Al rumore soffocato della pioggia, che scrosciava dietro ai vetri chiusi della finestra, ogni tanto si sommava il crepitare di qualche grosso pezzo di tabacco bruciato dentro una sigaretta dimenticata accesa nel posacenere. Carlo restava vestito, seduto in poltrona a godere di un leggero mal di schiena che gli rendeva più dolce l’approfondirsi della sera. Un piccolo libro nelle sue mani prendeva luce da una lampada da tavolo. Valeria stava già a letto e anche lei leggeva, ma tenendo il libro con una mano sola mentre tutto l’altro braccio stava al caldo sotto le coperte. 
Quando a ognuno di loro capitava di voltare pagina, nel breve intervallo, dava uno rapido sguardo all’altro. In uno di questi intervalli Carlo trovò gli occhi di Valeria ad aspettarlo. 
«Tu mi andresti a fare un tè con dentro il miele?», disse lei con voce infantile e comica. «Se mi ami lo fai…», aggiunse scandendo. 
Carlo guardò l’orologio, erano le undici, quindi chiese con finto sussiego: «Nient’altro?» 
«Due biscottini al cioccolato», rispose Valeria pronta. 
Lui stirò un sorriso esagerato facendo un cenno in avanti col capo, poi finse di essere molto molto stanco e si alzò dalla poltrona puntellandosi con i gomiti e gemendo rumorosamente. Dopo riprese subito un portamento agile e si chinò a posarle un bacio sulla bocca prima di dirigersi in cucina. 
In cucina non si sentiva la pioggia, c’era un silenzio ronzante e un po’ di freddo di quasi inverno. Carlo si guardava intorno. Quasi tutti i mobili erano gli stessi di quando Valeria viveva nell’appartamento di prima. Soprattutto in camera da letto avevano disposto le cose esattamente nello stesso modo, tanto che sembrava a volte di stare ancora nella sua vecchia casa. La prima casa in cui Valeria aveva affittato una singola e Carlo aveva potuto restare a dormire con lei tutte le volte che avesse voluto. Poi le altre inquiline a una a una se ne erano andate per la loro strada, i padroni di casa avevano deciso di rimodernare l’appartamento e Carlo e Valeria si erano cercati un altro posto in cui poter finalmente andare ad abitare insieme. I vecchi affittuari avevano regalato loro tutta quella mobilia che gli fosse servita visto che avrebbero comunque cambiato tutto da cima a fondo. Il figlio si sposava e c’era da fare una casa nuova con mobili nuovi e tutto. I vecchi credenzini della nonna, la toeletta con lo specchio grande e il piano di marmo rosa potevano sparire tranquillamente. Carlo e Valeria salvarono quei pezzi di arredamento di altri tempi dal macero e ben lontani dall’idea di sposarsi, ancor più lontani dalla possibilità e anche dal desiderio stesso di farsi una casa tutta nuova, presero in affitto due locali con bagno al piano terreno. 
Il bollitore fischiò. Carlo versò l’acqua nella tazza, sopra alla bustina. Preparò due biscotti sul piattino, disponendoli intorno alla tazza e sedette di nuovo in attesa che il tè infondesse. Il gatto entrò in cucina strisciando contro il muro. Carlo lo vide con la coda dell’occhio e subito lo sentì fra i piedi che si strusciava. Era il terzo inquilino della casa, si sarebbe chiamato Füssli, come il pittore svizzero dell’Incubo, ma la mancanza di abitudine a pronunciare nomi stranieri l’aveva presto fatto diventare, semplicemente, Fusli.  Valeria gli aveva dato quel nome molto tempo dopo averlo adottato, dopo svariati tentativi, ma ora Fusli era Fusli, anzi il Fuss o Fusslastro o Lillifuss o come veniva. Fusli era un gatto nero con due zampine bianche, quelle davanti, e una macchia bianca sulla gola. Un amico di Carlo l’aveva trovato abbandonato in un cortile quando era ancora un cucciolo. Carlo lo andò a prendere e Valeria lo accolse in casa tra la diffidenza delle altre inquiline.

Il tè era pronto. Carlo tolse la bustina, versò due cucchiaini di miele e strizzò qualche goccia di un limone mezzo secco che stava in frigo. Poi prese tazza, piattino e biscotti e portò tutto in camera da letto, dove Valeria sorrideva soddisfatta. Appoggiò tutto sul comodino accanto a lei e si lasciò cadere di nuovo in poltrona facendo finta di rimettersi subito a leggere. 
«Lo sai che sei proprio bravo tu?», tubò Valeria come ringraziamento. 
«Hm-Hm.» rispose lui.  
«Lo sai che sei il mio preferito?»
«Hmm-Hmm.» 
«Sei il più perfetto!» Carlo si limitò a dondolare la testa, fingeva di non sentire tutta quell’adulazione. Cercava di ostentare disinteresse, come se tutto il suo dovere si fosse compiuto nella preparazione dello spuntino notturno e ora potesse astenersi dal tubare anche lui. 
«Sei proprio il mio cucciolo, il mio amore…», cinguettò Valeria imperterrita. 
Poi, come se non fosse riuscita più a contenere quelle parole, appoggiò la tazza e il piattino sul comodino, tese le braccia verso di lui e comandò: «Vieni qui.» 
