Una lampadina che boccheggia, oscilla in una giornata senza luce, i portelli serrati. Arieggiate, dico, e un ragazzo sui vent’anni esegue. L’odore di sangue fresco, quello buono da macelleria, vorrebbe uscire, uscirebbe, ma l’aria è immobile oggi e l’odore non esce. È nella cabina di prua, dice un uomo coi baffi. Il medico legale? chiedo. Il ragazzo scuote le spalle e io proseguo. Il cadavere è sul letto, i piedi toccano terra, il busto collassato di lato. La mano aperta contiene ancora la pistola, una rivoltella cromata. Guardo bene l’arma, le guancette di legno pregiato, il metallo lucido; è una pistola che vale più di uno stipendio. La barca era chiusa? chiedo. Dall’interno, abbiamo dovuto sfondare un osteriggio. Cos’è un osteriggio? chiedo. E il ragazzo indica i frammenti di vetro. Torno a poppa e guardo la serratura. La chiave era dentro? Sì, dice l’uomo coi baffi, il tambuccio era chiuso quando siamo arrivati. Non chiedo cosa sia il tambuccio. Sul tavolo da carteggio c’è un mazzo, individuo il doppione ed esco. Dalla barca si vede quasi tutta la città, costruzioni e strade aggrappate alle pareti montane. Inserisco la chiave nel nottolino e provo a girare. Cosa sta facendo? chiede il ragazzo a quello coi baffi. Ha parlato piano, per non farsi sentire. Controllo che non l’abbiano ucciso, rispondo, e poi siano usciti usando una chiave di scorta. C’è il biglietto, dice quello coi baffi, e mi indica il tavolo. Un blocco, aperto, la stilografica accanto. C’è il biglietto.

Torno alla cabina di prua. Le fotografie alle pareti raccontano una vita intensa: in caduta libera, da qualche parte nel deserto; sui tornanti di un passo alpino; in posa sul ring, coi guantoni alzati e il paradenti. Nell’angolo bombole da immersione e nel gavone la tuta da motociclista. Guardo il corpo, lo immagino vivo, seduto sul letto, la pistola in mano, l’arma che sale alla tempia, l’uomo rivolto a poppa. Evito le macchie di sangue e raggiungo il letto, mi chino e guardo dove stava guardando lui. Si vedeva nello specchio, dico, quando s’è sparato, poi il busto è caduto di lato, nella posizione in cui è adesso. Nessuno dei presenti commenta. Quanti anni aveva? chiedo. Quarantadue. Figli? Nessuno. Il medico legale non arriva? Il ragazzo allarga le braccia.
Arriva il medico legale. Compila la scheda e scrive: morte per arresto cardiocircolatorio. Torno in ufficio e il piantone, dalla soglia del corpo di guardia, chiede con fare sornione, Omicidio? No, taglio corto. Lui si rimette a fare quello che faceva prima, finge di studiare gli schermi di sorveglianza, io salgo. In corridoio mi aspetta il miglior amico del morto. Piange e lo lascio in pace mentre copio i dati nel verbale. Lo conoscevo da quasi vent’anni, dice, siamo stati ovunque, insieme, ci siamo immersi ovunque, insieme, oceano, grandi laghi, ovunque. A domanda risponde: per quanto a mia conoscenza non aveva mai palesato propositi suicidari. A domanda risponde: non aveva nemici né era implicato in attività illecite. A domanda risponde: non mi risulta essere mai stato sottoposto a cura psichiatrica. Aveva relazioni sentimentali? chiedo. Sorride. Quante ne voleva, dice, e le dovrebbe vedere, una meglio dell’altra. Prende il telefono e mostra con orgoglio alcune fotografie, tutte ragazze avvenenti, fra i venti e i trent’anni. Questa era la sua fidanzata al liceo, dice, e mostra una quarantenne in forma. Pensi che ogni tanto se la scopava ancora, continua, ma non lo giudichi male, per lui erano tutte storie importanti, così diceva, e ci credeva davvero, sebbene quelle storie finissero ogni volta in niente di fatto. A domanda risponde: non aveva problemi economici, anzi. A domanda risponde: non so indicare alcun motivo che possa averlo spinto a compiere l’insano gesto. Che lavoro faceva? chiedo. Istruttore di vela, e skipper. Per questo viveva sulla barca a vela? L’uomo sorride, di un sorriso triste. No, dice, viveva in barca perché non voleva sentirsi legato a una casa, diceva che preferiva così, amava la libertà. Stampo il verbale, riletto, confermato e sottoscritto e lui piange ancora. Lo accompagno all’uscita. Mi perdoni, dico, ma non capisco. E l’uomo si blocca. Mi aiuti, dico, mi aiuti perché non capisco, non capisco davvero il perché. Cosa le devo dire? risponde, l’ho sentito ieri, era pieno di progetti, come sempre. Era appena tornato dall’arcipelago ma aveva già voglia di partire, mi ha raccontato della stazione di pulizia delle mante, voleva tornarci con me; gli ho detto va bene, andiamo, e invece… Tace per alcuni istanti lunghissimi. Era appena tornato, dice poi, e se ne va.

