Le goccioline rosse si rapprendono sul terreno sabbioso facendosi scure, segnano un percorso tortuoso e intermittente, quasi impercettibile a occhio nudo, che entra per l’ingresso laterale del circo.
«T’hanno spaccato la faccia?»
«Lasciami stare, va tutto bene…»
«Cu ti tocca u ‘mmazzu!»
«Piantala, t’ho detto che sto bene, non ho mica bisogno di niente…»
«Perdi sangue dalla bocca, prendi ‘sto fazzoletto. Ma chi t’ha menato, si può sapere?»
«Oh ma che c’avete tutti, sono cazzi miei!»
«Insomma, dobbiamo andare a pestare qualcuno? Lo sai che siamo una famiglia, parla…chi è stato?»
«Cu pecura si fa, u lupu s’a mancia.»
Riza si scosta dal gruppetto, ma il Siciliano insiste e lo accosta al tendone, lo guarda fisso negli occhi coi folti sopraccigli increspati, il ragazzo non parla, abbassa lo sguardo, poi d’un tratto il Siciliano comincia a ridere così forte che è costretto ad allontanarsi per potersi accucciare sulle gambe e facendo forza sui quadricipiti non crollare dagli spasmi. Il contagio è rapido e insolente. Adesso si sganasciano tutti dalle risate e si danno plateali pacche sulle spalle, solo il Siciliano sa il perché, ma non riesce a parlare, il riso gli strozza la gola, ha perso il controllo delle corde vocali che si lasciano scuotere da flutti d’aria improvvisi. Gli altri ridono così, per immaginazione, sono talmente predisposti a sorprendenti rivelazioni quando c’è di mezzo Riza che si preparano in anticipo.
Intanto il Geco si fa rosso in viso e cerca di svignarsela prima che qualcuno riesca a infamarlo. Ma prima di riuscirci, con uno sforzo sovrumano, tra sputacchi e rantoli acuti, il Siciliano sputa fuori: «‘A buttana…’a fimmina!»
Ancora un coro di risate sgangherate, di quelle con la bava alla bocca e gli occhi chiusi dall’apertura mandibolare in preda a deliri intermittenti. Ma il Geco se n’è andato. Una fuga che sa d’assenso.
Cammina con le mani in tasca e la testa china, per non dare nell’occhio e non suscitare altre domande e, appena ce l’ha a tiro, corre in bagno a guardarsi la faccia. Gli ha spaccato il labbro inferiore, ha perso pure il piercing, continua a gocciolare sangue. La ragazza picchia duro, non c’è dubbio. Al Geco non importa se gli altri lo sfottono perché le ha prese da una donna, vuole solo dimenticarla. Metterci una pietra su, ma non gli riesce, continua a ricordare il suo volto, le sue lunghe gambe in minigonna, le tette ritte, la bocca rossa e lucida.
Prima gli ha mollato un cazzotto da peso medio, poi, senza pietà, gli ha afferrato la faccia con una mano, strizzandolo per le guance, e l’ha minacciato di raccontare tutto al magnaccia se si fosse fatto rivedere ancora da quelle parti. Riza se l’è data a gambe, ma continuava a voltarsi per guardarle il culo e allora lei l’ha mandato a quel paese e gli ha lanciato pure un sasso, per poco non lo prendeva in un occhio. E Riza rideva, correva e rideva, sembrava scemo. Poi s’è fatto serio, perché ha capito che lei non scherzava e che non l’avrebbe più rivista, invece lui s’era innamorato, così, solo a guardarla. Il destino gliel’aveva fatta incontrare in un modo bizzarro e adesso gliela negava con tutta quella rabbia.

