità e quelle parole le danno una considerevole palpitazione.
«Il mio produttore mi ha parlato di una singolare possibilità di marketing per aumentare l’aspettativa del film. Girare un documentario sul film, facendolo uscire due settimane prima dell’uscita, o forse addirittura in contemporanea. Non abbiamo ancora deciso chi potrebbe occuparsene, ma i fondi sono già stati stanziati. Nel caso, potrebbe interessarti? Si traterebbe di due settimane di riprese e…»
«Sì», risponde semplicemente lei.

Per riuscire ad arrivare all’interno del capannone, la ragazza con le efelidi è stata fermata tre volte, all’ultima delle quali è addirittura seguita una perquisizione, per controllare che non porti sul set un cellulare. Tutta quella sicurezza le pare superflua, considerato che ha anche firmato un NDA, ma sa bene che l’abuso di Modafinil può portare alla paranoia.
Quando arriva al livello più interno del set per le riprese però le si presenta una scena quantomeno anomala. La troupe che le è stata assegnata dalla produzione, visto che non le è stato possibile scegliersi i soliti collaboratori, è già sul posto ad aspettarla, ma a parte loro il capannone è in uno stato desolato. Da nessuna parte osserva quella frenesia tipica di chi svolge un lavoro in cui ogni ora costa milioni, e per la maggior parte i membri della crew sono intenti a fumare sigarette, chiacchierare o bere caffè dalla espresso machine a fianco del buffet di stage.
Scrutando e vagando riesce finalmente a trovare il regista.
«Ciao, ma… che succede?» chiede, interdetta.
Il regista volge lo sguardo a lato.
«Cosa intendi?»
«Beh, non vedo riprese. Non state girando, eppure avevo capito che foste qui già da un paio d’ore, da stamattina, e…»
«Ci siamo presi una pausa» conclude, sbrigativo.
La ragazza rimane in silenzio e si guarda nuovamente intorno, cercando di capire l’ambientazione del film dai fondali degli interni usati per le scene. In teoria deve essere un film interamente girato in interno, eppure il materiale di scena sembra pochissimo. Non vede fondali, non vede truccatrici o fonici al lavoro. Nessun costume di scena. Nulla che caratterizzi in qualche modo l’opera di un regista che il mondo ha imparato a conoscere come il più visionario della sua generazione.
«Quindi, come… come ci regoliamo?» conclude, più che altro per provocare una reazione.
«Eh, beh, direi che tra poco iniziamo a girare. Tu farai qualche piano sequenza su di me, qualcosa su di noi che giriamo, senza ovviamente rivelare nessun dettaglio sul film, perché altrimenti… hai capito, no? Tutto si basa sulla segretezza del nostro soggetto, se esce qualcosa, siamo fritti…»
Il regista si gratta la testa, imbarazzato.
«Anzi, forse è meglio che iniziamo con le interviste.»
«Certo, però forse è meglio che almeno io abbia un copione da leggere.»
«Non c’è nessun copione da leggere», la zittisce lui scuotendo la testa: «Proprio non si può fare.»
La ragazza con le efelidi aggrotta la fronte.
«Ma come sarebbe? E come devo fare io a girare un documentario su un film di cui non conosco neanche il soggetto? Che domande devo fare, nell’intervista, che cosa ha senso inquadrare mentre girate?»
Ma il regista si allontana dietro una parete divisoria, fingendo una chiamata.
«Mi preparo e ci vediamo nella 7B», le grida indicandole una stanza alla sua destra.