Dopo una settimana circa mi spediscono al canile municipale. Non ero mai stato qui, dico al custode. Non viene nessuno, è la risposta. La strada che conduce allo spiazzo è stretta; la vegetazione incolta di arbusti la stringe ancor più, il verde si confonde col grigio dell’asfalto. L’aria immobile, l’odore di polvere. Il corpo è nell’auto, l’auto è parcheggiata accanto ai cespugli. Le portiere aperte, per ossigenare l’abitacolo, i vetri ancora opachi, la scientifica attorno. Non era così quando l’ho trovata, dice il custode, era chiusa. Un tubo di gomma, da giardino, infilato nella marmitta e sigillato con diversi stracci. Abbiamo identificato il corpo? chiedo. L’uomo coi baffi mi fa capire, a gesti, che vuole parlarmi da solo. Lo conoscevo, dice, gli ho perquisito casa, con la postale. Aspetto che vada avanti. Era pieno di immagini, se mi capisce, per cui l’hanno denunciato. Va bene, dico, e tornando all’auto incontro il medico legale. Mi fermo e lo guardo. Dottore, scommettiamo che indovino la causa del decesso? Quello allarga le braccia. Secondo me, dico, è arresto cardiocircolatorio. Può essere, risponde, devo prima verificare. E me ne vado.
Lui credeva di essere un grande esperto di informatica, dice il collega, ma aveva solo copiato qualche trucchetto qua e là, è pieno di siti per gente come loro, siti che spiegherebbero come eludere le indagini, prometterebbero l’impunità, invece l’abbiamo beccato senza problemi. Scambiava fotografie con gente all’estero. Ora ti spiego: quelli sono fuori giurisdizione e quindi non possiamo fare niente, allora li usiamo come esca, capisci?, basta aspettare, e appena parte uno scambio dal territorio nazionale, noi lo tracciamo. Il tuo morto l’abbiamo beccato così e il pubblico ministero ha firmato il decreto senza problemi. Ne abbiamo fatti settanta quel giorno, in dieci province diverse, non hai idea di cosa ci troviamo davanti, gente di ogni tipo, per lo più insospettabili. Come lui. Vuoi la mia opinione? È per la questione della figlia. Ti spiego. Gli abbiamo trovato le foto, come al solito, qualche migliaio, ma per un numero così esiguo ormai i magistrati non fanno arrestare. Abbiamo sequestrato tutto per analizzarlo con calma, capisci?, alla fine è quasi sempre materiale russo o cambogiano, ma lui sapeva che avremmo trovato altro. Ti spiego: il loro mercato funziona come quello delle figurine, capisci?, gli scambi non sono tutti uguali, ogni immagine ha un valore, ci sono i doppioni, la roba che hanno tutti, e il tuo morto, per ottenere qualcosa di pregiato, barattava le foto di sua figlia, sua figlia capisci?, sette anni, nuda, in posizioni inconcepibili. Abbiamo chiesto subito la misura cautelare, sarebbe arrivata in qualche settimana. Nessuno sapeva ancora della figlia, nessuno tranne lui, ma sapeva che il segreto non sarebbe durato a lungo, capisci? Capisco, gli dico, e torno in ufficio. Aspetto in auto finché il piantone termina il suo turno. Quando se ne va, io salgo.
Finito di lavorare passo in caserma, una doccia veloce, esco a piedi. Mi recupera Martina in una via laterale. Ventinove anni, sposata, tre figli. Impiegata amministrativa del Comune. È venuta a prendermi con la sua macchina. Andiamo in albergo? chiede. Le spiego la storia delle schedine alloggiati e dei piantoni annoiati. E quindi? chiede. La porto sotto al viadotto della tangenziale, quello vicino allo stadio, quello alto. Sposta un seggiolino. Andiamo dietro, dice. L’auto è spaziosa e io mi appoggio su di lei. Ha la pancia piatta, nonostante le gravidanze, e un buon odore. Vengo alla svelta e resto adagiato finché carezzo la soglia della sonnolenza. Non ho mai avuto relazioni clandestine, dice, ma ne ho parlato con le amiche e volevo provare, dice, pensavo che tu fossi la persona giusta, dice. Io non commento. Ogni tanto mi picchietta sulla spalla, per farmi capire che la schiaccio dove non dovrei, o magari la scaldo troppo. Credi in Dio? chiede. No. Sei sposato? No. Mai stato sposato? No. Come mai? Non cambierebbe nulla, dico. Lei mugugna e torna in silenzio. Non ero mai stata qui, dice, è tranquillo. E mi riporta in caserma.