Riza non ha i documenti in regola, è orfano, anche se Kadir il Turco l’ha tirato su come un figlio. La madre, una moldava danzatrice e allevatrice di boa, l’abbandonò assieme ai suoi rettili che era ancora un fagottino e da quel momento Kadir lo prese con sé, lasciando intendere una paternità presunta e mai dimostrata. Il Turco era uno che parlava poco e beveva molto. Lavorava come uomo di fatica, governava gli animali, dava loro da mangiare, montava e smontava il tendone, lo stesso lavoro che ha ereditato il figlio. Nessuno aveva mai sospettato una relazione con la contorsionista dell’est, ma nessuno ha mai chiesto e quando lo ritrovarono annegato nel fiume con la pancia piena d’alcool più che d’acqua, era troppo tardi per fare domande. Il suo passaporto fradicio venne consegnato al piccolo, che lo fece suo passando di colpo da ragazzino a quarantatreenne. Assieme al documento fu recuperata anche la collana d’oro con la mezza luna che il turco portava sempre al collo: unica eredità dell’effimera famiglia.
Riza tiene il passaporto, scampato al naufragio e tenuto insieme con lo scotch, nascosto nelle mutande, è l’unico atto che testimonia la sua esistenza, ma al circo è come a casa sua, è il figlio di tutti e tutti lo proteggono. Quando vengono a fare i controlli gli altri lo coprono e lui va a nascondersi. Si arrampica come una lucertola, il suo vero sogno sarebbe un domani debuttare al trapezio. Quando i carabinieri se ne vanno spunta fuori, si mette a saltare sulla rete e a ridere come un pazzo che ha scampato la galera. Una volta l’hanno beccato, nessuno s’era accorto del finanziere in borghese nascosto tra il pubblico, ma Riza non s’è fatto prendere dall’ansia, con una manovra a dir poco sospetta ha estratto l’avanzo di documento dalle mutande e l’ha esibito all’ufficiale. Il tizio l’ha scrutato con diffidenza, poi ha controllato il cartone macerato come se mancasse qualcosa, ma alla fine gliel’ha restituito con una pacca sulla spalla mentre si affrettava a separare due che bisticciavano nell’arena.
Riza è nato con la colpa, la colpa d’esser venuto al mondo per errore, d’essere un incidente, un capriccio rinnegato e abbandonato senza che neppure si degnassero di dargli un nome e questa colpa impalpabile lo segue da sempre come un’ombra spingendolo a giustificarsi con tutti di tutto, anche delle cose che non lo riguardano, e a commettere brutte azioni per potersi difendere ancora dalla sua stessa ombra, in un circolo vizioso che si ripete crudelmente. Così da quando era un moccioso si è sempre dato da fare rubacchiando qua e là. Piccole somme di denaro, qualche gioiello lasciato incustodito nelle belle case con le finestre spalancate, che l’attirano come una gazza ladra. Non l’hanno mai beccato finora, è uno scalatore e un saltatore provetto, ma al circo continuano a negargli un futuro da trapezista o da acrobata, non per questo smette di allenarsi, e ogni tanto allunga le mani su piccoli bottini che poi corre a nascondere al sicuro negli autocaravan a strisce rosse e bianche.

Nel piazzale degli animali i ragazzi si radunano sempre in chiacchiere, si litigano i goal del Campionato, si prendono a sberle e poi brindano con bottiglie di birra, passano in rassegna le gnocche della serata prima, ficcano il naso nelle relazioni torbide che animano il tran tran della comunità circense.
Riza gira al largo, teme che lo punzecchino ancora con la faccenda di ieri, ma Giuseppe gli fa cenno di avvicinarsi, è il suo diretto superiore e non può fingere di non vederlo, adesso poi ha pure fischiato e mentre l’elefante gli risponde con una strombazzata dal recinto dirimpetto, Riza è già nel pieno del dibattito giornaliero. Parlano di un barbaro omicidio avvenuto in una villa non lontana da lì. Hanno pure comprato un quotidiano che si passano l’un l’altro appiccicando la faccia sui caratteri dattiloscritti, smaniosi di scovare dettagli raccapriccianti.
Due coniugi sono stati orribilmente uccisi, non c’è traccia dell’assassino, né dell’arma del delitto, gli inquirenti stanno valutando più piste, ma quella del furto pare poco probabile: non manca niente nell’abitazione.
Il Siciliano ha già dato la sua versione dei fatti: delitto passionale, lui era cornuto e aveva scoperto tutto, l’amante li ha fatti fuori.