Carlo sapeva che alla fine avrebbe detto così e si era preparato mentalmente. Appena lei lo disse, lui scattò in un salto che lo fece atterrare pesantemente sul letto, sopra di lei. Valeria scoppiò a ridere e lui la strinse e le fece il solletico. Lottarono un po’, poi Carlo si lasciò cadere di fianco a Valeria e chiuse gli occhi. Lei cominciò a sorseggiare il tè passandogli le dita della mano libera fra i capelli. Il gatto comparve ai piedi del letto e saltò su. Li guardò entrambi con i suoi occhi gialli e fissi, gironzolò un po’, poi si sdraiò addosso a un fianco di Valeria stirando tutte le zampe contemporaneamente. 
«Non è sempre più bello il Fuss? Guarda com’è lungo… Mi piace un casino quando si stiracchia le zampe, che apre tutti i polpastrelli…» 
Carlo si limitò ad annuire e guardò il gatto a sua volta. Allungò un braccio e accarezzò la testa al micio. Fusli si girò sulla schiena mostrando la gola, allora Carlo prese a grattarlo con la punta delle unghie in mezzo alla chiazza bianca. Il gatto socchiuse gli occhi e cominciò a ronzare piano. Dopo qualche minuto, Carlo lo prese e se lo tirò sul petto. 
«Ehi, siete belli voi due», disse Valeria con un sussurro. 
«Sssì…», rispose Carlo. Il gatto prontamente scattò sulle zampe e gli saltò via dalle braccia. 
«No Fusli», esclamò Valeria, «non devi scappare via dal tuo papà.» 
Il gatto non restava mai molto a farsi coccolare da Carlo. 
«Sembra che non lo sa che sei il suo papi…» continuò lei. 
«Basta con questa storia del papi e della mami», la interruppe Carlo. 
«Perché?» 
«Sembriamo due dementi.» 
«E chi lo dice?», fece lei con voce più risentita. 
«Mia sorella, per esempio.» 
«E da quando stai a sentire quello che dice tua sorella?» 
«Da mai, ma quelle volte che ha ragione, ha ragione.» 
Valeria sembrava un po’ perplessa. Stava elaborando la battuta successiva. 
«Sembra che tu non voglia fare un bambino con me…» 
«Che c’entra!? Un bambino è un bambino, ma fare i genitori di un gatto è proprio patetico, aspettiamo di restare irrimediabilmente senza figli per fare queste scenette.» 
«Però sembra che ti dia fastidio che io ti chiami il papi.» 
«Al massimo si potrebbe dire: il papà, ecco… E poi sai che lo farei. Prima o poi lo faremo un bambinello», “ma per adesso costa meno una scatola di preservativi che mantenere un figlio”, finì di pensare Carlo. 
Valeria allungò le braccia, attirò a sé la testa di Carlo e se la strinse forte al petto. Da un po’ di tempo quello sembrava un argomento tabù fra di loro. Quando emergeva, non riuscivano mai ad affrontarlo se non con qualche scambio di battute secche che sviava il discorso. Poi si inabissava di nuovo, scompariva per settimane per poi uscire fuori nel mezzo di altre conversazioni che apparentemente non c’entravano nulla.
Dopo essere andati a vivere insieme, quello di riprodursi era diventato un pensiero più vicino a tutti e due, anche se nessuno voleva ammetterlo. Consciamente invece entrambi dicevano a sé stessi di essere ancora giovani, che si poteva benissimo aspettare. Avevano riciclato i vecchi mobili, erano rimasti due disordinati cronici e con il frigorifero sempre mezzo vuoto. Avevano mantenuto le sembianze della vita randagia e chiassosa che facevano prima, ma innegabilmente qualcosa era cambiato. Ora che dormivano sempre insieme, mangiavano insieme, sempre più spesso stavano in casa la sera e il tè si sostituiva al vino, sembrava che ci fosse qualcos’altro da fare. L’ultimo compito di una coppia, quello definitivo, la procreazione. Poco dopo stavano facendo l’amore – con il preservativo – e quei pensieri non li preoccupavano più quando si addormentarono l’uno nelle braccia dell’altra. 

Quella notte Carlo sognò di incontrare il suo professore di lettere delle superiori in una strada di campagna. Lo vedeva camminare da dietro con uno zaino in spalla. Il professore stava imboccando un sentiero che costeggiava un muretto di pietre in mezzo a un prato. C’era un bel sole, una bella luce. Carlo chiamava il prof. a gran voce e si sentiva molto felice di averlo incontrato. Poi il sogno si svolgeva in un colloquio amichevole in cui Carlo confidava al professore che la sua ragazza era da poco rimasta incita, di stare per diventare padre. 
Intanto Valeria, nel sonno, vide sé stessa essere gravida. Aveva una piccola pancia tonda e matura e camminava per strada con un vestito verde che le arrivava alle ginocchia. Nella scena successiva, la vagina di Valeria era la protagonista, larga e rossa su di una poltrona da ginecologo. Un gattino nero saltava fuori aggraziatamente, tutto asciutto. Il felino, come stilizzato, correva poi libero in uno spazio bianco, indefinito, e il sogno sfumava. 
Fusli, quella notte, sonnecchiò dietro la poltrona poi, verso le tre, gli sembrò di stare per acchiappare un passero. Ma proprio quando ce l’aveva fra i denti si svegliò e scosse la testa. Subito scattò sulle zampe e trottò verso il balcone, uscì in giardino, nella notte. I gatti, del resto, dormono soprattutto di giorno.