Per me era un problema serio, altro che la droga, era un problema snervante, ma ovviamente io stavo zitto, non lo davo mai a vedere e quando mi dicevano Che bello, una casa al Pigneto, proprio al centro del quartierino che pare un paese, ci hai pure il balcone, che bello!, io facevo il dritto, annuivo sornione, mi tenevo tutto dentro, ma adesso devo parlare.
Che per festeggiare il mio arrivo, un mio conoscente neanche troppo simpatico mi regalò una piantina grassa, di quelle che se pure ti scordi di annaffiarle campano lo stesso, così mi aveva detto il conoscente, ed era una buona cosa perché io a scordarmi mi sarei scordato sicuro, mi conosco. Era una piantina piccola, a modo, non occupava spazio, la misi sulla libreria, ogni tanto le davo due gocce d’acqua, mi sentivo il pollice verde, mio padre che ci ha la passione del giardinaggio poteva essere orgoglioso di me, una volta tanto. La casa era carina, come iddio comanda, ma i mobili erano un po’ datati, erano anziani, e come certi anziani la libreria traballava a ogni sospiro, e a ogni sospiro la piantina grassa si buttava a caposotto tutta contenta, battendo sul parquet e menando terreno di qua e di là, che mi toccava chinarmi, raccogliere il terreno e ributtarlo nel vasetto, rimettere il vasetto sulla libreria, spazzare il parquet buttando il terreno via dal balcone e, già che mi trovavo, lanciare pure qualche occhiata torva ai maledetti piccioni che mi controllavano da sopra alla grondaia della moschea dirimpetto.
Una piantina grassa non ha bisogno quasi di niente, solo di luce, mi dicevano, dando per scontato che io avevo il balcone, avevo la luce. E invece la vita non è mai così logica e lineare, perché io avevo il balcone vista Pigneto, ma Pigneto deriva da pineta, che deriva da pini, perché qui una volta era letteralmente tutta campagna, e quindi io avevo il balcone vista pino. Che se mi domandi Come mai la moschea non l’hai vista subito?, io ti dico E perché, secondo te? Perché c’era il pino!
La luce provava a infiltrarsi fra le fronde, ma l’albero faceva il bullo, non faceva passare nessuno, come i buttafuori davanti alla discoteca a Portonaccio. Un’altra sola finestra aveva la mia casetta, ed era la finestra della cucina, bella larga larga, vista muro. Era il muro del mio bagno, lo riconoscevo, mi faceva pure simpatia, figurarsi, era il bagno mio, ma di luce nemmeno a parlarne.
Di bagni in casa ce n’erano due, ma i miei coinquilini, che abitavano lì da prima di me, i miei coinquilini si erano accaparrati il bagno più grande con la finestra, beati loro, però loro vivevano in una camera doppia, bisogna dirlo, io avevo una stanza singola, io, contrariamente a loro, avevo un balcone.
I miei coinquilini erano due terroni in una camera doppia. Li chiamo terroni, anch’io son terrone, è per riderci su, nel senso che erano lo stereotipo del terrone, caciaroni, confusionari, terroni di testa e non di provenienza, si frequentavano solo con altri terroni loro compaesani, uscivano in mandria, e se invitavano qualcuno a casa non si poteva fare conversazione perché si parlava solo nella loro lingua terrona che era diversa dalla mia lingua terrona e allora capivo poche cose e a sprazzi, mi ci dovevo impegnare, non era mica una vita facile.
Erano persone a modo, i miei coinquilini, erano gentili, bravi ragazzi, erano studenti, più giovani di me, conversare si conversava con piacere, non fosse che io, con i miei coinquilini, non avevo una diavolo di conversazione da fare, interessi troppo diversi. Non sapevo che dirgli, parlavo poco, alla fine per questo mio essere taciturno venni scambiato da loro per un intellettuale.
E forse per questa caratteristica di intellettuale mai, in quei mesi, mai mi fecero domande sulle mie urla verso il balcone, sui piedi che pestavano il parquet durante le notti insonni, sui miei rapporti apparenti con l’Isis. Forse già sapevano. Forse a dirla tutta preferivano non sapere.
E vorrei ben vedere, pensavo io, con l’ansia acca ventiquattro, le notti agitate che mi svegliavo col dannato trù trù sul balcone, mi scapicollavo fuori dal letto mandando al diavolo il lenzuolo pesante di sudore, maledicevo il balcone, mi lanciavo in balli esorcistici, battevo le mani, menavo i piedi, la libreria saltava per la sorpresa, la piantina grassa ne approfittava per un caposotto, contenta, si lanciava, io a istinto, nel buio, la prendevo al volo prima che vomitava terreno sul parquet, prima che cadendo faceva rumore e svegliava i terroni, la prendevo al volo, gli aghi mi si infilzavano fra le dita, porca la maiala, un dolore che non solo scaraventavo a terra la pianta, ma urlavo come i gatti che di notte si prendono a schiaffi al Mandrione, saltavo per il dolore, facendo saltare anche la libreria che se ci fosse stata un’altra piantina sopra, meno male non c’era, ma se ci fosse stata, si sarebbe tuffata a caposotto pure lei, quei maledetti, maledetti, fottutissimi piccioni.
Quando i nostri amici, o i miei genitori, seguitavano a chiedere Ma tu e Maria come mai avete preso due case diverse? noi ci rispondevamo pazienti, ma loro al principio non erano convinti, era inusuale. Poi però portavamo le nostre motivazioni, che era una questione di spazi, che già lavoriamo assieme, abitare pure assieme era come sposarsi, volevamo prendere tempo, e non affrettare le cose solo per una questione di comodità. Così loro ci davano ragione, e vorrei ben dire, avere ragione avevamo ragione, ci avevamo pensato mica poco.
A Maria però le erano capitate coinquiline molto simpatiche, loro erano in quattro, conversare si poteva conversare e ci erano finanche argomenti di conversazione.
Quando ci chiedevano Ma tu e Maria come mai due case diverse?, io rispondevo sicuro di me, però poi ogni tanto, a tradimento, pigliavo Maria, le chiedevo Ma io e te come mai due case diverse?
Gli spazi, mi rispondeva lei, Ti ricordi?, È una questione di spazi e di non affrettare i tempi, mi diceva. E ci aveva ragione, lo sapevo che ci aveva ragione, ci avevamo pensato mica poco, ma lei aveva una casa senza il balcone, i piccioni coi rametti, quella merdosa piantina grassa, le conversazioni senza argomenti, sì, avere ragione ci aveva ragione, ognuno i suoi spazi, ma io alla fin fine stavo sempre da lei.