La coppia è stata torturata brutalmente. Regolamento di conti, c’è anche la pista balcanica.
«Certo, sempre colpa nostra, quando non trovano l’assassino allora dicono che è stata una banda d’albanesi o di rumeni.»
Riza non si lascia coinvolgere, le parole restano intrappolate in superficie, si stratificano in un filtro che gli copre la vista, oltre quel velo può pensare ciò che vuole.
«Macché delitto passionale, mica siamo in Sicilia Gaeta’, questi sono dei ladri professionisti, non hanno trovato il bottino e zac, li hanno sgozzati perché li avevano visti in faccia.»
Pensa a Mirka, ai loro incontri furtivi, più precisamente al secondo. Si erano appartati nel boschetto dietro la ferrovia. Lei si spogliava con pigrizia, come se volesse perdere tempo. Parlava poco, solo negli spazi lasciati vuoti dalle sigarette. Riza ricorda soprattutto il proprio sconvolgimento, le palpitazioni, la pressione della passione. Era bagnato di sudore, ma lei non sembrava farci caso mentre l’aspettava nuda, sdraiata sull’erba fresca della sera, sputando nuvolette di fumo nel cielo nero.
«Li hanno sgozzati come vitelli, magari è un macellaio, o un chirurgo, perché no? Sai quanti serial killer si è scoperto dopo che erano dottori?»
Si era lasciata solo i sandali ai piedi. Riza aveva provato a sfilarglieli, ma lei aveva ringhiato: «Lascia stare, è troppo complicato… tanto facciamo in dieci minuti, non ne vale la pena!»
In fondo Riza trovava eccitante fare l’amore con i tacchi che gli graffiavano i fianchi.
«Chi è entrato in quella casa racconta una scena raccapricciante. Uno su tutti, il procuratore capo: ne ha viste tante in quarant’anni ma un duplice omicidio così efferato è un caso raro. Brutta storia. Pareti imbrattate di sangue. Pozze rosse sul pavimento. Un orrore confermato scientificamente nella tarda serata di ieri dai medici legali dopo oltre sei ore di autopsia. Una decina le ferite di arma da taglio e da punta trovate sul corpo della signora, collo, bacino e addome. Sul corpo del marito molti più ematomi compatibili con un pestaggio. Per entrambi le lesioni più profonde sono intorno al collo. In ogni caso, la causa della morte è certa: emorragia da lesione da arma da taglio e da punta.»
«Riza, dov’eri l’altra notte?»
«Riza?»
«Con la sua bedda, a bottana… o sacciu io.»
Uno scroscio di risate tira una crepa nel filtro ovattato di Riza che adesso è costretto ad assistere alla solita presa per il culo.
«Unn’u capiste cà un si nni futte na minchia?»
Altro scroscio di risate e Riza che cade dalle nuvole.
«Vai dalle scimmie vai… che hanno fame, senti come strillano, vedi se con quelle t’intendi!»

Riza si lascia il capannello di pettegoli alle spalle, piegati in due dalle risate, è abituato a provocare la loro ilarità senza volerlo.
Gaetano sa della sua cotta per la ragazza, una sera ce l’ha pure accompagnato (un gran pezzu di sticchiu!, ha commentato), ma il giorno dopo già lo sfotteva con gli altri, solo perché Mirka fa la vita (lasciala perdere, è ‘na mignotta, futti e paga, te lo dico perché ti vogghiu beni…).
Riza trascina indolente il sacco della verdura da dare alle scimmie; gli sguardi indiscreti si sono convertiti in sguardi curiosi di bestiole pacifiche e inoffensive che fanno solo un gran baccano e si domano facilmente col bastone.
Finalmente libero, si abbandona ai ricordi ancora freschi del terzo e ultimo incontro con la ragazza. Mirka si era sfilata la minigonna scoprendo le sue nudità. L’aspettava seduta a terra, sopra la felpa di Riza, (i soliti tacchi bianchi ai piedi). Ma lui esitava. Fumava come un turco, e forse lo era. Alla fine lei gli aveva detto di darsi una mossa perché il quarto d’ora stava per finire.