Passano cinque giorni e mi chiamano in una villetta dei quartieri nuovi. Il prato, ingiallito dall’afa, curva prima verso l’alto poi piega in basso: sulla cima una struttura rettangolare con finiture in pietra spaccata. Salgo ma la porta è chiusa. Suono, nessuno apre. Coi dorsi di entrambe le mani blocco i riflessi alla finestra e scopro un salotto ben arredato, foto di famiglia, e polvere. Giro sul retro e mi aspetta un declivio, un lago, piccolo ma abbastanza ampio da sopportare un pontile. E sul pontile un gruppo di persone. Le raggiungo e vedo il cadavere, i capelli che ondeggiano sott’acqua, il bacino avvolto dalla corda, l’àncora immersa nell’argilla. L’acqua fosca tinge perfino le rive. È la moglie, dice il ragazzo giovane indicando una donna che piange. Signora, dico, può venire con me? Poi guardo gli altri sperando che capiscano, senza doverlo spiegare, quanto era inopportuno lasciarla lì, sul piccolo molo, a guardare un corpo volteggiare nell’acqua. Suo marito, chiedo, aveva qualche problema particolare? Lei annuisce. Nostro figlio, dice, e piange più forte. Mi spieghi, per favore. È venuto a mancare, due anni fa. Com’è successo? chiedo. Un incidente, è uscito per giocare a pallone, era così bravo, e non è più tornato. Mi spiace molto signora. Quella cosa ci ha spezzati; ma se io, dopo qualche tempo, sono tornata a vivere, lui invece, lui invece no. Torno al molo e l’odore d’acqua dolce mi colpisce. Io devo andare, dico, continuate voi e mi raccomando, quando arriva il medico legale, serve il referto. Se c’è qualcosa di strano chiamatemi.
La domenica sono al campo di volo. Stringo le cinghie dell’imbraco e attendo l’apparecchio. Ala alta, sta scendendo dopo aver lanciato il suo primo carico. Atterra, si avvicina, apro il portellone e salgo. L’elica butta l’aria e il cherosene bruciato dentro l’abitacolo. Accanto a me un ragazzo, è la prima volta, si vede dagli occhi, decolliamo e il viso sbianca, sangue rappreso sotto gli zigomi. Si guarda attorno spaurito e gli sorrido. Perché mi fissano tutti? chiede. Perché ti invidiano, rispondo, sei quello che si divertirà di più. Arriviamo in quota e il pilota grida. Quattromiladuecento, un minuto al lancio. Si apre il portellone, l’elica si ferma, uno dopo l’altro i miei compagni spariscono, anche il ragazzo, ch’è l’unico a urlare. Io appoggio i piedi nel nulla, gli scacchi dell’agricoltura in lontananza, la catena montuosa che abbraccia il mare, la città in mezzo, mi lascio cadere, solo cinquanta secondi, poi tocco il pilotino sopra al gluteo, lo tiro nel vento e le cinghie tirano me, verso l’alto, sospeso. Alzo gli occhi: apertura regolare della vela, niente fiamme, o reggiseni, niente ferri di cavallo. Sgancio i comandi a trazione e chiudo gli occhi.

Lunedì arrivo in ufficio presto e il piantone, con un foglio giallo in mano, piegato in quattro, mi aspetta appoggiato allo stipite. Arresto cardiocircolatorio, dice. Io gli strappo il referto dalla mano, lo leggo di fretta, Non è omicidio, dico. E salgo.
A fine mattinata chiamano dal Policlinico, una ragazza minorenne in fin di vita. Quando arrivo è morta. Ingestione di pillole, dice il medico rianimatore. Assunzione volontaria? chiedo. È più complicato di così, dice, si guarda intorno e chiude la tenda. La ragazza ha inviato parecchi messaggi, dice, almeno così sostiene la madre, il telefono è di là con gli effetti personali ma io non l’ho toccato. Vada avanti, dico. Ecco, la ragazza ha scritto la stessa cosa a tutti, parenti, amiche, il fidanzatino, ha scritto che non le volevano abbastanza bene e che aveva ingerito una gran quantità di pillole; i parenti l’hanno portata subito al pronto soccorso, sono in sala d’aspetto; è arrivata cosciente, abbastanza lucida, ha minimizzato, aveva ingurgitato una ventina di pillole per l’influenza. E quindi com’è morta? chiedo. Sono state quelle a ucciderla, una morte dolorosa e irreversibile, le hanno causato una grave insufficienza epatica, succede spesso, in molti sottovalutano il paracetamolo, può essere un veleno spietato. E poi guardi, dice, e mi porta al corpo, male illuminato, steso ancora sul lettino, adagiato nel corridoio laterale della rianimazione. Vede i polsi? chiede. Annuisco. Le cicatrici indicano pregressi tagli volontari. Tentativi di suicidio? chiedo. Sinceramente, dice, non sono un medico legale ma sembrano troppo leggeri. Gesti dimostrativi? Annuisce. Capisco, e mi sa dire la causa della morte? Arresto cardiocircolatorio, risponde lui. E me ne vado.
Esco dal reparto assieme a un’infermiera che dimostra ventidue anni al massimo. Ne ho trenta passati, dice, e intanto mi paga un caffè al bar dell’ospedale. La guardo meglio. Ne ha trenta passati. Il bar è squallido, io lo noto, lei nota che l’ho notato. Scusa, dice, ma non posso uscire dall’ospedale, non col camice e gli zoccoli, non durante il turno. Vive col fidanzato, vorrebbero un figlio da lui. In rianimazione, l’aria fredda sulla pelle scoperta delle braccia era quasi fastidiosa, qui è diverso, l’odore di antisettico si sente ancora ma il caldo è insopportabile. Per caso, dico, hai una zia che fa le pulizie in centro, a casa di gente ricca? Lei scuote la testa e mi lascia il numero.
Prima di tornare in ufficio mi allungo dal meccanico. Uno dei semimanubri era allentato, dice, potevi ammazzarti. Le vibrazioni, continua, capita. Già che ci sei, dico, cambiami l’olio che ho in programma un giro lungo.
Arrivo in ufficio. Com’è andata in ospedale? chiede il piantone. Incidente, dico. Lui resta un momento interdetto, Come incidente?, chiede. Capita, rispondo, e salgo in ufficio.