Passano due settimane e mi contattano dalla centrale. Raggiungo la costa, una zona periferica dove le industrie sono quasi tutte abbandonate e i condomìni sconsolati si assomigliano gli uni agli altri. Entro nel palazzo e un vicino mi guarda e indica il cortile sul retro. Trovo il solito ragazzo giovane in piedi, e accanto a lui una donna che piange tenendosi una mano sul volto e l’altra nel gomito. La basculante di un box è aperta, all’interno un uomo, cinquant’anni circa, appeso con la cintura a un tubo del soffitto; le braccia stese lungo i fianchi, le gambe flesse, le punte dei piedi che strisciano al suolo. Il portone in lamiera del garage è rovente, dentro non si respira, esco. Cos’è successo? chiedo alla signora. Lei annuisce e s’asciuga le lacrime. Ieri sera è sceso, mi ha detto che voleva sistemare la rimessa, però. Era suo marito? chiedo. Lei annuisce. Vada avanti. Ecco, è sceso e io mi sono coricata; però questa mattina, al risveglio, pensavo fosse risalito e che io non l’avessi sentito ma nel letto non c’era. Le lenzuola ancora stese e il cuscino gonfio mi hanno fatto capire che non aveva dormito con me. Mi sono spaventata, pensavo a un malore, sono scesa di corsa e l’ho trovato così, così com’è adesso. La porta del box era aperta? chiedo. No accostata. Capisco, e lei ha idea del perché? Perché si è ucciso? chiede. Esatto. Perché è un crapone maledetto, perché ha la testa dura. Aveva perso il lavoro un anno fa, era tecnico elettrico, non trovava nulla, solo qualche impiego in nero, roba da uomini di fatica. Non era un problema, per me, glielo dicevo sempre, e mio figlio ci passava qualcosa, per le bollette e il resto, ma Pietro era… La signora si interrompe. Mi accorgo che il ragazzo mi sta facendo segno, c’è qualcuno al telefono che vuole parlare con me, ma non è il momento adatto. Dopo, gli dico. Pietro, continua la signora, negli ultimi tempi diceva spesso di sentirsi un fallito, perché non era in grado di pensare alla sua famiglia, ma che crapone maledetto! E piange di nuovo. Aspetto la scientifica, devono fotografare tutto ma il cielo è una cappa e decidono di collocare alcuni faretti. Sarà lunga. Salgo nell’appartamento, vago per le stanze, niente di interessante, il ragazzo mi ha seguìto. Si sa qualcosa, chiede, dell’altro tipo? Quale? Quello sulla barca a vela. Cosa vuoi sapere? Mi sembrava una cosa strana, nel senso, ecco, non ho capito perché l’abbia fatto. Non so cosa dirti, rispondo, e scendo. Il medico le- gale se ne sta andando. Causa della morte, dice, arresto cardiocircolatorio. Torno in ufficio. Omicidio? chiede il piantone. No, gli rispondo, e mentre salgo lui sorride e torna a sedersi davanti agli schermi che non guarda.