Il mese di sosta della carovana era quasi arrivato alla conclusione e Riza si affrettava a concretizzare la relazione, a coniugare le due carriere, ipotizzandone una conclusione comune.
Era giunta l’ora di dichiararsi, di ammettere le proprie responsabilità e di riparare al danno…
«Allora?» insisteva Mirka.
Ma lui si era fissato a esaminarle il volto, l’occhio ancora livido sotto il trucco e lo zigomo giallastro che la lama tagliente del tramonto infuocava e rendeva sfacciatamente più evidente che negli altri incontri notturni, e si sentiva terribilmente in colpa, come se fosse stato lui a colpirla. La solita colpa connaturata al suo essere era cresciuta esponenzialmente in odore di responsabilità e lo ammutoliva facendogli tremare gambe e braccia.
«Vestiti, altrimenti non mi concentro…»
«Ma sei pazzo? Ne ho vista io di gente strana, ma tu li batti tutti.»
«Devo parlarti, se resti nuda mi vengono in mente certe cose…»
Mirka cominciava a perdere la pazienza, mentre si rivestiva imprecava sottovoce e sbuffava.
«Tieni», aveva detto Riza porgendole una borsetta bianca. Mirka aveva sgranato gli occhi e dopo una breve pausa senza respiro aveva cominciato a sbattergliela addosso: «Brutto bastardo! Sei stato tu! Io t’ammazzo… guarda come m’hanno ridotta per colpa tua.»
«Non manca niente, ci sono tutti, controlla pure… non ho preso un euro.»
Mirka l’aveva colpito con rabbia e poi s’era messa a piangere isterica, intanto frugava nella borsa e lo mandava affanculo. Riza aspettava con un sorriso incerto sulla faccia. Le aveva restituito la borsa che lui stesso le aveva rubato due settimane prima. Non mancava niente. Era certo di farla felice, invece erano venute fuori reazioni impreviste e adesso non sapeva più che fare. La ragazza alternava momenti rabbiosi e minacciosi ad altri di crisi e di pianto (ma come? prima mi rapini e poi diventi cliente? Chi sei, un maniaco? Mi hai pure spiato?), in queste occasioni si accasciava a terra e frignava come una bambina, allora Riza si avvicinava per consolarla (Ti amo, dal primo giorno che t’ho vista… Andiamocene via, insieme) e proprio allora lei lo ricacciava via con tutta la rabbia che aveva in corpo. Gli aveva persino sputato, ma Riza non gli aveva dato importanza, era confusa: in un solo momento le aveva rivelato la sua doppia faccia di ladro e benefattore insieme, e la ragazza era crollata. Questo Riza andava costruendo nell’intricata maglia delle sue sinapsi, ma ogni supposizione più ottimista si era sbriciolata quando lei, con molta calma e una scansione quasi analitica, aveva cominciato a spiegare cosa avrebbero fatto.
«Adesso io prendo questi miei soldi e… diciamo che li faccio sparire… li spedisco a mia madre, ma tu non sai niente, non mi hai mai visto. Non sei stato tu a scipparmi e tanto meno a riportarmi la borsa… io non ti conosco», aveva arrestato il fiotto di imperativi che le uscivano di bocca per dar forma a un pensiero più istintivo. «Tu sei pazzo, a quale cazzo di ladro viene in mente di pentirsi e riconsegnare la borsa al proprietario? Da dove salti fuori? Comunque ti ripeto: io non ti conosco. Fila via, non voglio più vedere la tua faccia da queste parti.»
Ma siccome Riza se ne stava lì imbambolato ad ascoltare quella vocina incantevole, che adesso si era calmata e sembrava così intelligente e razionale, rivelando altre interessanti doti da sposare, lei aveva ripreso il tono alterato di qualche minuto prima: «Hai capito che t’ammazzano se ti scoprono? Guarda cosa hanno fatto a me solo perché m’hanno scippato, se ti beccano ti fanno fuori… anzi ci fanno fuori a tutti e due! Se racconti qualcosa di noi e di questi soldi è la fine… vattene, vattene, cazzo!»